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venerdì 8 maggio 2020
lunedì 23 marzo 2020
mercoledì 20 maggio 2015
Piccoli Dardenne Crescono
Ho la vaga impressione che, al di fuori di questo paese, si creda che il cinema francese sia quello dove un gruppo di parigini ricchi e stronzi del 16° arrondissement si ritrovino a parlare dei loro inesistenti problemi esistenziali.
Questo cinema esiste, certo, e già ne ho detto tutto il male possibile, ma il vero cinema francese - vorrei fosse chiaro - è tutta un'altra cosa. E' un cinema complesso e profondo, fatto di stili, generi e storie molto diverse. Un filone di questo cinema intelligente, si occupa di temi forti e terribilmente attuali. Film alla "Dardenne", per intenderci, volendo prendere a esempio questi due fratelli (sì, lo so che sono Belga, ma tant'è) che hanno fatto del film "sociale" il loro riuscitissimo marchio di fabbrica.
In questi ultimi giorni ho visto due film che sono un bellissimo esempio di un cinema francese capace di leggere e restituire il mondo che ci circonda in maniera potentissima. Entrambi giustamente in competizione al Festival di Cannes tutt'ora in corso: La Loi du Marché di Stéphane Brizé e di La Tête Haute di Emmanuelle Bercot.
Personalmente, amo il cinema di Brizé da diverso tempo. Dalla malinconia di Je ne suis pas là pour être aimé in poi, non mi sono persa una sua storia. Ancora ripenso a quanto ho pianto vedendo Quelques Heures de Printemps, un film magnifico (davvero sotto-estimato) che trattava di eutanasia, del difficile rapporto madre-figlio, della solitudine e confusione dell'uomo moderno. Regista di grande understatement, di pulitissima regia, di rigore estremo, Brizé con questa nuova prova conferma tutte le sue immense qualità.
La loi du marché racconta una storia semplice quanto spietata: Thierry è un uomo di mezza età che ha perso il lavoro. La sua vita, ora, la passa a mandare CV, far rivedere il suo dossier da Pôle Emploi, e incontrare quelli della banca per cercare di non perdere l'appartamento che lui e la moglie stanno quasi finendo di pagare. Con un figlio handicappato, la macchina che si rompe, e una mobil-home che non si riesce a vendere, le cose non sembrano andare per il verso giusto. Quando finalmente trova lavoro in un supermercato, Thierry si rende conto di quanto spietata sia diventata "la legge del mercato".
Brizé sembra aver tolto tutto il superfluo, a questa storia, sembra aver scavato nella carne fino a lasciare solo l'osso, una superficie che brilla perché levigata, intatta. Le scene che si susseguono sono brevi, intense, filmate strette sui volti dei protagonisti, e non lasciano spazio a nessuna retorica, nessun vittimismo, nessun sentimentalismo. Non c'è bisogno di molto per far capire la stupidità e la tristezza di un colloquio di lavoro via skype. Non serve nemmeno far vedere la faccia dello stronzo che sta facendo le domande. Basta inquadrare l'intervistato, vedere come sta seduto, sentire la sua voce, intuire la rassegnazione e la disperazione con la quale risponde. Vincent Lindon, già complice di Brizé su altri due film, qui dà prova di tutta la sua bravura e, in mezzo ad un cast di attori non professionisti, si confonde con loro, si mimetizza, sparisce. Il suo personaggio di uomo sconfitto ma dignitoso è l'unica luce in un mondo che sembra aver perso qualsiasi dimensione e pietà umana.
Emmanuelle Bercot, qui in Francia più conosciuta forse come attrice che come regista, ha avuto grande successo nel 2013 con un film intitolato Elle s'en va, la cui protagonista era Catherine Deneuve, in un ruolo tagliato su misura per lei. Le due donne si sono ritrovate per La Tête Haute, dove la Deneuve interpreta un giudice per l'infanzia che si occupa per diverse anni del caso di Malony, un giovane delinquente cresciuto in condizioni precarie da una madre disgraziata (e stupida ai limiti dell'insopportabile). Il minore, dalla scolarità quasi pari allo zero e dal comportamento estremamente violento, vive tra case di correzioni e la galera. Aiutato dal giudice Florence, da un educatore che si prende a cuore il suo caso (rivedendosi un po' nel ragazzo), e da una giovane innamorata, Malony riuscirà nonostante tutto a diventare a poco a poco un adulto responsabile.
Anche in questo caso, la solida, ottima regia della Bercot ci trascina in una storia dal ritmo serrato, dove c’è poco spazio per le cose inutili e per i fronzoli. Malony sembra condannato, come tanti altri ragazzi nati e cresciuti in contesti poco fortunati, ad una vita da delinquente. Eppure, nonostante le ricadute siano tante e ogni volta segnate dalla paura che il baratro si spalanchi definitivo sotto i suoi piedi, ci si ritrova a sperare, insieme al giudice, all’educatore, agli operatori che (con un coraggio che andrebbe premiato!) si occupano nelle diverse strutture di questi ragazzi “difficili”, che Malony ce la possa fare. Nonostante una madre incapace sotto tutti i punti di vista di essere tale, nonostante la rabbia, la violenza, si farebbero carte false perché Malony ci riesca.
Merito soprattutto dell’attore che la Bercot ha trovato per impersonarlo: Rod Paradot, faccetta da schiaffi su un fisico minuto e nervoso. Tanto Lindon è calmo e contenuto nella sua interpretazione, quanto Paradot è agitato e strabordante. Con una naturalezza da attore consumato (è su uno schermo per la prima volta in vita sua) ci regala un anti-eroe a cui è difficile non volere bene fin dalla prima inquadratura.
Che questi due attori siano dei più che probabili candidati al premio per la migliore interpretazione a Cannes, a me pare una certezza.
Questo cinema esiste, certo, e già ne ho detto tutto il male possibile, ma il vero cinema francese - vorrei fosse chiaro - è tutta un'altra cosa. E' un cinema complesso e profondo, fatto di stili, generi e storie molto diverse. Un filone di questo cinema intelligente, si occupa di temi forti e terribilmente attuali. Film alla "Dardenne", per intenderci, volendo prendere a esempio questi due fratelli (sì, lo so che sono Belga, ma tant'è) che hanno fatto del film "sociale" il loro riuscitissimo marchio di fabbrica.
In questi ultimi giorni ho visto due film che sono un bellissimo esempio di un cinema francese capace di leggere e restituire il mondo che ci circonda in maniera potentissima. Entrambi giustamente in competizione al Festival di Cannes tutt'ora in corso: La Loi du Marché di Stéphane Brizé e di La Tête Haute di Emmanuelle Bercot.
Personalmente, amo il cinema di Brizé da diverso tempo. Dalla malinconia di Je ne suis pas là pour être aimé in poi, non mi sono persa una sua storia. Ancora ripenso a quanto ho pianto vedendo Quelques Heures de Printemps, un film magnifico (davvero sotto-estimato) che trattava di eutanasia, del difficile rapporto madre-figlio, della solitudine e confusione dell'uomo moderno. Regista di grande understatement, di pulitissima regia, di rigore estremo, Brizé con questa nuova prova conferma tutte le sue immense qualità.
La loi du marché racconta una storia semplice quanto spietata: Thierry è un uomo di mezza età che ha perso il lavoro. La sua vita, ora, la passa a mandare CV, far rivedere il suo dossier da Pôle Emploi, e incontrare quelli della banca per cercare di non perdere l'appartamento che lui e la moglie stanno quasi finendo di pagare. Con un figlio handicappato, la macchina che si rompe, e una mobil-home che non si riesce a vendere, le cose non sembrano andare per il verso giusto. Quando finalmente trova lavoro in un supermercato, Thierry si rende conto di quanto spietata sia diventata "la legge del mercato".
Brizé sembra aver tolto tutto il superfluo, a questa storia, sembra aver scavato nella carne fino a lasciare solo l'osso, una superficie che brilla perché levigata, intatta. Le scene che si susseguono sono brevi, intense, filmate strette sui volti dei protagonisti, e non lasciano spazio a nessuna retorica, nessun vittimismo, nessun sentimentalismo. Non c'è bisogno di molto per far capire la stupidità e la tristezza di un colloquio di lavoro via skype. Non serve nemmeno far vedere la faccia dello stronzo che sta facendo le domande. Basta inquadrare l'intervistato, vedere come sta seduto, sentire la sua voce, intuire la rassegnazione e la disperazione con la quale risponde. Vincent Lindon, già complice di Brizé su altri due film, qui dà prova di tutta la sua bravura e, in mezzo ad un cast di attori non professionisti, si confonde con loro, si mimetizza, sparisce. Il suo personaggio di uomo sconfitto ma dignitoso è l'unica luce in un mondo che sembra aver perso qualsiasi dimensione e pietà umana.
Emmanuelle Bercot, qui in Francia più conosciuta forse come attrice che come regista, ha avuto grande successo nel 2013 con un film intitolato Elle s'en va, la cui protagonista era Catherine Deneuve, in un ruolo tagliato su misura per lei. Le due donne si sono ritrovate per La Tête Haute, dove la Deneuve interpreta un giudice per l'infanzia che si occupa per diverse anni del caso di Malony, un giovane delinquente cresciuto in condizioni precarie da una madre disgraziata (e stupida ai limiti dell'insopportabile). Il minore, dalla scolarità quasi pari allo zero e dal comportamento estremamente violento, vive tra case di correzioni e la galera. Aiutato dal giudice Florence, da un educatore che si prende a cuore il suo caso (rivedendosi un po' nel ragazzo), e da una giovane innamorata, Malony riuscirà nonostante tutto a diventare a poco a poco un adulto responsabile.
Anche in questo caso, la solida, ottima regia della Bercot ci trascina in una storia dal ritmo serrato, dove c’è poco spazio per le cose inutili e per i fronzoli. Malony sembra condannato, come tanti altri ragazzi nati e cresciuti in contesti poco fortunati, ad una vita da delinquente. Eppure, nonostante le ricadute siano tante e ogni volta segnate dalla paura che il baratro si spalanchi definitivo sotto i suoi piedi, ci si ritrova a sperare, insieme al giudice, all’educatore, agli operatori che (con un coraggio che andrebbe premiato!) si occupano nelle diverse strutture di questi ragazzi “difficili”, che Malony ce la possa fare. Nonostante una madre incapace sotto tutti i punti di vista di essere tale, nonostante la rabbia, la violenza, si farebbero carte false perché Malony ci riesca.
Merito soprattutto dell’attore che la Bercot ha trovato per impersonarlo: Rod Paradot, faccetta da schiaffi su un fisico minuto e nervoso. Tanto Lindon è calmo e contenuto nella sua interpretazione, quanto Paradot è agitato e strabordante. Con una naturalezza da attore consumato (è su uno schermo per la prima volta in vita sua) ci regala un anti-eroe a cui è difficile non volere bene fin dalla prima inquadratura.
Che questi due attori siano dei più che probabili candidati al premio per la migliore interpretazione a Cannes, a me pare una certezza.
sabato 11 ottobre 2014
3 Coeurs (e una capanna)
E va bene, ammettiamolo.
Da quando vivo a Parigi (ormai 8 anni), ho sviluppato un sottile ma pervicace odio per un certo tipo di film. Quello, definiamolo così, "alla parigina".
Quel genere di storie di cui potrebbe fregare qualcosa solo agli abitanti del 15° e 16° arrondissement di questa città, il cui problema più grave è quello di trovare un taxi quando piove, o che finiscano le ostriche alla Grand Epicérie del Bon Marché, dove tutti i protagonisti hanno l'aria annoiata (perché, capite bene, noi sì che saremmo per trovare il senso vero della vita, e invece ci tocca stare qua insieme a voi che avete preoccupazioni prosaiche come fare la spesa), dove le donne vestono solo Zadig & Voltaire, e dove gli uomini non devono chiedere mai (ci mancherebbe).
Ecco, non ne posso proprio più, di questi film qua. E mi chiedo come faccia 'sta gente a trovare i soldi per produrre certe cazzate intellettualoidi e prive di senso, mascherate da opere di grande spessore e grande sostanza.
Questa settimana ho fatto una cosa davvero stupida: ho recuperato un film che credevo fosse se non bello almeno interessante, e sono stata punita con la bufala dell'anno: 3 Coeurs di Benoît Jacquot.
Marc Beaulieu è un ispettore delle tasse (e già parte male) che una sera perde l'ultimo treno per Parigi (son problemi) ed è costretto a rimanere per la notte in una città di provincia. E' qui che incontra per caso Sylvie, con cui trascorre la notte a camminare e parlare. Senza scambiarsi né nomi né numeri di telefono, i due si danno appuntamento per la settimana successiva a Parigi. Marc è però colpito da un principio di infarto, e non può raggiungere Sylvie. La donna, a quel punto, decide di accettare la proposta del compagno (con il quale le cose vanno maluccio) di andare a vivere negli Stati Uniti.
Poco tempo dopo, Marc conosce per caso un'altra donna, Sophie, con la quale inizia una storia. Le cose si fanno serie e decidono di sposarsi, ma è a quel punto che Marc scopre che Sylvie e Sophie sono sorelle. Ahi ahi...
A metà film, dal nulla, senza preavviso alcuno, parte una voce off (eh?? cosa?? come??) che poi sparisce nel giro di tre scene. Mah... Si vede che il regista ha letto da qualche parte che mettere la voce off fa molto intéllo, e quindi non voleva farsi scappare l'occasione. E vi tralascio i commenti sul finale perché non vorrei fare spoiler, ma soprattutto vorrei tenervi lontano dalle droghe (mi stava per partire un urlo tipo Tarzan con le liane nel mezzo della foresta).
Non chiedetemi come, ma ho scoperto che qualcuno ha avuto il coraggio di selezionare questo film in competizione all'ultimo Festival di Venezia.
Questo, e il fatto che Dolan abbia vinto solo il Prix du Jury al Festival di Cannes, mi sembrano le più grandi ingiustizie cinematografiche dell'anno.
Fate voi.
Da quando vivo a Parigi (ormai 8 anni), ho sviluppato un sottile ma pervicace odio per un certo tipo di film. Quello, definiamolo così, "alla parigina".
Quel genere di storie di cui potrebbe fregare qualcosa solo agli abitanti del 15° e 16° arrondissement di questa città, il cui problema più grave è quello di trovare un taxi quando piove, o che finiscano le ostriche alla Grand Epicérie del Bon Marché, dove tutti i protagonisti hanno l'aria annoiata (perché, capite bene, noi sì che saremmo per trovare il senso vero della vita, e invece ci tocca stare qua insieme a voi che avete preoccupazioni prosaiche come fare la spesa), dove le donne vestono solo Zadig & Voltaire, e dove gli uomini non devono chiedere mai (ci mancherebbe).
Ecco, non ne posso proprio più, di questi film qua. E mi chiedo come faccia 'sta gente a trovare i soldi per produrre certe cazzate intellettualoidi e prive di senso, mascherate da opere di grande spessore e grande sostanza.
Questa settimana ho fatto una cosa davvero stupida: ho recuperato un film che credevo fosse se non bello almeno interessante, e sono stata punita con la bufala dell'anno: 3 Coeurs di Benoît Jacquot.
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Sylvie (Charlotte Gainsbourg) e Marc (Benoît Poelvoorde) |
Poco tempo dopo, Marc conosce per caso un'altra donna, Sophie, con la quale inizia una storia. Le cose si fanno serie e decidono di sposarsi, ma è a quel punto che Marc scopre che Sylvie e Sophie sono sorelle. Ahi ahi...
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Sophie (Chiara Mastroianni) e Marc (Benoît Poelvoorde) |
In questo film, credetemi, non c'è una singola cosa che funzioni.
Intanto, è scritto malissimo: i dialoghi sono sempre un po' al limite del ridicolo, gli avvenimenti davvero poco credibili (e non è che io voglia la verosimiglianza a tutti i costi, anzi, ma è semplicemente assurdo credere che Marc si renda conto chi è la sorella di Sophie dopo mesi che la conosce), i personaggi sono mal definiti, pochissimo simpatici, banali, spesso irritanti, e gli attori sono diretti con i piedi. Una delle ragioni per cui volevo vedere questo film, lo confesso, era la presenza dell'attore Benoît Poelvoorde, per il quale nutro una certa adorazione, e l'ho trovato pessimo. Vi assicuro, in realtà è un ottimo attore, ma non so come a qualcuno possa venire in mente di fargli fare una parte del genere: non ha la faccia per un ruolo così, e se un regista vuole tentare una cosa nuova, deve essere capace di guidarlo, non lasciarlo lì a fare la figura dell'imbecille. Charlotte Gainsbourg fa... Charlotte Gainsbourg: la donna con l'espressione perennemente corrucciata (su, dai, un sorriso, una volta nella vita), vestita - su un film che copre anni interi - sempre allo stesso modo (reggiseno nero sotto la camicia bianca, tra l'altro una delle cose meno eleganti e belle da vedere che esista al mondo). Chiara Mastroianni (un po' monocorde) e sua mamma Catherine (Deneuve), sono anche bravine ma non riescono a risollevare un film che corre inesorabile verso il baratro.
Intanto, è scritto malissimo: i dialoghi sono sempre un po' al limite del ridicolo, gli avvenimenti davvero poco credibili (e non è che io voglia la verosimiglianza a tutti i costi, anzi, ma è semplicemente assurdo credere che Marc si renda conto chi è la sorella di Sophie dopo mesi che la conosce), i personaggi sono mal definiti, pochissimo simpatici, banali, spesso irritanti, e gli attori sono diretti con i piedi. Una delle ragioni per cui volevo vedere questo film, lo confesso, era la presenza dell'attore Benoît Poelvoorde, per il quale nutro una certa adorazione, e l'ho trovato pessimo. Vi assicuro, in realtà è un ottimo attore, ma non so come a qualcuno possa venire in mente di fargli fare una parte del genere: non ha la faccia per un ruolo così, e se un regista vuole tentare una cosa nuova, deve essere capace di guidarlo, non lasciarlo lì a fare la figura dell'imbecille. Charlotte Gainsbourg fa... Charlotte Gainsbourg: la donna con l'espressione perennemente corrucciata (su, dai, un sorriso, una volta nella vita), vestita - su un film che copre anni interi - sempre allo stesso modo (reggiseno nero sotto la camicia bianca, tra l'altro una delle cose meno eleganti e belle da vedere che esista al mondo). Chiara Mastroianni (un po' monocorde) e sua mamma Catherine (Deneuve), sono anche bravine ma non riescono a risollevare un film che corre inesorabile verso il baratro.
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Sì, anche noi vorremmo dare delle capocciate al muro... |
Ma soprattutto mi ha irritato questo tono che il regista vuole imporre alla pellicola sin dall'inizio, questa pretesa da film d'autore (no, Benoît, ho dato un'occhiata alla tua filmografia e mi dispiace deluderti: hai fatto un paio di film decenti ma questo è tutto, gli autori veri sono altri), questa finta pretesa da film intellettuale ma anche passionale (non ho MAI visto delle scene di sesso più penose di quelle tra Marc e Sophie... meccaniche, scontate, prive della benché minima sensualità e anche prive di fantasia: ce n'erano almeno tre e tutte rigorosamente nella posizione del missionario, sia mai che a qualcuno del 16° venga l'idea che la donna può stare sopra!), di grande potenza emozionale (sì, pari ad un pomeriggio passato a farsi la pedicure), di conflitto umano e morale che voi spettatori che prendete il métro tutti i giorni manco ve lo sognate, eh?
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Le sorelle e la mamma (Catherine Deneuve) |
Non chiedetemi come, ma ho scoperto che qualcuno ha avuto il coraggio di selezionare questo film in competizione all'ultimo Festival di Venezia.
Questo, e il fatto che Dolan abbia vinto solo il Prix du Jury al Festival di Cannes, mi sembrano le più grandi ingiustizie cinematografiche dell'anno.
Fate voi.
mercoledì 10 aprile 2013
La soirée des sœurs jumelles
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Les Demoiselles de Rochefort (Catherine Deneuve and her sister Françoise Dorléac) |
Have you ever had a twin sister?
I was personally so lucky to find one in my life some years ago: her name is Patricia, like Jean Seberg in À bout de Souffle, and not only she has her same name but she really looks like her.
This was, of course, the reason why I talked to Patricia the first time I met her.
Few months later (I was still living in Italy) I went to visit her in Paris and from that very moment on it was "friendship at first sight"!
Patricia and I found out to have in common, among many other things, an unconditional love for Jacques Demy.
We even made together some pilgrimages on Demy’s movies places: Nantes (where Patricia comes from, by the way) and Rochefort, because “our” movie is Les Demoiselles de Rochefort.
When a couple of weeks ago I received from the Cinémathèque Française the invitation to a very special avant-première of their exhibition on Jacques Demy, I didn’t even have to think about the person who has to be there with me. Evidently enough, c’était ma jumelle!
So, Monday night at 7 pm, we were ready to enter the enchanting world of Monsieur Demy.
And enchanted we were!
I was personally so lucky to find one in my life some years ago: her name is Patricia, like Jean Seberg in À bout de Souffle, and not only she has her same name but she really looks like her.
This was, of course, the reason why I talked to Patricia the first time I met her.
Few months later (I was still living in Italy) I went to visit her in Paris and from that very moment on it was "friendship at first sight"!
Patricia and I found out to have in common, among many other things, an unconditional love for Jacques Demy.
We even made together some pilgrimages on Demy’s movies places: Nantes (where Patricia comes from, by the way) and Rochefort, because “our” movie is Les Demoiselles de Rochefort.
When a couple of weeks ago I received from the Cinémathèque Française the invitation to a very special avant-première of their exhibition on Jacques Demy, I didn’t even have to think about the person who has to be there with me. Evidently enough, c’était ma jumelle!
So, Monday night at 7 pm, we were ready to enter the enchanting world of Monsieur Demy.
And enchanted we were!
The exhibition is a must-see for any Demy fan in the world: the entire fifth floor of the Cinémathèque has been split in small rooms containing the different Demy universes, corresponding to each of his movies.
From the Nantes of Lola, to the one of Une chambre en ville, from the wonderful papier-peints of Les Parapluies de Cherbourg, to the reproduction of the art gallery in Les Demoiselles de Rochefort, you are happy to be swallowed up by the world created by Jacques Demy and his collaborators (oh, the magnificent costumes of Peau d'Âne!).
I particularly liked the pictures taken on the different sets by Agnès Varda, and the small objects that make a big difference, like the congratulations letters received by his friends (Truffaut, Cocteau...) and the card invitations to the avant-première of his movies.
From the Nantes of Lola, to the one of Une chambre en ville, from the wonderful papier-peints of Les Parapluies de Cherbourg, to the reproduction of the art gallery in Les Demoiselles de Rochefort, you are happy to be swallowed up by the world created by Jacques Demy and his collaborators (oh, the magnificent costumes of Peau d'Âne!).
I particularly liked the pictures taken on the different sets by Agnès Varda, and the small objects that make a big difference, like the congratulations letters received by his friends (Truffaut, Cocteau...) and the card invitations to the avant-première of his movies.
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Madame Emery and Roland Cassard - Les Parapluies de Cherbourg |
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Invitation to the avant-première of Les Demoiselles de Rochefort |
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The sumptuos costumes of Peau d'Ane |
Many cinema stars were at the appointment as well: Michel Gondry, Jane Birkin, Virginie Ledoyen, Costa Gavras, Lambert Wilson, Salma Hayek, Claudia Cardinale, Valérie Donzelli et Jérémie Elkaïm, Louise Bourgoin, Déborah François, Agathe Bonitzer, Guillaume Gouix (Serge, the killer of Les Revenants), Melvil Poupaud (at his best!), and even secretive French film-maker Leos Carax, with his unavoidable black glasses.
The royal touch was gently provided by the Prince Albert of Monaco, who apparently is a huge Demy fan. The only one missing, evidently enough, was Catherine Deneuve. Was she out of France? Difficult to believe, but not hard to understand why this event could be way too emotional for her.
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Geneviève and Madame Emery - Les Parapluies de Cherbourg |
And emotional is the word I would use to describe the next best thing of the soirée: a special concert by one of Jacques Demy’s best friends and most precious collaborators, Michel Legrand. The musician, 81 years old and the enthusiasm of a 20something, played with his small band many songs from Demy’s movies with a new, jazzy, fabulous arrangement.
Patricia and I burst into tears several times, trying (uselessly enough) not to let the other being aware of that, but at the end, when a picture of Jacques Demy invaded the screen, and Legrand kept looking at him, waving a good bye, we both cried without restraint.
Patricia and I burst into tears several times, trying (uselessly enough) not to let the other being aware of that, but at the end, when a picture of Jacques Demy invaded the screen, and Legrand kept looking at him, waving a good bye, we both cried without restraint.
Les soeur jumelles ont le cœur doux!
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Michel Legrand - The Cinémathèque Concert |
We definitely needed a glass of champagne to overcome the difficult moment.
Luckily enough, the Merveilleux Cocktail offered by Dalloyau was the grand final de la soirée.
The problem with my twin sister and I, is that we really love champagne, and when we start drinking it, well, it is difficult to stop us. And then we become even more sociable than we normally are.
This basically means we went to talk to any actor/actress we vaguely love who was in the room (I personally wanted to put my arms around Melvil Poupaud but since there was his family there I just told him how fabulous he was in the last Dolan's movie).
I have to confess that the one who had to pay dearly for our uncontrollable enthusiasm was Mathieu Demy: we first met him in the exhibition, while we were taking a pictures of ourselves near Les Demoiselles de Rochefort (and he was already laughing a lot), but then we saw him from a balcony where the cocktail was taking place and we kept stupidly waving at him, and in the end we just blocked him in a corner. He looked scared. We said: "Don’t worry, we are not as crazy as we look!" We confessed him all our love for his father, and all the things we have done because of that, and once our speech was over, Mathieu looked really impressed and he even drank a glass of champagne with us.
Truth is, he couldn’t stop laughing.
My twin sister and I can be pretty funny, c'est vrai... At least five different people that night came to see us, asking: "Are you twin sisters?" Of course we are, can’t you see THAT??!
The problem with my twin sister and I, is that we really love champagne, and when we start drinking it, well, it is difficult to stop us. And then we become even more sociable than we normally are.
This basically means we went to talk to any actor/actress we vaguely love who was in the room (I personally wanted to put my arms around Melvil Poupaud but since there was his family there I just told him how fabulous he was in the last Dolan's movie).
I have to confess that the one who had to pay dearly for our uncontrollable enthusiasm was Mathieu Demy: we first met him in the exhibition, while we were taking a pictures of ourselves near Les Demoiselles de Rochefort (and he was already laughing a lot), but then we saw him from a balcony where the cocktail was taking place and we kept stupidly waving at him, and in the end we just blocked him in a corner. He looked scared. We said: "Don’t worry, we are not as crazy as we look!" We confessed him all our love for his father, and all the things we have done because of that, and once our speech was over, Mathieu looked really impressed and he even drank a glass of champagne with us.
Truth is, he couldn’t stop laughing.
My twin sister and I can be pretty funny, c'est vrai... At least five different people that night came to see us, asking: "Are you twin sisters?" Of course we are, can’t you see THAT??!
martedì 23 ottobre 2012
Tutte le strade portano a Parigi
Nel mio personalissimo immaginario, questa città era la mia città, perché tutte le strade, qui, portano al cinema. Al cinema che mi piace, al cinema che quando ci penso (mi basta una sola inquadratura, un solo fotogramma), il cuore invia un messaggio di benessere e felicità assoluta a tutto il resto del corpo. Da quando sto qui, non passa giorno senza che mi capiti di pensare: ma ci vivo veramente, in questa città? Intendo dire: un posto dove se mi gira prendo un metrò e in 10 minuti sono sugli Champs Elysées e posso mettermi ad urlare a squarciagola: New York Herald Tribune??!!! Ebbene sì, è vero, è reale!
In questi anni ho accumulato una quantità ridicola di libri sui luoghi di Parigi in cui sono stati girati dei film, e ogni tanto mi diverto a fare dei pellegrinaggi “a tema”, ma una cosa davvero carina che mi succede ultimamente, è che riconosco i posti guardando un film. E non perché li ho visti in un libro, li ho proprio visti con i miei occhi!
Questo fine settimana, ad esempio, colta da tristezza autunnale, ho rivisto due classici del cinema francese. Molto (ma molto, eh!) diversi tra loro per temi e stile, ma entrambi super famosi e indispensabili: Belle de Jour di Luis Buñuel (1967) e Un homme et un femme di Claude Lelouch (1966).
E mentre ero lì che ammiravo i vestitini Yves Saint Laurent sfoggiati da Catherine Deneuve (a proposito: auguri alla Deneuve che proprio ieri ha compiuto 69 anni!), ecco che, quando entra nel palazzo dove va tutti i pomeriggi dalle 14 alle 17 a prostituirsi, mi sembra di cogliere nel luogo un’aria vagamente familiare. Ma certo, è la corte in cui abita il mio amico Denis nel 13° arrondissement! Capite? Ho amici che abitano dove lavorava Belle de Jour!
Ebbene sì, continua la mia grande passione per i film degli anni ’70 (vi ricordate la mia recensione dei 3 Giorni del Condor?). Ho scoperto di avere questa nostalgia mista a struggimento per un modo di essere e di vivere che oggi mi sembra completamente perduto. La tenerezza, ad esempio, di sentir dire ad Anouk Aimée il suo numero di telefono: Montmartre 15-40! O cose come i telegrammi, la posta pneumatica (una mia ossessione!), i vecchi autobus parigini con la parte posteriore tutta aperta. Per non parlare della reazione di Jean-Louis Trintignant alla lettura del telegramma di Anouk Aimée, in cui lei gli ha appena scritto: "Je vous aime". Parte immediatamente da Montecarlo e si fa 5.000 km in macchina di notte per poter essere la mattina presto in Rue Lamarck! (uomini come Jean-Louis Trintignant, se siete lì fuori da qualche parte battete un colpo! Anche due, che a furia di aspettare siamo pure diventate un po’ sorde). E quel monologo bellissimo che gli parte nella testa ad un certo punto del tragitto sul fatto che lei sia una donna notevole per aver avuto il coraggio di scrivergli quelle parole. O la mitica scena in cui al ristorante, dopo aver ordinato la cena, richiama il camiere e gli chiede: "Garçon, avete delle camere?" Non ci posso quasi credere che sono qui che mi sdilinquisco su un film di Lelouche, ma tant’è.
Immagino che la colpa sia sempre di quel sogno iniziale, quello di vivere a Parigi.
E del fatto che tutti i giorni, sul treno locale che dal mio paesello natìo mi portava a scuola a Pavia, mi fermavo a guardare il poster che un genio incompreso aveva piazzato nella sala d’aspetto della stazione di Villamaggiore. Un dipinto di Bernard Buffet del 1963 (a tinte piuttosto cupe ed invernali, per altro): il retro della cattedrale di Notre-Dame, la Senna, un ponte. Ma tanto bastava per lasciarsi trasportare lontano.
All’epoca, per poter credere di andare a vivere a Parigi, un giorno, bisognava avere davvero una fervida immaginazione. Ma quella, per fortuna, non mi è mai mancata.
E una piccola sorpresa finale: Deauville Sans Trintignant di Vincent Delerm
(con tanto di dialogo citato da Zazie nel post!)
domenica 22 gennaio 2012
The (Golden) Iron Lady
The reason why I have waited so long to write about it is that, immediately after, I went away for my job and I didn't have much time to dedicate to the blog. Nevertheless, this event couldn't get out of my mind, and I actually think it will stay there for ever: I had a glass of champagne with Meryl Streep!
Yes, I know, it sounds unreal, but I swear: it is the truth.
On January 6, Ms. Streep was in Paris for the French avant-première of The Iron Lady, the film about former UK Prime-Minister Margaret Thatcher, together with the director of the movie, Phyllida Lloyd. I had an invitation for the event through my friends at Pathé (Véronique, je t'aime!), and so I had the chance to see the movie and the Master Class following the screening, where the actress and the director talked about their experience.
I have to confess I was quite disappointed by the film: I didn't like the structure of it, there was something fake about the whole construction of the scenes and I thought this was a burden to the fruition of the story. One can only admire the persistence of Ms. Thatcher, who clearly struggled every day as a woman in a world of men, but her reasons, the things she has done, the decisions she has made, what kind of person she was, well, that's another whole story, and I didn't clearly understand which was the movie's point of view. This was particularly sad for me because I greatly admire the work of Abi Morgan, the screenplayer, who previously wrote the BBC tv series The Hour and, together with Steve McQueen, the movie Shame. Anyway, there was one thing I absolutely admired and adored in the movie, and that was Meryl Streep's performance. I mean, she doesn't play Margaret Thatcher, SHE IS Margaret Thatcher, and there are no adjectives to describe her work on this. I guess the audience in the cinema agreed with me, because when Meryl Streep appeared after the movie, there was a spontaneous and very long standing ovation. Catherine Deneuve, Isabelle Huppert and Louis Garrel were part of our team (I saw them!).
For a series of circumstances too complicated and a bit private to explain, few minutes after all this was over, I found myself seated at the same table with Meryl Streep and Isabelle Huppert at the bar of a very fancy parisian hotel, drinking champagne. Well, my boss was with me, and this is actually the only reason why I was there and I had this incredible chance (Grazie, Capo!). As it happens often to me in this kind of situations, I completely loose any sense of reality (something I am lacking of even in my every day life) and I keep looking around, asking myself: Is this real? Is this really happening? It is also one of those few, very few circumstances, where I become shy and I am not able to speak a single word. I gaze upon people in disbelief, as if they were still on a screen instead of being seated close to me. And last, but not least, I have the bad habit to think about all the questions I am dying to ask and I know I can't, because it is just not possible in a situation like that, where people talk about everything but cinema. As a result, I didn't hear about a single word they were saying, I simply stared at Ms. Streep thinking about how gorgeous, gentle, intelligent, nice, curious, talented, and perfect, she looked.
Then I heard my boss saying something about me and my passion for cinema. Ms. Streep looked at me and said: Oh, really? This is great. At that point, I confessed I was a cinema blogger. When she heard about it, Ms. Streep gently put her hand on my knees and said, with the sweetest voice: Then, when you write about actors in your blog, please, try to be not too severe with us!
I was totally amazed by this. Don't you think it is the most incredible thing to hear from the mouth of the best actress in the world?
On the screen she is an Iron Lady, but in real life, believe me, she is a Golden one.
giovedì 1 settembre 2011
On connaît (et on adore) la chanson!
Mi piacciono da morire.
Che cosa? I film francesi, in generale, e quelli in cui si canta in particolare. Negli ultimi giorni ne ho visti due che sono dei gioielli rari e preziosi. Che mi hanno incantata, emozionata, sconvolta, che mi hanno fatto ridere, piangere, mi hanno fatto capire cose, posto delle domande fondamentali, aiutato a soffrire con leggerezza, e trasportato in vite che non sono la mia ma avrebbero potuto essere. Sto parlando dell'ultimo film di Christophe Honoré: Les Bien-Aimés, e della seconda opera della giovane regista Valérie Donzelli: La Guerre est déclarée. Un uomo e una donna, dietro la macchina da presa, accomunati da una stessa sensibilità, dal desiderio di raccontare tragedie senza piangersi addosso ma anche senza aver paura di essere romantici, o fuori moda, o di fare film come se ne fanno tanti di questi tempi: senza cuore.
Les Bien-Aimés racconta la storia di una madre e di una figlia, tanto spensierata ed istintiva la prima quanto seria ed ossessiva la seconda, e dei loro amori. A volte ridicoli, a volte tragici, ma sempre totali e vissuti fino in fondo. Le loro vite vanno dagli anni '60 della madre ai 2000 della figlia, e Honoré ci passa attraverso con quello strano miscuglio tutto suo: uno stile a metà tra un film di Jacques Demy e una canzone di Morrissey, sempre al limite del kitsch ma troppo intelligente per cascarci in pieno. Nel film, ogni scusa è buona per mettersi a cantare (cosa che a Honoré riesce facile perché ha scelto come complice l'ottimo musicista Alex Beaupain, il suo personale "Michel Legrand"), per parlare dei suoi argomenti preferiti (l'innocenza della gioventù, la follia del sentimento amoroso specie quando non è corrisposto, l'essere gay e quello che ne consegue, sieropositività - a volte - compresa), e fare omaggi a pioggia alla Nouvelle Vague. Scegliere Catherine Deneuve per il ruolo della madre è già una dichiarazione di intenti: tra tutte le attrici, proprio quella che vendeva gli ombrelli a Cherbourg... ma guarda un po'! E "travestire" Louis Garrell da Jean-Pierre Léaud ogni volta che compare nei suoi film, pure. Ma sia ben chiaro: chi si lamenta? Honoré è uno di quei rari registi che ha saputo creare in poco tempo un universo particolare, tutto suo, un mondo che migliora, si rafforza e si fa più profondo ad ogni opera. Gli attori sono tutti strepitosi, le canzoni magnifiche, la storia coinvolgente ed originale, e la macchina da presa sa il fatto suo. Tocco di classe finale: il film è dedicato alla memoria di Marie-France Pisier, attrice truffautiana scomparsa di recente, che aveva recitato per Honoré nel suo bellissimo Dans Paris. Io personalmente quando esco dalla visione di uno dei suoi film rimango tramortita di tristezza per ore, ma spero sia un problema solo mio (per favore, lettori, ditemi se capita così anche a voi!).
La Guerre est déclarée, invece, è un film che parla di una storia vera. Quella realmente accaduta a Valérie Donzelli e al suo compagno (Jérémie Elkaïm, che nel film ha il ruolo del protagonista): belli, giovani e innamorati, hanno un figlio, Adam, ma dopo qualche mese si rendono conto che qualcosa non va. Il bambino non cammina, vomita senza una ragione apparente e lascia pendere la testa da un lato. Si rivolgono ad una pediatra di cui hanno fiducia, e questa si accorge che Adam ha una semi-paralisi facciale. Da lì, ha inizio il loro calvario: il bambino ha un tumore maligno al cervello, si può intervenire ma è gravissimo. L'operazione funziona, ma Roméo e Juliette (questi i loro nomi di finzione nel film) dovranno affrontare lunghi anni in cui il figlio sarà sottoposto a chemioterapia e cure di ogni genere prima di potersi considerare definitivamente guarito. La loro coppia non sopravvivverà, ma il loro amore verso Adam li terrà uniti fino in fondo.
Valérie Donzelli riesce con questo film in un'operazione quasi inumana: rendere "leggero" il racconto di uno dei dolori più immensi che esistano. Non c'è mai posto, nemmeno in una singola scena, per piangersi addosso, ricattare moralmente lo spettatore, far leva sulla pietà o magnificare il proprio ruolo di genitori modello. La Donzelli dice le cose come stanno: ecco due esseri umani prostrati, confusi, storditi dagli eventi e da mille domande (perché noi? perché il nostro bambino?), sommersi dalla paura, eppure ancora vivi. Pronti a lottare fino allo stremo, con i pochi mezzi e le poche forze a disposizione, in nome del loro amore e di quello per il loro bambino. Irresistibile, ad esempio, la scena della notte prima dell'operazione al cervello al bambino, nella quale fanno l'elenco delle loro paure: ho paura che Adam diventi sordo, cieco, muto, frocio, nero, e che voti Fronte Nazionale! La Donzelli, per sdrammatizzare, ha un vero talento. Bravissima anche nella scelta degli attori: tutti sono perfetti (i medici, le infermiere, i genitori borghesi di lei, la madre lesbica di lui, gli amici), e in quella della musica, che in questo film ha un ruolo fondamentale. La regista ne fa un uso straripante, come se fosse uno dei protagonisti della storia, e in un momento drammaticissimo del film, c'è anche posto per una canzone (composta e cantata da lei e Elkaïm). Verrebbe quasi da pensare di essere in un film di Honoré, invece è semplicemente un altro film francese.
On connaît la chanson! E' vero. E non solo la conosciamo a memoria, ma la vorremmo cantare a squarciagola.
Perché ci piace. Ci piace da morire.
Che cosa? I film francesi, in generale, e quelli in cui si canta in particolare. Negli ultimi giorni ne ho visti due che sono dei gioielli rari e preziosi. Che mi hanno incantata, emozionata, sconvolta, che mi hanno fatto ridere, piangere, mi hanno fatto capire cose, posto delle domande fondamentali, aiutato a soffrire con leggerezza, e trasportato in vite che non sono la mia ma avrebbero potuto essere. Sto parlando dell'ultimo film di Christophe Honoré: Les Bien-Aimés, e della seconda opera della giovane regista Valérie Donzelli: La Guerre est déclarée. Un uomo e una donna, dietro la macchina da presa, accomunati da una stessa sensibilità, dal desiderio di raccontare tragedie senza piangersi addosso ma anche senza aver paura di essere romantici, o fuori moda, o di fare film come se ne fanno tanti di questi tempi: senza cuore.
Les Bien-Aimés racconta la storia di una madre e di una figlia, tanto spensierata ed istintiva la prima quanto seria ed ossessiva la seconda, e dei loro amori. A volte ridicoli, a volte tragici, ma sempre totali e vissuti fino in fondo. Le loro vite vanno dagli anni '60 della madre ai 2000 della figlia, e Honoré ci passa attraverso con quello strano miscuglio tutto suo: uno stile a metà tra un film di Jacques Demy e una canzone di Morrissey, sempre al limite del kitsch ma troppo intelligente per cascarci in pieno. Nel film, ogni scusa è buona per mettersi a cantare (cosa che a Honoré riesce facile perché ha scelto come complice l'ottimo musicista Alex Beaupain, il suo personale "Michel Legrand"), per parlare dei suoi argomenti preferiti (l'innocenza della gioventù, la follia del sentimento amoroso specie quando non è corrisposto, l'essere gay e quello che ne consegue, sieropositività - a volte - compresa), e fare omaggi a pioggia alla Nouvelle Vague. Scegliere Catherine Deneuve per il ruolo della madre è già una dichiarazione di intenti: tra tutte le attrici, proprio quella che vendeva gli ombrelli a Cherbourg... ma guarda un po'! E "travestire" Louis Garrell da Jean-Pierre Léaud ogni volta che compare nei suoi film, pure. Ma sia ben chiaro: chi si lamenta? Honoré è uno di quei rari registi che ha saputo creare in poco tempo un universo particolare, tutto suo, un mondo che migliora, si rafforza e si fa più profondo ad ogni opera. Gli attori sono tutti strepitosi, le canzoni magnifiche, la storia coinvolgente ed originale, e la macchina da presa sa il fatto suo. Tocco di classe finale: il film è dedicato alla memoria di Marie-France Pisier, attrice truffautiana scomparsa di recente, che aveva recitato per Honoré nel suo bellissimo Dans Paris. Io personalmente quando esco dalla visione di uno dei suoi film rimango tramortita di tristezza per ore, ma spero sia un problema solo mio (per favore, lettori, ditemi se capita così anche a voi!).
La Guerre est déclarée, invece, è un film che parla di una storia vera. Quella realmente accaduta a Valérie Donzelli e al suo compagno (Jérémie Elkaïm, che nel film ha il ruolo del protagonista): belli, giovani e innamorati, hanno un figlio, Adam, ma dopo qualche mese si rendono conto che qualcosa non va. Il bambino non cammina, vomita senza una ragione apparente e lascia pendere la testa da un lato. Si rivolgono ad una pediatra di cui hanno fiducia, e questa si accorge che Adam ha una semi-paralisi facciale. Da lì, ha inizio il loro calvario: il bambino ha un tumore maligno al cervello, si può intervenire ma è gravissimo. L'operazione funziona, ma Roméo e Juliette (questi i loro nomi di finzione nel film) dovranno affrontare lunghi anni in cui il figlio sarà sottoposto a chemioterapia e cure di ogni genere prima di potersi considerare definitivamente guarito. La loro coppia non sopravvivverà, ma il loro amore verso Adam li terrà uniti fino in fondo.
Valérie Donzelli riesce con questo film in un'operazione quasi inumana: rendere "leggero" il racconto di uno dei dolori più immensi che esistano. Non c'è mai posto, nemmeno in una singola scena, per piangersi addosso, ricattare moralmente lo spettatore, far leva sulla pietà o magnificare il proprio ruolo di genitori modello. La Donzelli dice le cose come stanno: ecco due esseri umani prostrati, confusi, storditi dagli eventi e da mille domande (perché noi? perché il nostro bambino?), sommersi dalla paura, eppure ancora vivi. Pronti a lottare fino allo stremo, con i pochi mezzi e le poche forze a disposizione, in nome del loro amore e di quello per il loro bambino. Irresistibile, ad esempio, la scena della notte prima dell'operazione al cervello al bambino, nella quale fanno l'elenco delle loro paure: ho paura che Adam diventi sordo, cieco, muto, frocio, nero, e che voti Fronte Nazionale! La Donzelli, per sdrammatizzare, ha un vero talento. Bravissima anche nella scelta degli attori: tutti sono perfetti (i medici, le infermiere, i genitori borghesi di lei, la madre lesbica di lui, gli amici), e in quella della musica, che in questo film ha un ruolo fondamentale. La regista ne fa un uso straripante, come se fosse uno dei protagonisti della storia, e in un momento drammaticissimo del film, c'è anche posto per una canzone (composta e cantata da lei e Elkaïm). Verrebbe quasi da pensare di essere in un film di Honoré, invece è semplicemente un altro film francese.
On connaît la chanson! E' vero. E non solo la conosciamo a memoria, ma la vorremmo cantare a squarciagola.
Perché ci piace. Ci piace da morire.
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