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lunedì 31 marzo 2014

La vita (non) è un lungo fiume tranquillo

Qualche volta si prova una strana sensazione, rivedendo film di 25 anni fa. 
Ieri sera, assolutamente per caso, mi è capitato di ritrovare su un canale francese La vie est un long fleuve tranquille (La vita è un lungo fiume tranquillo) di Etienne Chatiliez (1988). Avevo un bellissimo ricordo del film. Sapevo soprattutto di aver riso tantissimo, guardandolo la prima volta al cinema. Per un attimo, riconoscendolo, ho avuto paura dell’effetto “invecchiato male”. Ho buttato un occhio un po’ distratto all’inizio, come se stessi pretendendo di non fare sul serio, ma alla prima scena divertente, bum, mi sono messa comoda sul divano a guardarlo davvero.
Scoprendo, con piacere, che non aveva preso neanche una ruga.
Meet the Groseilles
Per chi non sa di cosa sto parlando, il film racconta di un bambino e una bambina che vengono scambiati in culla da un’infermiera incazzata nera con il medico che è suo amante da anni e non lascia mai la moglie. Il bambino appartiene ad una famiglia agiata (è il figlio del direttore dell’EDF, l’Enel francese, per intenderci), la bimba invece arriva da una famiglia di poveracci senza arte né parte che vive in periferia. Quando i bambini hanno 12 anni, la famosa infermiera, che ha continuato imperterrita ad essere l’amante del medico, fuori di sé per l’ennesimo e più flagrante rifiuto (la moglie è morta e lui ha il coraggio di dirle, al funerale: Non potrò mai trovare qualcuno che la sostituisca!), decide di vuotare il sacco. Scrive una lettera alle famiglie per raccontare la verità, creando ovviamente un grande scompiglio. La famiglia agiata decide di prendere con sé il ragazzino figlio loro, in cambio di una lauta somma sganciata ai poveracci, che accettano più che volentieri. Momo, il ragazzino, continua però ad avere rapporti con la sua vecchia famiglia, e la mescolanza tra i fratelli e le sorelle delle due famiglie porterà a conseguenze molto divertenti. 
Meet Les Quesnoy (e il prete!)
Chatiliez, un regista non troppo prolifico (un 60enne che ha diretto solo 8 film nella sua carriera), ha avuto fino a pochi anni fa (lo dico con cognizione di causa perché ho visto il suo ultimo lavoro ed è sinceramente penoso) un vero dono per scrivere e dirigere commedie intelligenti e divertenti dove si prende gioco in maniera non proprio cinica ma piuttosto cattivella della borghesia francese. 
Lungo fiume a parte, il regista è diventato famoso con Tatie Danielle (Zia Angelina), Le Bonheur est dans le Pré (La felicità è dietro l’angolo) e, in tempi più recenti, con il film Tanguy, storia di due genitori disperati che non riescono a “liberarsi” di un figlio già adulto che si rifiuta di lasciare casa ed andare a vivere per conto suo.  
Evidentemente, Chatiliez parla di qualcosa che deve conoscere molto bene, perché è davvero efficace, davvero “dal di dentro” questa sua sistematica, quasi scientifica vivisezione dei danni e delle miserie della classe agiata francese nascoste dietro strati di perbenismo e finta perfezione (con una bella stoccatina qua e là alla religione cattolica). Il regista sembra infliggere questa punizione con una gioia ed un senso di liberazione che ha tutta l’aria di essere la vendetta assumée di un ragazzino nei confronti di una famiglia soffocante. Probabilmente la sua.

Momo, il ragazzino sulla destra: un giovanissimo Benoît Magimel
Rivedendo il film, mi ha molto colpito ritrovare due attori che ora mi sono super familiari, ma che all’epoca scoprivo certamente per la prima volta: nella parte di Momo un giovanissimo (ma già piuttosto bravo) Benoît Magimel, che anni dopo avrebbe ricevuto il premio della migliore interpretazione maschile per un film difficilissimo e durissimo come La Pianista di Michael Haneke, e nella parte del padre di famiglia borghese, André Wilms, un attore che adoro e che dovrebbe avere molto più successo di quello che ha. Per chi ama il cinema di Aki Kaurismaki: Wilms è il protagonista di La Vie de Bohème e di Le HavreIl momento del film in cui padre e figlio si vedono per la prima volta e si riconoscono perché hanno lo stesso tic, è una delle cose più divertenti del fim.  

M. Jean Le Quesnoy (André Wilms) e Mme Le Quesnoy (Hélène Vincent)
La figura forse più trucida del film è quella del medico, del quale Chatiliez fa capire tutta la meschinità e la pochezza: orribile fino alla fine, convinto di poter restare impunito, senza neppure mostrare un minimo senso di colpa per quello che ha fatto passare alle donne della sua vita. Ma il regista saprà vendicarsi, regalandogli una delle scene più geniali del film (quella in cui legge la lettera dell'infermiera e ripete come un nastro rotto: la salope!) e soprattutto il suo gran finale dove, del tutto rincoglionito, non potrà che essere in balia della "sua" infermiera.
La vita, a quanto pare, non è un lungo fiume tranquillo per nessuno!

p.s. Vi lascio con questo simpatico karaoke "parrocchiano" che, ne sono certa, non mancherà di ispirarvi tante cose belle!

venerdì 16 dicembre 2011

Le Havre

Mi basta un semplice dettaglio.
Una sola frase, un solo volto, una sola inquadratura, e vi saprò riconoscere con assoluta certezza un film a caso del regista Finlandese Aki Kaurismäki
Kaurismäki io lo amo in maniera totale, non solo per quello che gira e come lo gira, ma anche per le interviste che rilascia, per il festival di cinema che organizza ogni anno a metà Giugno in Lapponia, per la sua cinefilia spinta e senza confini, per il suo essere volutamente vintage e completamente al di fuori della società contemporanea (dei suoi credo, dei suoi ritmi e delle sue inutili cazzate). Lui è uno di quei meravigliosi registi che nel corso di una carriera hanno creato un vero e proprio universo parallelo, una famiglia cinematografica circoscritta e fedele, un'oasi di pace e felicità a cui potersi rivolgere in caso di bisogno. 
Che i suoi film siano ambientati a Helskinki, Londra, Parigi o Le Havre, poco importa. Tutte le città sono uguali, tutte le case sono identiche, in Kaurismäki Land. Il sole splende appena. Di solito fuori è buio, piove e fa freddo. Tutti sono poveri, con rarissime eccezioni (e se sono ricchi, allora sono cattivi). Nessuno corre. La gente cammina lenta, e parla (quando lo fa) altrettanto lentamente. Nessuno ha il cellulare. I telefoni hanno ancora le tastiere a disco. I mobili, i vasi, gli orologi, i vestiti, sono anni '50. Le macchine, delle vecchie trabant di origine russa con porta-termos incorporato. I taxi hanno le tendine di pizzo sul vetro in fondo. Si fuma e si beve molto, questo sì. Ci sono sempre bar con un vecchio bancone di zinco, un jukebox, e delle facce da galera (che poi si rivelano buonissime) appoggiate al suddetto. La musica è puro rock & roll. I musicisti hanno capelli lunghi con bananone sulla fronte, scarpe a punta, look che neanche Elvis nei giorni peggiori. E se non è rock, allora è un tango finlandese o un improbabile pezzo melodico giapponese. Sempre ascoltati attraverso una vecchia radio o uno stereo, s'intende. Gli amici sono veri amici che non si tradiranno mai, pronti a qualsiasi cosa gli uni per gli altri. Gli amori sono totali, iniziano con un semplice sguardo e durano tutta la vita. Il sesso non esiste, non è contemplato. I baci sono rari e castissimi. Anche di violenza ce n'è poca. Ogni tanto la gente viene picchiata, ma sembra un po' una scena da ridolini. I personaggi hanno una dignità, una gentilezza, un'ironia, da lasciare incantati. Non piangono mai, e se provano un dolore insensato, si limitano a guardare nel vuoto con aria perduta. Gli attori, è ovvio, sono sempre gli stessi: come la mitica Kati Outinen, attrice eccezionale e protagonista assoluta della filmografia kaurismakiana. E quando gli attori non ci sono più (come nel caso del suo alter ego, il compianto e mai dimenticato Matti Pellonpää), allora lui li fa vedere da bambini in una foto, e li trasforma nei figli perduti della coppia protagonista di un film, oppure fa appendere il loro dagherrotipo a una parete del Moskova Baari (un bar di Helsinki proprietà dei fratelli Kaurismäki, dove leggenda narra che accanto al bancone stia appeso un cartello: Facciamo credito solo a Lenin, gli altri devono pagare in contanti).
Da buon fanatico della Nouvelle Vague, il regista è stato anche capace di ridare vita ad una leggenda come quella di Jean-Pierre Léaud, al quale Kaurismäki ha affidato, dopo 15 anni di inattività e silenzio seguiti alla morte di Truffaut, il ruolo da protagonista in Ho affittato un killer (1990). Nei suoi film si ritrovano spesso, del resto, artisti francesi che lui ha amato, come Serge Reggiani e, proprio in Le Havre, il regista Pierre Etaix. Altra presenza fondamentale e costante: Laika, la sua cagnetta. In questo mondo sopra le righe, anche i titoli delle sue opere sono spesso molto buffi: Total Balalaika Show, Calamari Union, I Leningrad Cowboys incontrano Mosé, Amleto si mette in affari, Tieni il tuo foulard, Tatjana. Non sono adorabili? 

Le Havre è la continuazione a colori, 20 anni dopo, di Vita da Bohème, un film in bianco e nero che Kaurismäki aveva girato a Parigi. Il tempo è passato ma i protagonisi sono rimasti esattamente gli stessi, e vivono poveri ma dignitosi in un quartieraccio della città portuale. Quando Marcel Marx (omaggio a chi, questo nome? Groucho? Karl? Entrambi?), che si guadagna da vivere come lustrascarpe (!!?) incontra per caso un piccolo clandestino africano, non ha un attimo di esitazione ad accoglierlo in casa, nutrirlo e cercare di aiutarlo a realizzare il suo sogno, quello di raggiungere la madre che vive in Inghilterra. Nonostante una moglie, Arletty (a proposito di omaggi...), all'ospedale e in fin di vita, e un poliziotto esistenzialista che gli sta alle calcagna, Marcel si farà in quattro per trovare i soldi che riusciranno a regalare a Idrissa un passaggio su un'imbarcazione che fa Le Havre-Londra.  Grazie al denaro raccolto con un concerto benefico di Litte Bob (ma dov'è andato a recuperarlo Aki questo Roberto Piazza, improbabilissimo Little Tony ante litteram??!), il sogno può diventare realtà, ma non sarà l'unica sorpresa in serbo per i protagonisti del film.
Con il consueto stile: essenziale, ironico ed efficace, inquadrature semplicissime ma di una bellezza sconcertante (ah, quel genio di Timo Salminen, il direttore della fotografia di TUTTI i suoi film!), e dialoghi inverosimili, Kaurismäki sforna l'ennesimo capolavoro di grazia e lucidità. Su un tema, quello dell'immigrazione, da molti considerato troppo spinoso e difficile da affrontare. Ma Aki non ha paura di niente, ci mette dello humour finlandese (André Wilms che si spaccia per il fratello albino del padre di Idrissa), un tocco alla Frank Capra, un omaggio truffautiano (Léaud, again) e un messaggio chiaro su come risolvere il problema. Che sta tutto in una parola sola: solidarietà.
L'ho sempre pensato, io: se la gente fosse come nei film di Kaurismäki, questo mondo sarebbe il migliore dei mondi possibili.
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