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mercoledì 18 gennaio 2017

Great Expectations

Il mio più grande problema nella vita, così come al cinema, è quello delle aspettative.
Sono una ragazza che sogna in grande, che non si accontenta, con una fantasia molto, molto sviluppata, dalle uscite a dir poco roboanti.
Hai voglia a sentirmi dire che no, non si dovrebbero avere aspettative, che è sbagliato, che non bisogna aspettarsi niente così poi quello che arriva è tutto bello.
Ma come si fa? Perché bisogna vivere e sognare al ribasso, dico io?
Certo, a furia di batoste, dalla vita comincio ad aspettarmi sempre meno (in effetti è molto più saggio, ne convengo), dal cinema però no: caparbiamente, assurdamente, continuo a richiedere un grado di meraviglia che stia alla pari con le mie più great expectations.
Metti ad esempio questo film che riuniva i miei due attori più amati al mondo, che sono notoriamente Jeremy Irons e Michael Fassbender. Quando ho sentito per la prima volta che questi due sarebbero stati insieme sullo schermo la lancetta dell'aspettativa è schizzata a dei livelli che chi la ferma più. Mi mancava il respiro solo all'idea.
Poi mi sono chiesta: ma che film sarà mai? Quando ho capito che era tratto da un videogioco, già mi sono cadute le braccia, quando ho saputo che il regista era Justin Kurzel (lo stesso di Macbeth), l'entusiasmo non si è esattamente impossessato di me, però mi sono detta, vabbè dai, vedrai, sarà comunque bellissimo. Qui in Francia usciva lo stesso giorno in cui partivo per le vacanze natalizie in Italia. Pianti e stridor di denti. E' andata a finire che è stato il primo film che ho visto nel 2017. 
Ecco, diciamo, non proprio un inizio con il botto.  
Assassin's Creed è uno dei film più brutti e inutili che abbia mai visto, e ne ho visti tanti, credetemi, uno di quei film per cui ti chiedi: ma perché? perché l'hanno fatto? (a parte i soldi, intendo). E passi il tempo a pensare a quanto sarebbe stato interessante vedere quelle scene di Irons e Fassbender insieme in un film - non dico tanto - ma almeno decente.
Allora ho pensato di rifarmi andando a vedere Paterson di Jim Jarmusch, di cui tutti mi avevano detto un gran bene, sicura e felice del fatto che, trattandosi di un signor regista (a parte qualche stronzata qua e là) mi avrebbe regalato un bellissimo momento di cinema.

Solo che è andata a finire che non mi è piaciuto neppure questo film.
Avevo la netta impressione che Jarmusch volesse fare un film alla Kaurismäki, solo che se non sei Aki Kaurismäki quella cosa lì non ti riesce. Quel misto meraviglioso di poesia della quotidianità, di ironia sottile, di semplicità nel racconto, di ripetizioni impacciate, di personaggi strani e tenerissimi. 
Ecco, se non sei Kaurismäki succede che viene fuori una cosa lenta, ripetitiva e ai limiti dell'irritante (il personaggio di lei non si poteva proprio sopportare).
E capisco che tutti si aspettavano che mi piacesse ma no, non mi è piaciuto, ridatemi Kaurismäki (che è dal 2011 che non fa film e io sto per raggiungere il limite estremo di sopportazione di questa situazione).
Ho invece trovato davvero notevole, un po' a sorpresa (i giudizi che avevo sentito erano dei più disparati) il film di Tom Ford, Nocturnal Animals.

Di Ford avevo già apprezzato il primo film (anche se, essendo basato su uno dei miei romanzi preferiti di tutti i tempi, A Single Man di Christopher Isherwood, pure in quel caso non era stato facile essere all'altezza delle mie aspettative!).
Qualcuno trova irritante l'estetica estrema dei film di Ford.
Non io. Personalmente, trovo irritante quando dietro l'immagine perfetta c'è l'assoluto nulla, il vuoto cosmico, la mancanza di intenti. Se dietro scene di una formalità ricercata c'è una storia importante e ben scritta, quella formalità per me è benvenuta.
Basato sul romanzo Tony and Susan di Austin Wright, Nocturnal Animals racconta la storia di Susan, una ricca signora di Los Angeles con galleria d’arte e famiglia (fintamente) perfetta, che un giorno si vede recapitare un manoscritto destinato a sconvolgerle la vita. Si tratta di un romanzo, Nocturnal Animals appunto, scritto da Tony, il suo ex marito, qualcuno che lei non vede e non sente da quasi 20 anni. I due si erano lasciati malissimo, all’epoca: lui era un giovane romanziere di belle speranze, e lei voleva essere un’artista, ma il richiamo della vita agiata da borghese a cui era abituata avrà la meglio. Lascerà Tony, le sue velleità da pittrice, e si metterà con un bello senza anima ma pieno di soldi. Il romanzo che Tony le invia è potentissimo. Una storia nera ed inquietante dal finale terribile e straziante, che avrà un effetto dirompente sulla vita di Susan.

Film che hanno come tema principale la vendetta non sono certo rari, al cinema, eppure questo ha un sapore completamente nuovo. Di solito le vendette sono spettacolari, a volte un po’ assurde, quasi mai sottili e sistematiche. Qui invece si coglie perfettamente tutta la scia di dolore che Tony si porta dietro da innumerevoli anni. Una ferita aperta che si è imputridita, che gli ha tolto notti di sonno, e una bella fetta di vita. Costruire una vendetta attraverso un romanzo non è da tutti ma è anche un cosa che chiunque di noi potrebbe fare, volendo, a differenza di quei gesti sconsiderati che la maggior parte delle rivalse si portano dietro. La camera di Ford è elegante e fluida, si muove tra gallerie d’arte, appartamenti glaciali, vestiti perfetti di seta dai colori sgargianti e con la stessa forza cattura la follia e la violenza notturna nella trasposizione cinematografica del romanzo di Tony.    

Nocturnal Animals è un film che fa veramente paura, permeato da un’inquietudine ai limiti del sopportabile, e un senso di ineluttabilità difficile da scrollarsi di dosso.
Gli attori sono tutti bravissimi, ma non è certo una sorpresa, trattandosi di Amy Adams, Jake Gyllenhaal, Michael Shannon, Armie Hammer e Aaron Taylor-Johnson (il migliore in assoluto, nel ruolo di un cattivo ferocissimo).
In questo freddo Gennaio parigino, Nocturnal Animals è stato il primo brivido caldo cinematografico dell’anno.
Speriamo che le mie alte aspettative avranno pane per i loro denti nel 2017!


mercoledì 23 marzo 2016

Midnight Special


In anni ed anni di visioni, ho sviluppato un certo sesto senso cinematografico.
Quella cosa misteriosa ed intensa che ti fa intuire nel giro di poche inquadrature che il film che stai guardando sarà un capolavoro oppure una mezza schifezza, o una schifezza totale.
A volte, tuttavia, riconoscere un buon film in un lampo o un buon regista nello spazio di una sola pellicola, non è impresa facile. Ci sono registi che lasciano dubbiosi. Si vede un film, e non si è del tutto convinti, se ne vede un altro, e il dubbio rimane, infine se ne vede un terzo e si ha un’illuminazione: trattasi, in effetti, di finto bravo regista (o invece di regista bravo per davvero).
Ieri sera ho avuto questo satori cinematografico, purtroppo in negativo, per il regista americano Jeff Nichols.
Al suo quarto film, Nichols (classe 1978) ha incuriosito con il suo debutto, Shotgun
Stories (del 2007), è diventato famoso nel 2011 con Take Shelter, e si è confermato come regista di prestigio con Mud, l’anno successivo. Ammetto di non aver visto il suo primo film, ma ho diligentemente visto gli altri due, uscendo da entrambe le visioni con la famosa aria perplessa di cui sopra. 
Di sicuro avevo già capito che non era il regista della vita mia, ma mi dicevo che il ragazzo aveva stoffa, che le storie erano interessanti, e poi leggevo le critiche sui giornali e mi sentivo un po’ colpevole a non capire la presunta genialità di questo ragazzo. Poi ieri sera ho visto il suo ultimo film, Midnight Special, e mi è venuto il famoso dubbio globale: ma non è che, per caso, Jeff Nichols sia un regista-sòla? Non sarebbe il primo e non sarebbe nemmeno l’ultimo di registi così, ad essere incensato dai critici.
Jeff Nichols sul set di Midnight Special
Veniamo ai fatti: Alton, 8 anni, non è un bambino come tutti gli altri.
Può vivere solo di notte perché, alla luce del giorno, i suoi occhi sprigionano un raggio di luce talmente abbagliante da essere pericoloso sia per lui sia per chi gli sta intorno. Tutti i telegiornali americani parlano del suo rapimento: in realtà, Alton sta scappando con il padre, Roy, e un amico di quest’ultimo, Lucas. I due lo hanno liberato da una setta nella quale Alton era diventato una sorta di oracolo vivente. Una volta raggiunta la madre, Sarah, i tre si preparano a portare il bambino verso “la sua missione”, qualcosa di misterioso che deve avvenire nel giro di un paio di giorni. Peccato che il gruppo abbia alle calcagna mezza FBI e due scagnozzi della setta. Tutti vogliono mettere le mani sul bambino.
Riuscirà Alton a raggiungere il luogo della sua missione?

Alton (Jaeden Lieberher)
Sono presa da profondo scoramento pensando alla complicatezza e alla inadeguatezza di questa sceneggiatura, che ha dei buchi che manco il famoso formaggio svizzero. 
La setta chiamata il Ranch, tanto per cominciare: chi sono? che fanno? che ruolo aveva Alton mentre stava con loro? cosa significa questo loro look alla Witness-Il Testimone? e i numeri dei versetti che diventano coordinate??? E perché il padre si è svegliato solo adesso a portarselo via? Mah... mistero.
E’ come se il film iniziasse a film già iniziato, non so se rendo l’idea.
La fuga on the road ha del già visto e sentito in milioni di altri film (l’unica scena degna di nota è il satellite che si abbatte sulla stazione di servizio), e l’arrivo dalla madre non migliora certo le cose. Raramente ho visto un personaggio femminile più insulso. Senza alcuno spessore psicologico e del tutto irrisorio rispetto alla storia e al rapporto con il figlio, perché qui l’unico rapporto che conta (come in tutti gli altri film di Nichols, per altro) è quello con il padre. 
Roy (Michael Shannon) e suo figlio Alton (J. Lieberher)
Per un attimo speri che succeda qualcosa di interessante quando compare sullo schermo Adam Driver, invece niente. Anzi, peggio: al suo arrivo, in mezzo a quei bruti ignoranti dell’FBI, capisci che il film sta prendendo una piega imbarazzante. Ovvero, Midnight Special (a proposito, se qualcuno mi spiega il titolo gli pago da bere), non è altro che una nuova, inquietante, inutile, e brutta versione moderna di Close Encounters of the Third Kind (Incontri ravvicinati del Terzo Tipo) di Spielberg, nella quale - temo, fortissimamente temo - Adam Driver/Paul Savier starebbe a François Truffaut/Claude Lacombe (si salvi chi può!).
E più il film si avvia verso il suo finale, più la paura dell’irreparabile si fa strada (e, puntualmente, accade). Non voglio spoilerare ma a me gli ultimi 15 minuti sono sembrati totalmente deliranti.
Un altro dei motivi per cui questo film, l’ho capito dopo un po’, non decolla, è la sua assoluta mancanza di ironia. Che in un film di questo tipo, si sa, serve a stemperare, alleggerire, prendere fiato, respirare.
No, qui sono tutti d’un pezzo e d’una noia assoluta. Salvo un paio di battute di Adam Driver (che per altro gli altri personaggi non capiscono), questo non è un paese per gente simpatica. 
Paul Savier (Adam Driver)
Spiace dirlo, ma pure il cast non dà il meglio.
Michael Shannon, attore-feticcio di Jeff Nichols, ancora una volta nella parte del padre, è bravo ma un po’ monocorde, e a dire il vero mi ha fatto venire un dubbio sulla sua intera carriera, nella quale è tutto un susseguirsi di pazzi o gente con dei problemi seri. L’australiano Joel Edgerton è invece totalmente sprecato nella parte del poliziotto amico di infanzia del padre che decide di aiutarli (che poi, per quale motivo? ma vabbé, non chiediamo troppo): il suo personaggio è privo di qualsiasi sfumatura e di quel pizzico di ironia che davvero non avrebbe guastato. Per non parlare di Kirsten Dunst, che non fa altro che guardarsi intorno con aria sperduta e lacrimevole, senza avere una battuta decente o qualcosa di vagamente interessante da fare o da dire.
E pure il bambino, Jaeden Lieberher, non è per nulla convincente (e lo preferivo quando faceva il figlio un po’ depresso ed incazzato dei Masters in Masters of Sex). Sarà che dopo il bambinello di Room non ce n’è più per nessuno, ma il gioco d’attore qui è palesissimo. 
Lucas (Joel Edgerton), Roy, Alton e Sarah (Kirsten Dunst)
Insomma, io ve lo dico: ho l’atroce dubbio che Jeff Nichols sia una palla.
Ai posteri l’ardua sentenza. Nel frattempo: aridatece ET!
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