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martedì 20 luglio 2010

Una Storia Vera

Mi sono spesso chiesta se il fatto di condividere la stessa passione renda le persone più unite, più capaci di capirsi, più simili nel loro modo di concepire la vita e di viverla. Il fatto di tifare per la stessa squadra, ad esempio, mi chiedo affascinata io che non ho mai potuto soffrire il calcio, fa sì che le persone sappiano di cosa parlare quando si incontrano anche se un attimo prima erano perfetti sconosciuti?
Con il calcio non saprei, ma con il cinema questa teoria funziona.
Quando incontro qualcuno che ama i film, è raro che nella stanza cali il silenzio. E spesso, guarda caso, si finisce con lo scoprire che si amano anche gli stessi libri, la stessa musica, insomma più o meno le stesse cose. Certo i gusti possono essere molto diversi, e ci stanno pure delle animate discussioni su registi, film e attori, ma il mondo lo vediamo tutti da quella prospettiva lì.
Quella della poltrona di un cinema.

Ho una bella storia (vera!) da raccontare, in proposito.
Se seguite questo blog da vicino, forse vi ricorderete dei miei post su due film italiani la cui bellezza mi aveva colpito in maniera plateale: i documentari (ma chissà perché mi sembra riduttivo definirli tali) del giovane regista casertano Pietro Marcello. Ho già spiegato come, tramite alcuni amici comuni, avessimo avuto un contatto epistolare, ma la novità è che la scorsa settimana, complici quegli stessi amici (Sara Conforti ed Emiliano Morreale, pratiche di beatificazione già in corso) e la coincidenza di trovarsi nella stessa città (Roma), Pietro l’ho conosciuto per davvero.
Che posso dirvi? Che già dopo due minuti che parlavo con lui mi sembrava di stare a casa.
Ad esempio, ha raccontato di aver portato il suo film, La Bocca del Lupo, in centinaia di festival cinematografici (compresi alcuni molto importanti), ma che il suo preferito è stato il Midnight Sun Film Festival, il festival che i fratelli Aki e Mika Kaurismäki organizzano tutti gli anni a metà Giugno a Sodankylä, in Lapponia. E’ da sempre che voglio andare a quel festival, da sempre che Aki Kaurismäki è, in una mia personalissima classifica, fra i primi cinque esseri umani per cui valga la pena vivere. Ho pensato che avrei anche potuto confessare a Pietro, così su due piedi, che un paio d’anni fa ho preso una settimana di ferie per vedermi l’integrale dei film di Kaurismäki qui a Parigi, che ho pianto tutta una sera quando ho saputo che Matti Pellonpää era morto e che ho una cartolina di Télérama attaccata al computer con la didascalia “Aki Kaurismaki tra due camerieri del Grand Hotel di Cannes” ma che in realtà uno dei due camerieri è Timo Salminen, il suo storico direttore della fotografia. E che ho il forte sospetto di essere l’unica al mondo ad averlo notato (forse l’unica no, immagino che anche Salminen e la moglie se ne siano accorti). Insomma, particolari inquietanti che di solito evito accuratamente di esternare dopo il primo quarto d’ora che conosco qualcuno per paura di essere considerata una pazza completa, qui sentivo di poterli divulgare in assoluta tranquillità.

Ve l’ho detto, e ve lo ripeto, il cinema accomuna.
E così, dopo il regista finlandese, siamo passati agli altri dèi del nostro pantheon cinematografico: Terence Davies, Aleksandr Sokurov, Andrei Tarkosvky, Ingmar Bergman, i registi della Nouvelle Vague, quelli del Free Cinema inglese, Pedro Costa e gli altri portoghesi, Mike Leigh, per poi discutere di cinema americano che entrambi amiamo molto meno di quello europeo, ed infine arenarci su David Cronenberg, per cui io tifo ma lui no.
Sono rimasta sconvolta nel sentire con quali pochi soldi è riuscito a fare i suoi documentari, un po’ meno nell'apprendere che non ha nessuna intenzione di chiederne al Ministero per fare il suo prossimo film (questa volta di pura finzione, e non vediamo l’ora!).
E mi ha lasciato senza parole raccontandomi di aver trovato casa ad Arturo, il protagonista del Passaggio della linea, che passava la sua vita sui treni. Dal momento che mi affeziono ai protagonisti dei film come a dei parenti, è stato come se mi avesse detto di aver trovato casa a mio nonno. Sacré Pietro!, come direbbero i francesi.
E Sacré Rencontre!, aggiunge la blogger.

Quando Pietro ha tirato fuori un pacchetto delle sue sigarette, l'ho guardato stranita: mai viste prima.
Mi ha spiegato che erano "quelle del Monopolio", le 3 Stelle.
Non ho potuto fare a meno di pensare alle tabelle dei critici cinematografici, quelle dove si mettono le stelline per indicare l'indice di gradimento dei film, e che di solito vanno da uno (non vale la pena di scomodarsi) a cinque (capolavoro da non perdere).
Ecco, io a questa storia vera che sembra un film darei un voto alto... se non vi dispiace!
Zazie

p. s. Un grazie a Roberto Dulio, detto anche "il Richard Avedon de noantri", per la Hipstamatic super cool scattata a Pietro e Zazie! Fossi in te, caro Roberto, lascerei il ramo architettura e mi consacrerei alla fotografia...

domenica 13 giugno 2010

Il Passaggio della Linea

Avere un blog è proprio una cosa bellissima, io ve lo dico.
Nel mese di Marzo, forse qualcuno se lo ricorderà, avevo pubblicato un post entusiasta su un film Italiano di rara bellezza: La Bocca del Lupo, di Pietro Marcello.
Quel film è stato per me, come direbbero i Francesi, un vero coup de coeur, ed ha avuto conseguenze piacevolissime.
Per prima cosa, una ragazza Italiana che vive qui a Parigi ha lasciato un commento al mio post: anche lei aveva assistito alla stessa proiezione, anche lei si era innamorata del film. Le ho scritto, mi ha risposto, ci siamo viste, ci siamo state simpatiche, adesso stiamo diventando amiche. Lei si chiama Marianna ed ha un blog molto carino che vi segnalo con piacere: Gradiva Soup. Mica male conoscere una bella persona grazie ad un film, no?
Poi, alcuni amici di Roma (i mitici Sara Conforti & Emiliano Morreale, sommi cinéphiles) hanno letto la mia recensione e mi hanno fatto sapere che il regista é un loro caro amico. Ci hanno messo in contatto, ho mandato a Pietro il link con il mio post e lui mi ha scritto per ringraziarmi! Sì, lo so, è una cosa bellissima, e lo è ancora di più se pensate che, secondo lui, io avevo un po' esagerato nei complimenti. Insomma: bravo, gentile, e pure umile. Forse è il Dexter Morgan italiano, altrimenti non me lo spiego. Nel frattempo, il film ha continuato a fare incetta di premi, tra i quali il David di Donatello e il Nastro d'argento come miglior film documentario.

Sapevo che Pietro ne aveva già diretto uno, di documentario, e ho iniziato a chiedere in giro come fare per averne una copia. E' andata a finire che lui in persona mi ha fisicamente spedito il DVD. E' proprio gentilissimo, che ci volete fare. Ho visto il film questo pomeriggio e, se andavo cercando una conferma del talento di Pietro, l'ho sicuramente trovata.
Il Passaggio della Linea, titolo ispirato ad un'opera di Georges Simenon, è una storia ferroviaria.
Sullo schermo vediamo sfilare immagini filmate dai treni o sui treni, in viaggi che percorrono l'Italia in lungo e in largo, dal Nord al Sud, di giorno e di notte: i panorami scorrono, veloci, ma un filo sottile li collega. Le stazioni cambiano nome ma sembrano sempre le stesse: Genova diventa Napoli, poi si trasforma in Milano, poi si scopre che era Firenze. Dal treno, l'Italia sembra quella che è: un posto bellissimo ma anche tremendamente squallido, un paese un po' alla deriva, come una bella signora che sta invecchiando male. Ad accompagnare le immagini lungo i binari a volte c'è silenzio, a volte rumori meccanici, a volte voci umane che si sovrappongono le une alle altre, e spesso una musica. A poco a poco, iniziano ad affiorare dei volti: sono quelli dei viaggiatori, ma non di prima classe. Italiani, stranieri, lavoratori, emigranti, che raccontano le loro storie davanti alla cinepresa, in maniera molto semplice e diretta. Sono tanti quelli che restano in mente: c'è il lavoratore di Napoli che viene da Scampia a cui tocca spiegare ogni volta che non ha mai avuto a che fare con la malavita, c'è il ragazzone meridionale che racconta che andare "in missione" al Nord è un po' come essere James Bond, o meglio Superman, tale e quale. Su tutti, però, spicca la figura di Arturo, un vecchietto dal passato interessante (di attivismo politico), che ha deciso, come alternativa alla casa di riposo, di passare la sua vita sui treni: finché ci sono treni, io avrò una casa, sono le sue incredibili parole. E con fermezza e piglio risoluto, davanti ad una cinepresa dall'umanità attenta e disarmante, racconta la sua bizzarra scelta.
Si sarebbe pronti ad andare chissà dove, su questo darjeeling limited nostrano, ma poi, come tutte le cose belle, anche questo viaggio finisce. Il treno viene inghiottito, e noi con lui, dalla nave che attraversa lo stretto di Messina.

Per i film di Pietro si può utilizzare senza imbarazzo e anche un po' senza ritegno un aggettivo che spesso mi fa preoccupare, quando lo leggo: poetico. Perché dal poetico al patetico il passo può essere brevissimo, ma qui siamo ben lontani dal pericolo. Le sue immagini hanno la bellezza e la profondità di quei momenti senza nome che tutti abbiamo vissuto, pur senza avere il potere di ricrearli. Quelle scene che vediamo solo per un attimo fuggevolissimo, fuori dal finestrino, o lungo un corridoio: e magari c'era la nebbia, o il sole al tramonto, oppure era un gesto qualsiasi, il suono di una risata, e chissà perché ci hanno parlato, ci hanno detto tantissimo, su di noi, sul mondo che ci circonda, persino sul senso o non senso della vita. Ecco, quei momenti lì, senza voce, senza titoli, è raro vederli al cinema. E sono preziosissimi.

A proposito, nella lettera che Pietro mi ha scritto faceva una precisazione: il testo (poetico, e tanto) che si sentiva nella Bocca del Lupo non è di Franco Fortini, come a me sembrava di aver letto da qualche parte, ma suo.
Insomma, io ve lo dico: se non è Dexter, è Superman, tale e quale.

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