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martedì 21 febbraio 2017

Loving Moonlight

Si fa un gran parlare, a Hollywood e non solo, della mancanza di visibilità data a film scritti, diretti e interpretati da persone di colore. La loro non-rappresentanza agli Oscar dell'anno scorso ha anche dato vita all'hashtag #OscarsSoWhite. 
Quest'anno, però, la storia è cambiata, e parecchio.
La presenza di film in cui il colore della pelle conta, agli Oscars 2017, è molto importante, e si fa notare in più categorie. Ho potuto vedere di recente due dei film candidati: Loving di Jeff Nichols e Moonlight di Barry Jenkins, e li ho trovati bellissimi entrambi.
Mildred (Ruth Negga) e Richard Loving (Joel Edgerton)
I "veri" Mildred e Richard Loving
LOVING: Nella Virginia della fine degli anni '50, Mildred, una ragazza di colore, e Richard Loving, un ragazzo bianco, si amano, aspettano un figlio e decidono di sposarsi. Sembrerebbe una storia davvero banale se non fosse che a quell'epoca, in quello Stato americano, la legge vietava il matrimonio interazziale. Mildred e Richard si sposano di nascosto a Washington ma, quando sono scoperti, finiscono in prigione. A quel punto, non hanno scelta: o un anno di carcere o andarsene per 25 anni dalla Virginia. Decidono per la seconda opzione, ovviamente, ma non sono felici in città e, soprattutto, a loro questa condanna sembra totalmente ingiusta. Grazie all'aiuto di alcuni avvocati impegnati nella causa dei diritti civili, riusciranno a far cambiare le cose. Per sempre.
Jeff Nichols, regista americano di 40 anni che fa film solo da 10, si sta costruendo una carriera di tutto rispetto (anche se, personalmente, ho trovato il suo precedente lavoro, Midnight Special, ai limiti dell'inguardabile) e con Loving fa un netto salto in avanti. 
Questo infatti poteva diventare facilissimamente il classico film-manifesto, il filmone all'americana infarcito di retorica, momenti-chiave sottolineati da musica sentimentale,  interpretazioni sopra le righe con scene madri a ogni inquadratura, e violenze a ripetizione. La bella notizia è che questo film è esattamente l'opposto. Rispecchiando il carattere e lo stile dei due personaggi principali: schivi, semplici, totalmente anti-eroici, la loro storia viene raccontata in maniera lineare, senza alcuna concessione al sentimentalismo, senza alcun effetto, e riducendo al minimo le scene di soprusi. 
L'amore tra Mildred e Richard è tanto più grande quanto poche sono le parole usate per descriverlo. Quanto poche sono, in realtà, le parole tra di loro. Che si amino non solo è chiaro, è proprio lampante, ma Nichols lo fa capire con dei semplicissimi sguardi, con scene brevi e gesti quotidiani, al limite del banale. 
Mildred e Richard sembrano quasi scusarsi di tutto il clamore che la loro storia suscita. Vorrebbero poterne fare a meno, in effetti: loro non stanno combattendo per qualche causa, loro stanno combattendo per il loro amore, per poter stare insieme. E, per questo, sono pronti a mettere da parte la loro proverbiale timidezza, il loro non sentirsi adeguati, o troppo poveri e ignoranti, pur di raggiungere l'obiettivo. Nichols ci riesce ancora meglio perché ha affidato i ruoli a due attori magnifici: la giovane Ruth Negga (mezza irlandese e mezza etiope, una bellezza ed una bravura da far strage) e l'australiano Joel Edgerton, che per qualche ragione che mi sfugge non è stato candidato all'Oscar come miglior attore. Con denti finti e una zazzera bionda cortissima, il suo Richard Loving è da urlo: gli basta dire due battute ogni mezz'ora per farci capire tutto del personaggio. Non resisto e pubblico questa foto dei due attori nella vita reale, perché mi stanno davvero simpatici (no, non stanno  insieme ma peccato, sarebbero una coppia bellissima):
MOONLIGHT: Tratto dalla pièce teatrale In Moonlight Black Boys Look Blue di Tarell Alvin McCraney, Moonlight di Barry Jenkins (stessa età di Nichols, ma solo due film all’attivo più la regia di qualche serie) racconta la storia, in tre parti (infanzia/adolescenza/età adulta), di Chiron, un ragazzo gay di colore costretto a crescere in uno dei quartieri più poveri e duri di Miami. Tirato su da una madre drogata (del padre non c’è traccia), Chiron viene accolto nei momenti più difficili da Juan (che tra l’altro è lo spacciatore della madre) e Teresa, la sua compagna. L’unico altro rifugio possibile è Kevin, un amico d’infanzia, che però lo tradirà in un momento cruciale della sua esistenza. 
Diventato adulto, un duro spacciatore che poco ha a che fare con il gracile bambinello che veniva chiamato Little, e trasferitosi ad Atlanta, un giorno Chiron riceve una telefonata.
E’ Kevin, che si rifà vivo dopo moltissimi anni. 
Se Loving è una storia sui neri diretta da un bianco, in Moonlight di colore ce n’è uno solo: regista, sceneggiatore, attori, tutti sono rigorosamente neri. E’ un ribaltamento totale che fa del bene. 
Quello di Jenkins è un J’assume all’ennesima potenza: non c’è nessuna giustificazione, e neppure nessun desiderio di rivalsa (come poteva essere il caso di certi film di Spike Lee). Il bello di questo film è che dopo i primi 10 minuti smetti di pensare al colore di chiunque. Moonlight è un film spiazzante sotto diversi punti di vista, ma a me quello che ha intrigato più di tutti è che racconta una storia di violenza con una delicatezza mai vista. Little viene bistrattato, malmenato, deriso sin dalla prima scena, allontanato dai compagni di scuola, dalla madre in preda alle crisi di astinenza, eppure riesce sempre a trovare una crepa in cui si insinua un po’ di dolcezza: è Juan che gli fa un po’ da padre, Teresa che gli fa un po’ da madre, è Kevin che gli insegna che fare sesso tra ragazzi può essere una cosa bellissima. 
Nella parte adulta, la più riuscita del film, questa dicotomia dentro/fuori raggiunge il suo apogeo. Chiron, fisicamente trasformato al punto da non essere riconoscibile, grande e grosso, muscoloso, con i denti d’oro e l’aria da duro, nasconde in realtà la stessa fragilità, lo stesso smarrimento, la stessa irrimediabile dolcezza di quando era un ragazzino. 
Chiron/Black (Trevante Rhodes) e Kevin (André Hollande)

L’incontro tra lui e Kevin è uno dei momenti più intensi e radiosi che il cinema moderno ci abbia regalato. Anche in questo caso, merito di due attori straordinari: Trevante Rhodes nella parte di Chiron e André Hollande (già apprezzatissimo in The Knick di Soderberg) in quella di Kevin, non smettono di stupire e di far crescere l’emozione fin quasi a livelli insostenibili. 
Jenkins, influenzato per sua stessa ammissione dal cinema di Wong Kar-Wai, ci regala - per così dire - il suo In the Mood for Love, Miami version. 
La prova che quando uno è bravo, il colore della pelle o il taglio degli occhi sono un dettaglio di cui non dovrebbe fregare niente a nessuno.
 

mercoledì 23 marzo 2016

Midnight Special


In anni ed anni di visioni, ho sviluppato un certo sesto senso cinematografico.
Quella cosa misteriosa ed intensa che ti fa intuire nel giro di poche inquadrature che il film che stai guardando sarà un capolavoro oppure una mezza schifezza, o una schifezza totale.
A volte, tuttavia, riconoscere un buon film in un lampo o un buon regista nello spazio di una sola pellicola, non è impresa facile. Ci sono registi che lasciano dubbiosi. Si vede un film, e non si è del tutto convinti, se ne vede un altro, e il dubbio rimane, infine se ne vede un terzo e si ha un’illuminazione: trattasi, in effetti, di finto bravo regista (o invece di regista bravo per davvero).
Ieri sera ho avuto questo satori cinematografico, purtroppo in negativo, per il regista americano Jeff Nichols.
Al suo quarto film, Nichols (classe 1978) ha incuriosito con il suo debutto, Shotgun
Stories (del 2007), è diventato famoso nel 2011 con Take Shelter, e si è confermato come regista di prestigio con Mud, l’anno successivo. Ammetto di non aver visto il suo primo film, ma ho diligentemente visto gli altri due, uscendo da entrambe le visioni con la famosa aria perplessa di cui sopra. 
Di sicuro avevo già capito che non era il regista della vita mia, ma mi dicevo che il ragazzo aveva stoffa, che le storie erano interessanti, e poi leggevo le critiche sui giornali e mi sentivo un po’ colpevole a non capire la presunta genialità di questo ragazzo. Poi ieri sera ho visto il suo ultimo film, Midnight Special, e mi è venuto il famoso dubbio globale: ma non è che, per caso, Jeff Nichols sia un regista-sòla? Non sarebbe il primo e non sarebbe nemmeno l’ultimo di registi così, ad essere incensato dai critici.
Jeff Nichols sul set di Midnight Special
Veniamo ai fatti: Alton, 8 anni, non è un bambino come tutti gli altri.
Può vivere solo di notte perché, alla luce del giorno, i suoi occhi sprigionano un raggio di luce talmente abbagliante da essere pericoloso sia per lui sia per chi gli sta intorno. Tutti i telegiornali americani parlano del suo rapimento: in realtà, Alton sta scappando con il padre, Roy, e un amico di quest’ultimo, Lucas. I due lo hanno liberato da una setta nella quale Alton era diventato una sorta di oracolo vivente. Una volta raggiunta la madre, Sarah, i tre si preparano a portare il bambino verso “la sua missione”, qualcosa di misterioso che deve avvenire nel giro di un paio di giorni. Peccato che il gruppo abbia alle calcagna mezza FBI e due scagnozzi della setta. Tutti vogliono mettere le mani sul bambino.
Riuscirà Alton a raggiungere il luogo della sua missione?

Alton (Jaeden Lieberher)
Sono presa da profondo scoramento pensando alla complicatezza e alla inadeguatezza di questa sceneggiatura, che ha dei buchi che manco il famoso formaggio svizzero. 
La setta chiamata il Ranch, tanto per cominciare: chi sono? che fanno? che ruolo aveva Alton mentre stava con loro? cosa significa questo loro look alla Witness-Il Testimone? e i numeri dei versetti che diventano coordinate??? E perché il padre si è svegliato solo adesso a portarselo via? Mah... mistero.
E’ come se il film iniziasse a film già iniziato, non so se rendo l’idea.
La fuga on the road ha del già visto e sentito in milioni di altri film (l’unica scena degna di nota è il satellite che si abbatte sulla stazione di servizio), e l’arrivo dalla madre non migliora certo le cose. Raramente ho visto un personaggio femminile più insulso. Senza alcuno spessore psicologico e del tutto irrisorio rispetto alla storia e al rapporto con il figlio, perché qui l’unico rapporto che conta (come in tutti gli altri film di Nichols, per altro) è quello con il padre. 
Roy (Michael Shannon) e suo figlio Alton (J. Lieberher)
Per un attimo speri che succeda qualcosa di interessante quando compare sullo schermo Adam Driver, invece niente. Anzi, peggio: al suo arrivo, in mezzo a quei bruti ignoranti dell’FBI, capisci che il film sta prendendo una piega imbarazzante. Ovvero, Midnight Special (a proposito, se qualcuno mi spiega il titolo gli pago da bere), non è altro che una nuova, inquietante, inutile, e brutta versione moderna di Close Encounters of the Third Kind (Incontri ravvicinati del Terzo Tipo) di Spielberg, nella quale - temo, fortissimamente temo - Adam Driver/Paul Savier starebbe a François Truffaut/Claude Lacombe (si salvi chi può!).
E più il film si avvia verso il suo finale, più la paura dell’irreparabile si fa strada (e, puntualmente, accade). Non voglio spoilerare ma a me gli ultimi 15 minuti sono sembrati totalmente deliranti.
Un altro dei motivi per cui questo film, l’ho capito dopo un po’, non decolla, è la sua assoluta mancanza di ironia. Che in un film di questo tipo, si sa, serve a stemperare, alleggerire, prendere fiato, respirare.
No, qui sono tutti d’un pezzo e d’una noia assoluta. Salvo un paio di battute di Adam Driver (che per altro gli altri personaggi non capiscono), questo non è un paese per gente simpatica. 
Paul Savier (Adam Driver)
Spiace dirlo, ma pure il cast non dà il meglio.
Michael Shannon, attore-feticcio di Jeff Nichols, ancora una volta nella parte del padre, è bravo ma un po’ monocorde, e a dire il vero mi ha fatto venire un dubbio sulla sua intera carriera, nella quale è tutto un susseguirsi di pazzi o gente con dei problemi seri. L’australiano Joel Edgerton è invece totalmente sprecato nella parte del poliziotto amico di infanzia del padre che decide di aiutarli (che poi, per quale motivo? ma vabbé, non chiediamo troppo): il suo personaggio è privo di qualsiasi sfumatura e di quel pizzico di ironia che davvero non avrebbe guastato. Per non parlare di Kirsten Dunst, che non fa altro che guardarsi intorno con aria sperduta e lacrimevole, senza avere una battuta decente o qualcosa di vagamente interessante da fare o da dire.
E pure il bambino, Jaeden Lieberher, non è per nulla convincente (e lo preferivo quando faceva il figlio un po’ depresso ed incazzato dei Masters in Masters of Sex). Sarà che dopo il bambinello di Room non ce n’è più per nessuno, ma il gioco d’attore qui è palesissimo. 
Lucas (Joel Edgerton), Roy, Alton e Sarah (Kirsten Dunst)
Insomma, io ve lo dico: ho l’atroce dubbio che Jeff Nichols sia una palla.
Ai posteri l’ardua sentenza. Nel frattempo: aridatece ET!
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