giovedì 29 dicembre 2011

Another Year

Another year is over, dear readers.
In 2011, Zazie has gone to the movies 74 times. 
As usual, I have seen movies coming from all countries, having different languages, different budgets, stories, possibilities, motivations, views, lights and faces. It has been a year of incredibly high quality cinema and I have enjoyed immensely almost every single picture I have seen. Many incredible things happened, related to cinema, and these are moments worth to remember. 
Here for you, Zazie’s cinematic highlights of 2011

1 – January
Sir Michael Caine’s Master Class at the Forum des Images in Paris: not only a great actor but also a perfect gentleman. Smart, funny and humble. La classe, quoi!

2 - February
Matthew Weiner (Mad Men's creator) Master Class, always at the Forum des Images in Paris: Weiner’s passionate account of his meticulous method let me understand that behind outstanding results there is always an incredible amount of work. Chapeau!
3 - February
Michael Lonsdale's Master Class at the Rond-Point Theatre in Paris: amazing actor, adorable human being. Listening to him talking about his life and work has been a rare and precious privilege. J’adore!
4 - March
Bumping by chance into Irish actor Gabriel Byrne at the avant-première of Margin Call at Moma Titus Theatre in New York: being in the same room with Doctor Paul Weston, “the shrink we all would like to have”, let me understand that I need to be In Treatment for the rest of my life. Do you accept new patients, Doc?
5 - September
Meeting and spending time with Italian filmmaker Nanni Moretti during his visit in Paris for the complete retrospective of his work at the Cinémathèque Française: it was simply great to find out that Nanni is nice, funny and the greatest cinéphile ever. Michele Apicella For Ever!!!
6 - October 
Seeing Ralph Fiennes playing Prospero in The Tempest by William Shakespeare at the Royal Haymarket Theatre in London: on stage, Fiennes is almost too good to be true. And with that beard, even more irresistible!
7 - November
Seeing Jean-Louis Trintignant reading French poems at the Odéon Theatre in Paris: I can’t find the words to describe how amazing was his performance. Sublime is maybe the most appropriate adjective. I will never forget this moment!
8 - November
The avant-première of the movie Shame by Steve McQueen at the MK2 Bibliothèque in Paris with Michael Fassbender present in flesh and blood: the moment I was waiting for in all these years... more than an actor, an apparition. I was very surprised to actually see him, I thought he was a mere product of my imagination!!!
9 - December
Mike Leigh's Master Class at the Forum des Images in Paris: Leigh is more than a simple director, to me, he is a real Maestro. It was marvellous listening to him talking about his movies. I just can't get enough! 
I hope the new year will be plenty of great cinema and great things for you ALL, my friends.
I leave you with the images of my favourite "New Year's Eve" movie, the indie jewel In Search of a Midnight Kiss by Alex Holdridge (2007).
Happy 2012, my Dear Readers!

mercoledì 21 dicembre 2011

Mobilisons nous pour LE BALZAC!

Du 21 au 27 décembre 2011, le célèbre cinéma BALZAC de Jean-Jacques Schpoliansky ferme ses portes pour protester contre le monopole des multiplexes sur les Champs-Elysées, suite à de nombreux refus de copies depuis plusieurs mois et plus précisément Le Havre et A Dangerous Method qui sortent le 21 décembre. En bonnes cinéphiles et amatrices du cinéma indépendant,  
Maëlle et moi-même publions un article commun afin de montrer non seulement notre soutien face à cet acte symbolique mais également pour défendre les salles de cinéma d'art et d'essai.
Le Balzac c'est toute une atmosphère... c'est d'abord une excellente programmation depuis des années, avec des ciné-concerts, des événements originaux et tout un tas de trouvailles pour faire pétiller une séance de cinéma. C'est ensuite une magnifique grande salle à la déco assez magique, avec des fauteuils confortables. C'est enfin, et surtout, un lieu inspiré par un personnage haut en couleurs, j'ai nommé Jean-Jacques Schpoliansky, qui accueille personnellement les spectateurs avant la plupart des séances avec un petit discours de bienvenue.
 MOBILISEZ-VOUS pour le Cinéma Le Balzac !

venerdì 16 dicembre 2011

Le Havre

Mi basta un semplice dettaglio.
Una sola frase, un solo volto, una sola inquadratura, e vi saprò riconoscere con assoluta certezza un film a caso del regista Finlandese Aki Kaurismäki
Kaurismäki io lo amo in maniera totale, non solo per quello che gira e come lo gira, ma anche per le interviste che rilascia, per il festival di cinema che organizza ogni anno a metà Giugno in Lapponia, per la sua cinefilia spinta e senza confini, per il suo essere volutamente vintage e completamente al di fuori della società contemporanea (dei suoi credo, dei suoi ritmi e delle sue inutili cazzate). Lui è uno di quei meravigliosi registi che nel corso di una carriera hanno creato un vero e proprio universo parallelo, una famiglia cinematografica circoscritta e fedele, un'oasi di pace e felicità a cui potersi rivolgere in caso di bisogno. 
Che i suoi film siano ambientati a Helskinki, Londra, Parigi o Le Havre, poco importa. Tutte le città sono uguali, tutte le case sono identiche, in Kaurismäki Land. Il sole splende appena. Di solito fuori è buio, piove e fa freddo. Tutti sono poveri, con rarissime eccezioni (e se sono ricchi, allora sono cattivi). Nessuno corre. La gente cammina lenta, e parla (quando lo fa) altrettanto lentamente. Nessuno ha il cellulare. I telefoni hanno ancora le tastiere a disco. I mobili, i vasi, gli orologi, i vestiti, sono anni '50. Le macchine, delle vecchie trabant di origine russa con porta-termos incorporato. I taxi hanno le tendine di pizzo sul vetro in fondo. Si fuma e si beve molto, questo sì. Ci sono sempre bar con un vecchio bancone di zinco, un jukebox, e delle facce da galera (che poi si rivelano buonissime) appoggiate al suddetto. La musica è puro rock & roll. I musicisti hanno capelli lunghi con bananone sulla fronte, scarpe a punta, look che neanche Elvis nei giorni peggiori. E se non è rock, allora è un tango finlandese o un improbabile pezzo melodico giapponese. Sempre ascoltati attraverso una vecchia radio o uno stereo, s'intende. Gli amici sono veri amici che non si tradiranno mai, pronti a qualsiasi cosa gli uni per gli altri. Gli amori sono totali, iniziano con un semplice sguardo e durano tutta la vita. Il sesso non esiste, non è contemplato. I baci sono rari e castissimi. Anche di violenza ce n'è poca. Ogni tanto la gente viene picchiata, ma sembra un po' una scena da ridolini. I personaggi hanno una dignità, una gentilezza, un'ironia, da lasciare incantati. Non piangono mai, e se provano un dolore insensato, si limitano a guardare nel vuoto con aria perduta. Gli attori, è ovvio, sono sempre gli stessi: come la mitica Kati Outinen, attrice eccezionale e protagonista assoluta della filmografia kaurismakiana. E quando gli attori non ci sono più (come nel caso del suo alter ego, il compianto e mai dimenticato Matti Pellonpää), allora lui li fa vedere da bambini in una foto, e li trasforma nei figli perduti della coppia protagonista di un film, oppure fa appendere il loro dagherrotipo a una parete del Moskova Baari (un bar di Helsinki proprietà dei fratelli Kaurismäki, dove leggenda narra che accanto al bancone stia appeso un cartello: Facciamo credito solo a Lenin, gli altri devono pagare in contanti).
Da buon fanatico della Nouvelle Vague, il regista è stato anche capace di ridare vita ad una leggenda come quella di Jean-Pierre Léaud, al quale Kaurismäki ha affidato, dopo 15 anni di inattività e silenzio seguiti alla morte di Truffaut, il ruolo da protagonista in Ho affittato un killer (1990). Nei suoi film si ritrovano spesso, del resto, artisti francesi che lui ha amato, come Serge Reggiani e, proprio in Le Havre, il regista Pierre Etaix. Altra presenza fondamentale e costante: Laika, la sua cagnetta. In questo mondo sopra le righe, anche i titoli delle sue opere sono spesso molto buffi: Total Balalaika Show, Calamari Union, I Leningrad Cowboys incontrano Mosé, Amleto si mette in affari, Tieni il tuo foulard, Tatjana. Non sono adorabili? 

Le Havre è la continuazione a colori, 20 anni dopo, di Vita da Bohème, un film in bianco e nero che Kaurismäki aveva girato a Parigi. Il tempo è passato ma i protagonisi sono rimasti esattamente gli stessi, e vivono poveri ma dignitosi in un quartieraccio della città portuale. Quando Marcel Marx (omaggio a chi, questo nome? Groucho? Karl? Entrambi?), che si guadagna da vivere come lustrascarpe (!!?) incontra per caso un piccolo clandestino africano, non ha un attimo di esitazione ad accoglierlo in casa, nutrirlo e cercare di aiutarlo a realizzare il suo sogno, quello di raggiungere la madre che vive in Inghilterra. Nonostante una moglie, Arletty (a proposito di omaggi...), all'ospedale e in fin di vita, e un poliziotto esistenzialista che gli sta alle calcagna, Marcel si farà in quattro per trovare i soldi che riusciranno a regalare a Idrissa un passaggio su un'imbarcazione che fa Le Havre-Londra.  Grazie al denaro raccolto con un concerto benefico di Litte Bob (ma dov'è andato a recuperarlo Aki questo Roberto Piazza, improbabilissimo Little Tony ante litteram??!), il sogno può diventare realtà, ma non sarà l'unica sorpresa in serbo per i protagonisti del film.
Con il consueto stile: essenziale, ironico ed efficace, inquadrature semplicissime ma di una bellezza sconcertante (ah, quel genio di Timo Salminen, il direttore della fotografia di TUTTI i suoi film!), e dialoghi inverosimili, Kaurismäki sforna l'ennesimo capolavoro di grazia e lucidità. Su un tema, quello dell'immigrazione, da molti considerato troppo spinoso e difficile da affrontare. Ma Aki non ha paura di niente, ci mette dello humour finlandese (André Wilms che si spaccia per il fratello albino del padre di Idrissa), un tocco alla Frank Capra, un omaggio truffautiano (Léaud, again) e un messaggio chiaro su come risolvere il problema. Che sta tutto in una parola sola: solidarietà.
L'ho sempre pensato, io: se la gente fosse come nei film di Kaurismäki, questo mondo sarebbe il migliore dei mondi possibili.

martedì 13 dicembre 2011

Leigh Moments

I admire many contemporary filmmakers, but there is one who’s always been special to me.
His name is Mike Leigh, he is British, he is 68 years old, and I simply adore him (as a matter of fact, I already wrote about him in my post: http://leblogdezazie.blogspot.com/2011/01/cinema-of-mike-leigh.html). On Sunday afternoon, Leigh held a Master Class at the Forum des Images, one of the many events related to the retrospective London calling/Londres au cinéma and, useless to say, your Zazie was there! 
The conversation, a dialogue between the director and French journalist Pascal Mérigeau, was inspiring, rich and absolutely exciting. Leigh talked extensively about his very particular method of working with actors, which I believe is quite unique in the cinema world. Leigh starts rehearsal with the actors he has chosen for a movie many months in advance (sometimes even six!) before the shooting and then the shooting itself is super quick, from one to three weeks maximum. Actors don’t know much about the plot, and the strictly necessary about their own role. They’re put together with other actors and they start working on a sketch Leigh gives them and they improvise on that. Basically, they do so over and over again, on different sketches, in order to become, day by day, little by little, their “character”. Leigh told an incredible story about his movie Vera Drake, the tale of a woman practicing illegal abortions in the London of 1950: during the rehearsal, a group of actors was playing a family gathered to celebrate the daughter’s engagement, and another group of actors, playing policemen, suddenly broke into the room. None of them knew what was going on. The effect was quite incredible, Leigh reckoned. We actually witnessed it few minutes before, when we saw this same scene on the screen: the surprise, the tension, the drama of that moment was absolutely amazing. The result of Leigh’s method is that the performance of each actor is simply ASTONISHING. It is not by chance that many of his actors have been rewarded: David Thewlis for Naked (1993) at the Cannes Film Festival (and Leigh for Best Director), Imelda Staunton for Vera Drake (2004) at the Venice Film Festival (and the movie received a Golden Lion) and Brenda Blethyn for Leigh’s masterpiece Secrets and Lies (1996) at the Cannes Film Festival (and the movie won the Palme d’Or), for which she also received a Golden Globe and she was nominated for an Oscar (why she didn’t get it, it is still a mystery to me). The scene where she talked for the first time to the daughter she abandoned as a child, with the two women seated side by side in front of the camera and filmed by Leigh in this way, represents for me one of the highlights of the entire cinema history. I challenge you to find another scene having the same emotional impact. 
 Leigh explained that what he is interested in is the reproduction of reality as he perceives it, and for this he needs actors willing to forget completely about themselves, therefore not narcissist, but humble, patient and (possibly) having a good sense of humour. The journalists asked him if in his career he was sometimes wrong in choosing his cast. Apparently, he was very lucky and only in few occasions he was obliged to relegate actors in very small roles, and even more rarely to cancel their participation to a picture. Leigh also discussed about the essential contribution of his collaborators, like his cinematographer Dick Pope (with whom he worked for his entire career), who helps him a great deal to find the right “tone” for a movie: dark and gloomy for Naked, bright and carefree for Happy-go-Lucky or even a mix of both styles for the representation of the four seasons in his last movie, Another Year.
The cinema of Mike Leigh, thanks to all these elements, has the capacity of capturing THE moment, a slice of real life sometimes even too cruel to look at, but always incredibly truthful, human and compassionate. You can feel at any moment how much Leigh loves his characters: he is never judging them, even the bad or the unbearable ones, he is always trying to understand and love them for what they are. 
 After the lecture, some fans stopped Leigh asking for autographs. He was really kind to everybody, even to an evidently disturbed young man (an Italian, I’m afraid to say so) who started making a list of all the great British film directors of cinema history. Leigh listened to him quite carefully, and then he said: Yes, right, but David Lynch is not British, my dear. The man kept going, switching to the awful situation of Italian cinema (!!!), telling him that nowadays we don’t have the great filmmakers we used to have. Leigh, once again, very calmly, looked at him and said: Maybe it is so, except for Ermanno Olmi. I wanted to kiss him! But I curbed my enthusiasm and I simply thanked him for his cinema.
When the journalist, at the end of their conversation, asked him to give a piece of advice to the young filmmakers present in the audience, Leigh turned his witty look into the crowd and in a very loud voice announced: Never compromise! 
He surely never did.

giovedì 8 dicembre 2011

Zazie's (Criterion) Top #10

Being the cinema freak I actually am, means that not only I adore going to the movies, but I also adore collecting them.
I have a small but interesting DVD collection at home and I really enjoy buying films. Many years ago, I discovered a DVD “brand” that immediately became my favourite one in the whole world: The Criterion Collection. Luckily enough, Criterion is American. I say luckily because the DVDs have a different region and I can’t buy them. If I could, I would spend ALL my money on them: The Criterion Collection has the most wonderful movies ever made and the design of their covers is simply to die for! If you go on their site, there is a section called TOP 10s, in which filmmakers and actors indicate their favourite 10 Criterion DVDs. 

I always dreamt of being asked about it, but I’m afraid Criterion will never do. How wonderful to have a cinema blog where I can tell you which are Zazie’s Criterion TOP #10:  

#1 - The Adventures of Antoine Doinel by François Truffaut
Antoine Doinel, from 12 until 40 years old: a brother, a friend, a lover, a husband. My family. My life.

#2 - Hiroshima Mon Amour by Alain Resnais
A screenplay by Marguerite Duras: Hiroshima, summertime, the love affair between a French woman and a Japanese man. The beginning of a ever lasting love between me and an entire country.

#3 - In the Mood for Love by Wong Kar-Wai
Hong Kong in the 60s: a lot of rain, a lot of rallenties, magnificent dresses, splendid music, an impossible love, a unique atmosphere. 
I swear: I can die for this movie!

#4 - Six Moral Tales by Eric Rohmer
Six stories, five jewels and a masterpiece: Ma Nuit chez Maude
I want Eric Rohmer back!

#5 - Red Desert by Michelangelo Antonioni
All this red colour, the factories of Northern Italy, the chilling side of life and the most incredible statement by Monica Vitti: Mi fa male tutto, anche i capelli! (everything hurts, even my hair!)


#6 - Blue White Red Three Colors by Krzysztof Kieslowski
Different colours, different stories, different countries, but just one genius behind the camera.  

#7 - Hunger by Steve McQueen
IRA man Bobby Sands is starving himself to death in an Irish jail, while Steve McQueen and his actor Michael Fassbender give life to the most amazing cinematic collaboration. Unforgettable.

#8 - Playtime by Jacques Tati
A man who doesn't need words to create a world. A pure gem. 
A must-see of the cinema history.

#9 - Il Posto by Ermanno Olmi
Olmi, the sweetest and loveliest man I ever had the chance to meet in my life. He talks about Milan, a poor boy looking for a job, the innocence of youth. Evviva! (as he always says...)

#10 - Rushmore by Wes Anderson
Max Fischer, do you want to marry me?

mercoledì 30 novembre 2011

Tutto in una notte

Che il cinema sia una forma artistica di altissimo livello, io l’ho sempre pensato, ma è vero che esistono dei film, rari, rarissimi, in grado di esprimere molto meglio e più di ogni altro tutta la grandezza, la straordinarietà, la profondità e la potenza del mezzo cinematografico. Stiamo parlando di film che si vedono, nei migliori dei casi, una o due volte l’anno. Tre al massimo.
Di recente, mi è capitata proprio questa fortuna.
Il film in questione è Once upon a time in Anatolia (C'era una volta in Anatolia) del regista turco Nuri Bilge Ceylan, la cui visione è paragonabile, per intensità e stravolgimento, alla lettura di un romanzo di Dostoïevski, alla contemplazione di un quadro di Bacon o all’ascolto di una sinfonia di Beethoven.
Ceylan (nato ad Istanbul nel 1959) è considerato il più grande regista turco contemporaneo e i suoi film, presentati nei festival cinematografici di mezzo mondo, sono spesso ricoperti di premi, in particolare al Festival di Cannes: Uzak (2002) ha ricevuto il Grand Prix du Jury e il premio per il Miglior Attore, Three Monkeys (2008) quello per la Miglior Regia, e la sua ultima opera, di nuovo, il Grand Prix du Jury (ma la Palma d’Oro, no? Ah, no, la Palma d’Oro l’hanno data a Tree of Life. Ah, ecco: bravi, complimenti).
Nuri Bilge Ceylan
Once upon a time in Anatolia è un’esperienza psico-fisica di rara portata: il film è lentissimo, dura due ore e trentacinque minuti, non succede praticamente niente, e la prima ora abbondante di film è girata quasi esclusivamente al buio, nelle deserte steppe dell’Anatolia. E sì, lo so cosa state pensando, state pensando che mi è dato di volta il cervello a consigliarvi un film di questo tipo. Certo, non vi sto dicendo che sarà un’impresa facile, ma vi assicuro che poi sarete felici, e ricompensati, perché questo film vi entra nella pelle come un virus pericoloso, e non vi molla più (io l’ho visto quasi dieci giorni fa e di notte ancora mi vengono in mente stralci di dialogo e immagini nitide e fortissime). Se si è abbastanza pazienti da entrare nel film, e lasciarsi trasportare da questo spazio-tempo parallelo, alla fine avrete l'impressione di non essere solo stati al cinema, ma di aver passato la notte intera insieme ai protagonisti del film. Perché è notte fonda, in una sperduta landa dell'Anatolia, e tre macchine viaggiano lentamente una dietro l'altra. In questo convoglio si trovano due uomini accusati di un omicidio, il commissario e i poliziotti che indagano sul caso, il giudice che dovrà processare gli assassini e il medico che dovrà constatare il decesso del cadavere che stanno cercando. I due uomini non ricordano più il luogo esatto in cui lo hanno sepolto, e questa terra desolata sembra tutta uguale, e poi è buio, fa freddo, hanno fame e sono stanchi. Le ore passano lentissime, in questo vagare che sembra insensato. Quando tutti sono allo stremo, il capo di un villaggio li accoglie in casa e dà loro da mangiare. Dopo la sosta, ormai è quasi mattina, finalmente il cadavere viene trovato. Possono tutti ritornare in città, dove il medico procederà all'autopsia che chiarirà le cause della morte e metterà fine a questa lunga, terribile notte.
Once upon a time in Anatolia è un trip metafisico nei più oscuri meandri dell'animo umano, dal quale si esce, catarticamente, più lucidi e consapevoli che mai. 
Ceylan costruisce con pazienza, scena dopo scena, un mondo dove niente è come appare a prima vista, dove sul paesaggio e sui personaggi si sono stratificati anni di solitudine, di dolore, di domande lasciate senza risposta, ma anche di momenti di felicità improvvisa, insieme ad altri completamenti assurdi e divertenti. I dialoghi fanno parte del piano. Sembrano fatti di niente, eppure alla fine del film si capisce che scavano a fondo, che stanno dicendo cose fondamentali.
Ci sono due scene per me indimenticabili: la prima è il momento in cui, dopo la cena, la figlia del capo del villaggio entra nella stanza e si avvicina ad ogni uomo per portare una tazza di té. Sul vassoio che porta in mano c'è una lampada ad olio che illumina uno dopo l'altro i loro volti distrutti. E questa presenza femminile, la sua giovinezza, la sua innocenza, la sua bellezza, sembra davvero rappresentare la sola luce e il solo conforto (tra l'altro personalizzato: l'idea geniale di dare ad uno degli assassini, anziché il té, una lattina di coca-cola come aveva inopportunamente richiesto durante il pasto) alle loro vite oscure e senza speranza. 
L'altra è quella, semplicissima e straordinaria, in cui il medico, arrivato al mattino nel suo studio, finalmente solo, con un movimento lento alza gli occhi e si mette a guardare dritto davanti a sé. In realtà, si sta guardando allo specchio. Ma noi non lo sappiamo, ancora, e per un lungo, meraviglioso istante, pensiamo semplicemente che quell'uomo stia guardando noi, noi spettatori. I suoi occhi sono puntati nei nostri occhi e come per osmosi la sua storia diventa la nostra, e quella di ciascuno di noi la sua. Perché, in fondo, non importa da che epoca, storia, ceto sociale, razza, religione, o paese proveniamo, siamo tutti, inesorabilmente, inevitabilmente, imperfetti esseri umani destinati a morire.
Persino Tarkovskij, io credo, non avrebbe saputo esprimerlo meglio.

mercoledì 23 novembre 2011

Shame

If there was a movie I was dying to see this year, it was Shame, by British director Steve McQueen
For two main reasons: because I thought his first movie, Hunger, was a masterpiece, and because I am convinced that Michael Fassbender, who played in both McQueen’s movies, is THE best actor around (and that’s been the case for the last 3 years). When I found out, a couple of weeks ago, that the cinema MK2 Bibliothèque was hosting the French avant-première of the movie and that the director and the actor would have been present in flesh and blood, I basically lost my mind. I think I have been the first one in Paris to buy the ticket (literally two seconds after the tweet announcing the sale) and, well, I was right: the screening went sold out in few days. Yesterday night was the big night and I was lucky enough to find a seat in the first row (actually, I was amazed by how fast I could run to grab a place on my high heels!). The cast joined us at the end of the movie: Steve McQueen, Michael Fassbender and young actress Nicole Beharie talked briefly to the audience.
McQueen, Beharie, Fassbender - Paris, November 23 - Photo by Zazie
McQueen, Beharie, Fassbender - Paris, November 23 - Photo by Zazie
It was very quick and I was still under the movie’s spell, so everything seemed a bit dreamy to me. The public couldn’t ask any question, and maybe it was better like that, because the only question I could have placed under the circumstances to Mr. Fassbender would have not been of the highest quality: Are you photoshopped???!!! Or, alternatively, the one I have prepared but I didn't have the guts to ask:
Zazie, the blogger with NO Shame - Photo by Spissetta
Shame relates the story of a descent into hell, the story of an addiction that brings Brandon, a 30something living in New York, onto the abyss of self-destruction. We are not talking about drugs or alcohol, here, but we are talking about sex. Brandon’s days and nights are built around this. He literally spends his time fucking around, seeing porno movies, making porno chats, or wanking at every hour, both at home or in his office’s toilets (because, yes, he manages to have a normal job). The unexpected arrival in his apartment of his sister Sissy, a musician without a place to live and some evident issues to solve (the film remains very vague on the subject, but it is clear that in the family something went quite wrong), breaks the fragile equilibrium and the routine of Brandon’s existence. The consequences, for both of them, will be very heavy and Brandon will be obliged to face the desperation that’s eating his life from the inside. 
At his second movie, Steve McQueen can already be admitted to the court of the grand. A first picture is sometimes a concourse of lucky circumstances and good events, a second one, no. McQueen has a personal, special style (every scene is necessary, there is no place for redundant shots in his cinema), important screenplays and no fear whatsoever to dig into the deepest, scariest, most unsettling parts of the human being. In fact, his cinema is a cinema of the extreme. But for one thing, yes, he has been very lucky: in finding an actor willing and daring to follow him on this path. For Hunger, Fassbender starved himself and lost 30 kgs (at the end of the movie you can literally count the bones on his chest), for Shame, he has been ready to deliver himself completely. He shows on screen the most intimate parts of his body, and the most intimate gestures. Nothing has been spared to the poor guy: the actor is pissing, masturbating, fucking, saying and doing the most outrageous things in front of the camera. And the camera is always onto him, the camera is almost possessing him. No surprises he won for this role the prize for Best Actor at the last Venice Film Festival. This is a one-of-a-lifetime performance that deserves an Oscar (but I doubt that our friends in Hollywood will be bold enough to give it to him. Don't worry, the Zazie d'Or is on its way!). Even Carey Mulligan, who plays his sister, an actress that I have always found mediocre until now, proved to be a great actress if in the right hands. 
Shame is an insanely intense movie, full of unforgettable moments.
From the saddest version of New York, New York ever heard, to the sudden lightness and innocence of a real, normal (and unique) date, till the obsessive orgy scene where Brandon’s face is transfigured by a grimace of desperation instead of being blessed by an expression of pleasure. This movie is tough, gripping, compelling, intelligent and brave.
I assure you, the only shame here, would be NOT to see it!

domenica 20 novembre 2011

Vivement Trintignant!

L'altra mattina mi stavo preparando per andare al lavoro e, come al solito, avevo in sottofondo la mia radio preferita, che trasmette musica jazz 24 ore su 24.
La stavo ascoltando distrattamente, ma ad un certo punto lo speaker ha fatto un nome che ha attirato la mia attenzione, quello di Jean-Louis Trintignant, un attore che adoro. Subito dopo, la sua voce ha fatto irruzione nel mio bagno. Trintignant stava leggendo una poesia di Boris Vian, Je voudrais pas crever (Non vorrei morire), ritmata dal suono di un violoncello. E allora nel mio bagno ha fatto irruzione anche il sublime. Senza neanche rendermene conto, avevo chiuso l'acqua e stavo con lo spazzolino a mezz'aria. La verità è che una non se lo aspetta di provare emozioni simili alle otto del mattino mentre si sta lavando i denti. Come faccio a spiegarvi quello che ho provato? Nello spazio di due minuti Trintignant mi ha fatto capire quanto la poesia sia un'arte fondamentale, perché arriva a toccare mondi interiori che praticamente non sapevamo di avere, e mi ha dimostrato che un grande attore nemmeno ha bisogno di uno schermo per rapirti e portarti via. Basta la voce.
Quello stesso giorno, cercando il testo della poesia, mi sono resa conto che Trintignant sta portando in giro per la Francia uno spettacolo in cui recita, giustappunto, poesie di Boris Vian, Jacques Prévert e Robert Desnos, accompagnato da un violoncello e un accordéon, e che questo week-end lo spettacolo era a Parigi, al teatro dell'Odéon. Detto fatto, ieri sera mi sono ritrovata con un gruppo di amici seduta (in prima fila! miracoli dell'entusiasmo) in questo bellissimo teatro parigino. Sul palco, assolutamente spoglio, tre sedie: due per i musicisti e una per l'attore. Trintignant, 81 anni il mese prossimo, tutto vestito di nero, nascondeva nello sguardo qualcosa di infantile e lanciava sorrisi che erano lampi estremi di giovinezza. Per un'ora e trenta minuti (ma per me come per tutti sarebbe potuto andare avanti pure per altre tre ore comode) ci ha letteralmente incantati con la sua voce. Quei due minuti di emozione assoluta che avevo provato ascoltandolo per radio, si sono moltiplicati per novanta. Trintignant sul palco emana la pace di un uomo che non ha niente da dimostrare. Cosa ci può essere di più semplice ed essenziale di un attore seduto su una sedia che dice poesie? Eppure si percepiva tra le righe, nelle pause, dietro gli occhi, tutta la complessità della vita umana, della sua come della nostra, e della sofferenza, mista a felicità, che la compongono, il tutto velato da quel sottile senso di ironia che è sempre stato uno dei suoi tratti caratteristici. Ho ripensato a quando Truffaut lo aveva cercato per recitare in Vivement Dimanche! e lui gli aveva detto: Sapevo che prima o poi mi avreste chiamato. Ho pensato spesso, vedendo i vostri film, che avrei potuto recitare alcuni dei vostri personaggi. E Truffaut incuriosito gli aveva chiesto: Ah, sì, e quali? E Trintignant: Tutti quelli che avete interpretato voi! Del resto, narra la leggenda che Spielberg volesse proprio lui per la parte dello scienziato francese di Close encounters of the third kind e che, a causa degli impegni di Trintignant, avesse poi ripiegato su Truffaut.  
Trintignant ha recitato in film bellissimi, sarebbe impossibile citarli tutti qui, ma quelli in cui io l'ho amato di più, Vivement Dimanche! a parte, sono stati Ma Nuit Chez Maud di Eric Rohmer e Film Rosso di Krzysztof Kieslowski. C'era qualcosa di veramente speciale, in quei personaggi, come se l'attore stesse rivelando una parte intima di se stesso. Timido nel primo, burbero nel secondo, ma entrambi di un'umanità disarmante, di una qualità superiore, sottile ma potentissima. E poi quella voce! Quando ieri sera, durante lo spettacolo, ha letto la lettera che Desnos ha scritto alla moglie prima di morire, le lacrime hanno iniziato a scorrere a fiumi. Almeno le mie. E quando si è alzato alla fine per ricevere gli applausi (lunghissima standing ovation da parte di tutto il teatro, ça va sans dire!) quell'uomo piccolo e vecchio vestito di nero sembrava occupare da solo tutto lo spazio di quell'enorme palcoscenico.
Ai grandi attori, succede così.
  

domenica 13 novembre 2011

Cinéma Confort!

Sappiatelo: ho sempre talmente tanta voglia di andare al cinema, che non importa dove io mi trovi, basta che ci sia una sala cinematografica nei dintorni dove mi possa rifugiare in qualsiasi momento.
Persino quando arrivo per la prima volta in una città sconosciuta, e quindi sensatamente dovrei essere in giro a visitare le bellezze della suddetta, finisce, non si sa bene come, che io mi ritrovi tempo zero in un cinema. Così è puntualmente successo venerdì scorso: dopo nemmeno tre ore che ero arrivata a Bruxelles, città nella quale non avevo mai messo piede in vita mia, già stavo seduta nel mitico cinéma confort (!!!) L'Aventure. Certo, la colpa è anche un po' dei miei amici, che conoscono le mie perversioni e le assecondano (vero, Nicola?). Devo ammettere, questa sala valeva veramente la pena: collocata nel bel mezzo di una galleria improbabile che non avrebbe sfigurato in un qualsiasi film di Mike Leigh, il décor dell'Aventure è rimasto intatto dagli anni '70 ad oggi e segna il trionfo del colore viola. Tutte le pareti, le comodissime poltrone, anche un po' la faccia di quello che vende i biglietti (per altro molto simpatico e gentile): l'apoteosi del monocolore più inquietante che ci sia. 
Il cinema contiene ben tre sale cinematografiche, e noi ci siamo ritrovati in quella più piccola, dove a fianco dello schermo troneggiava una lampada degna di Saturday Night Fever dall'effetto ipnotico assicurato. 
Tra l'altro, eravamo gli unici spettatori. Il film prescelto, perché certo non potevamo andare a vedere l'ultimo blockbuster in 3D, all'Aventure, era un film colombiano di qualche anno fa, per cui forse era prevedibile che non ci fosse tutta questa gran folla. 
Che bello, comunque, stare da soli in una sala cinematografica. Ci si sente dei produttori degli anni '30 a Los Angeles che si fanno proiettare i film nella sala adibita a cinema della loro casa tutta vetri sulla collina di Hollywood. Un vero lusso!
L'effetto del cinema, quando si è in una città sconosciuta, può essere sorprendente: anche se non ci ero mai stata, a Bruxelles, arrivando in macchina in una piazza della città, ho avuto un preciso déjà-vu. Io lì ci avevo già messo piede, io riconoscevo quei luoghi. E' stato dopo un attimo di riflessione che mi sono resa conto di averli visti qualche settimana fa in un film del 1967 di Jerzy Skolimowski, Le Départ, con Jean-Pierre Léaud (e la meravigliosa musica di Krzysztof Komeda). Forse il ricordo è stato ancora più nitido perché si trattava di un film in cui Léaud cerca disperatamente una macchina per partecipare ad un rally (cosa che non riuscirà mai a fare) e noi stavamo passando da quella piazza su una Lancia Fulvia del 1969, una vecchia macchina che sembrava uscita tale e quale dal film, e che azzerava in un attimo la distanza di oltre 40 anni dalle immagini della pellicola.
Tutto questo, ancora una volta (temo), per ribadire il concetto che la vita mi sembra molto più interessante se vissuta attraverso il filtro di uno schermo cinematografico.
Gli eventi sono gli stessi, certo, ma volete mettere il confort?

domenica 30 ottobre 2011

The Artist

Siete di quelli che non hanno più fiducia nel cinema? 
Di quelli che pensano che ormai a Hollywood si facciano solo film in 3D pieni di effetti speciali, morti ammazzati, dialoghi privi di spessore e attori capaci soprattutto di mostrare bicipiti e sorriso smagliante? 
Se appartenete a questa categoria, allora ecco qua il film che fa per voi. Il film nato per smentire le vostre certezze, il film creato per dimostrarvi che, nell'anno di grazia 2011, il cinema è ancora capace di osare l'inosabile, di stupire, di farci sognare, ridere, piangere, e credere, anche solo per due minuti due, signoriesignore, che il mondo è un posto meraviglioso. Come? Semplice, con un film muto (!) e in bianco e nero (!): The Artist.
Girato a Hollywood (e sognato da anni) dal regista francese Michel Hazanavicius, questo film ha visto la luce grazie al coraggio e alla lungimiranza di un giovane produttore, Thomas Langmann (che non è nuovo ad operazioni arrischiate, basti pensare che c'era sempre lui dietro le quattro ore di biografia del criminale francese Mesrine). Presentato in competizione all'ultimo Festival di Cannes, il film ha ricevuto il premio (meritatissimo!) per la miglior interpretazione maschile, assegnato a Jean Dujardin. L'attore e il regista sono alla loro terza collaborazione. In Francia, hanno sbancato il botteghino e ricevuto elogi dalla critica per i loro film OSS 117, Le Caire Nid d'Espions e OSS 117, Rio ne répond plus, che sono in pratica una ridicolizzazione dei film di James Bond, con ambientazioni rigorosamente '60s. Film deliziosi e leggeri, che suonano ora come un bel preludio al loro ultimo lavoro. Del quale fa anche parte Bérénice Béjo, compagna del regista nella vita reale, e già protagonista con Dujardin del primo OSS.  
The Artist racconta la parabola discendente di George Valentin, star del cinema muto alla fine degli anni '20, incapace di rendersi conto che l'avvento del cinema sonoro gli distruggerà prima la carriera e poi la vita. A differenza di Peppy Miller, una ragazza che passa da semplice comparsa nei film di Valentin a star del cinema parlato nel giro di pochissimo tempo. Tra i due scatta subito una forte attrazione, ma Valentin è sposato e i due non possono coronare il loro sogno d'amore. Soltanto quando l'attore, in miseria, verrà abbandonato da tutti (moglie compresa), Peppy potrà andare in suo soccorso e offrirgli una seconda occasione di vita.
The Artist, lo confesso, mi è piaciuto da morire fin dai titoli di testa, in perfetto stile RKO. Il regista non può capire quanto lo ammiri per il coraggio che ha avuto: l'idea che qualcuno faccia un film muto nel 2011 è semplicemente meravigliosa (mi ricordo un solo altro esempio negli ultimi anni, ed è quello di Juha di Aki Kaurismaki, ma in tutt'altro stile). E la cosa ancora più incredibile è che il pubblico lo segua: il film in Francia, sappiatelo, è già campione d'incassi. La verità è che ci si dimentica dopo un minuto che è iniziato, che questo film è senza dialoghi. Perché si rimane immediatamente catturati dalla storia, dalla bellezza delle scene, della luce, della musica, e dalla bravura degli attori (Jean Dujardin è magnifico: ha la classe, il carisma e il portamento di un moderno Clarke Gable). The Artist è amore per la magia del cinema (e del cinema toutcort) che trasuda da tutti i pori dello schermo, è un omaggio sentimentale (sincero e disarmante) a Hollywood e ad universo lontano che racchiude in sé gli elementi essenziali del nostro immaginario collettivo. E' come se, guardando The Artist, ritrovassimo l'innocenza perduta, e ci rendessimo conto di quanto ci fosse mancata. Per me, il momento più bello, è senza dubbio quello dell'innamoramento tra George e Peppy: i due stanno girando la scena di un ballo, dove si devono incrociare, ballare allacciati per pochi istanti e poi separarsi. Ma la scena deve essere ripetuta continuamente, perché c'è sempre qualcosa che non va: i due ridono, sbagliano i tempi, rimangono abbracciati troppo a lungo. Insomma l'amore racchiuso in quattro, semplicissime scene. Alla fine del film, il pubblico (sala stracolma di uno dei più grandi cinema di Parigi) è scoppiato in uno spontaneo, fragoroso applauso. Come se fossimo a Hollywood nel 1927, e non al Gaumont Opéra nel 2011.
Tutto sembrava possibile, persino mettersi a baciare qualcuno sotto la pioggia all'uscita del film, pretendendo di essere ancora in un mondo perfetto: silenzioso, e in bianco e nero.


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