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martedì 13 dicembre 2016

Arrival

Is there life on Mars?
Apparently there is, or at least there’s life on some planets in this immense universe and, sooner or later, people living there will come to see us.
This has been one of the biggest fears in human history and one of the most exploited subjects in science-fiction movies since the creation of cinema more than 100 years ago.
There is a bunch of titles that obviously come to mind thinking about this, from the (almost) reassuring version of Steven Spielberg in Close encounters of the third kind and ET, to the frightening one of the Alien series, to the irreverent and crazy exploit of Tim Burton in Mars Attacks!.
From now on, we must add a further view, the one signed by Québécois film-maker Denis Villeneuve: his movie Arrival is, by far, one of the powerful and poignant aliens landing
of cinema history.
Louise Banks, a linguistic teaching in a college, remembers very well the day aliens arrived on planet earth. Suddenly, overnight, twelve immense spacecrafts almost land (they are not exactly touching ground but remain suspended over it) in twelve different parts of the world. One of them is Kansas, and this is where Colonel Weber of the US Forces asks Louise and mathematician Ian Donnelly to go to, in order to understand the aliens language and to decode their messages, hoping they’re coming “in peace”. Time is an urgent matter, because in other places (China, especially), politicians are about to declare war to the aliens, and panic is spreading everywhere in the world.
Louise Banks (Amy Adams) and Ian Donnelly (Jeremy Renner)
I seriously start to believe that Québécois do it better. Cinema, of course.
In these last years, some of my favourite movies have been made by film-makers coming from the Montreal area, and I’m talking, ça va sans dire, about Xavier Dolan and Denis Villeneuve.
Even if extremely different, they both have a very personal and passionate approach to what they film, and the wonderful habit of creating movies that can’t possibly leave the audience indifferent.
They’re talented and they want to make movies in their own way. And I like it!
Villeneuve’s breakthrough was the amazing Incendies, back in 2010, followed by Prisoners and Enemy, both made in 2013, both with stunning performances by Jake Gyllenhaal, so-called thrillers but much more than that. Thrillers with a deep soul, if you know what I mean. In 2015, Villeneuve was in competition at the Cannes Film Festival with Sicario, a breath taking movie about the cartel war on the Mexican border, having as main character a strong yet amazingly vulnerable woman, superbly played by Emily Blunt.


Villeneuve, it is clearer at each new movie, has this tendency to embrace a certain cinematographic genre and to change it from the inside, to spread elements of disturb, to widen the borders of it and go deeper down, where anybody has gone yet.
Arrival is certainly this: it is science-fiction, but just on the surface, because what Villeneuve wants to tell us has nothing to do with it. And there is a scene in the movie that summon up his whole career: Louise going nearer the glass that separates her from the two enormous,
pretty scary aliens, bringing in her hands a panel where she has simply written: HUMAN.
We are human and this is what the film-maker is interested in: why we do what we do, in the way we are doing it? What is the mystery behind our decisions, behind our feelings? And will a new, possible awareness of our future lives, change the way we act?
Arrival also talks about the world we live in: the fragility of our social systems, of the relationships between countries, and the lack of understanding that could so easily lead to ghastly catastrophes.
We need to better understand each other if we want to avoid the worst, maybe it is as simple as that.
And Villeneuve seems to strongly believe in it: the only element that could save this messy world from his destruction is the humanity in us. 

And it is not by chance that, in another key scene, the scientist confesses to Louise: "The most amazing thing that happened here wasn’t meeting them. Was meeting you."  
Maybe science-fiction will save romance, after all.

venerdì 6 novembre 2015

Saul Fia (Il Figlio di Saul)

Esiste qualcosa che non possa essere rappresentato al cinema? 
Qualcosa che non si possa mostrare su uno schermo perché troppo “near the bone” (vicino all'osso), come dicono gli inglesi?
Il dibattito è acceso e di lunga data, soprattutto su un aspetto terribile della nostra storia recente: l’Olocausto. Più o meno tutti i registi che se ne sono occupati hanno dovuto fare i conti con polemiche accesissime e dibattiti infiniti. E’ successo a Spielberg con Schindler’s List e a Benigni con La vita è bella, tra gli altri.
All’ultimo Festival di Cannes, c’era un film che ha avuto il riconoscimento più importante dopo la Palme D’Or, il Grand Prix du Jury, che parlava proprio di questo: Saul Fia (Il Figlio di Saul) di László Nemes. E, incredibile ma vero, questo giovane uomo di 38 anni al suo primo lungometraggio, sembra avere messo tutti d’accordo. E, dopo aver visto il film, si capisce benissimo perché.
Il regista ungherese László Nemes
Ottobre 1944, Campo di sterminio di Auschwitz
Saul, ebreo ungherese, fa parte di un sonderkommando, ovvero un gruppo di lavoro creato dalle SS e composto da ebrei che al loro arrivo nei lager vengono scelti (essenzialmente per la loro robusta costituzione) per fare il lavoro “sporco” e avere così risparmiata la vita per qualche mese. Il lavoro consiste nell’accompagnare i nuovi arrivati verso le camere a gas (facendo loro credere che si tratti di docce), rimuovere i loro corpi (i “pezzi”, come li chiamano i loro aguzzini), trasportare i cadaveri verso i forni crematori e poi disperdere la loro cenere. Un giorno, Saul assiste alla scena di un ragazzino che viene ritrovato ancora vivo dopo la camera a gas (e che viene ucciso subito dopo). Dentro Saul scatta qualcosa, forse l'ultimo spiraglio di umanità: non avrà pace sino a quando non avrà dato una degna sepoltura a questo ragazzo. La sua spasmodica ricerca di un rabbino si intreccia con il tentativo, da parte del sonderkommando, di fare un attentato contro le SS per cercare la libertà.
Film di potenza mistica, oggetto contundente in grado di straziare il cuore, Saul Fia è lo sguardo sull'orrore allo stato puro, è la visione ininterrotta e insopportabile dell'abisso, del buio assoluto.
Il regista fa una scelta stilistica semplicissima: attacca la cinepresa sulle spalle del protagonista, come se fosse l'ennesimo fardello che lui debba portarsi appresso, come se ci fosse ancora spazio per un solo, infinitesimo dolore nella vita-non-vita di Saul e delle altre ombre intorno a lui. E sono ombre tanto più che tutto il resto, a parte il volto o le spalle di Saul, rimangono sfuocati, semplicemente perché non sarebbe possibile mettere a fuoco quello che c'è da vedere, perché andrebbe oltre l'umana sopportazione. Nemes ci fa sentire solo le voci, e quelle bastano e avanzano: prima quelle grondanti falsità delle SS che spingono i prigionieri dentro le docce (fate presto, la zuppa si raffredda, mi raccomando ricordatevi il numero di appendino sul quale avete lasciato i vestiti) e poi le urla di donne, uomini e bambini che vengono uccisi. 
Saul, il volto scarno, lo sguardo cocciuto e disperato (lo interpreta l'attore miracolo Géza Röhrig, al suo primo film!!!), si aggira per il campo senza fermarsi mai. La sua ricerca di un rabbino come ultima risorsa per dare un senso a quello che, non c'è logica o religione che tenga, un senso non ce l'ha.
E’ solo alla fine del film, quando scorrono i titoli di coda, che ci si rende conto di non aver respirato per due ore. Di essere rimasti in apnea, di aver sospeso ogni funzione vitale. Ed è solo a quel punto che le emozioni vengono a galla, tutte insieme, una specie di dolore sordo misto a lacrime interne, che si traduce all’esterno in un’espressione stravolta ed attonita.
Come sempre, in questi casi, mi sorge spontanea un’unica domanda: ma come è stato possibile che degli essere umani abbiano fatto questo ad altri esseri umani?
E mi torna in mente quella battuta, agghiacciante quanto efficace, sentita in un film di Woody Allen (credo fosse Deconstructing Harry/Harry a pezzi ma non ne sono certa). 

La sorella molto credente ed osservante del protagonista, interpretato da Allen stesso, lo rimprovera:
- Tu sarai uno di quelli che finiranno con il negare l’Olocausto!
E lui; di rimando:
- Ti sbagli, sorella, non solo so che hanno ammazzato 6 milioni di noi ebrei, ma so anche che i record sono fatti per essere battuti.
Ecco, in questo caso, speriamo proprio di no.

martedì 10 dicembre 2013

The Readers

The Reader di Stephen Daldry
Ci penso spesso, io, a voi lettori.
E quando ci penso mi viene una grande commozione. L’idea che, famiglia e amici a parte, dei perfetti sconosciuti si mettano lì e trovino il tempo, nel mezzo di giornate che immagino piene di impegni e preoccupazioni di ogni tipo, per leggere un post di Zazie, mi riempie di una gioia insensata. 
Eppure ci siete, siete tanti, e venite da ogni parte del mondo. Certo, lo zoccolo duro è composto da lettori italiani e francesi, ma ci sono settimane in cui quelli americani superano tutti gli altri, per dire, dandomi la sensazione che la fatica di scrivere spesso in inglese sia ampliamene ripagata.
Poi ci sono i lettori ancora più speciali, quelli che mi scrivono dei commenti.
Ah, quelli io proprio li adoro! (anche perché di solito mi fanno un sacco di complimenti).
Loro stanno in una categoria a parte, perché se già mi sembra straordinario che la gente mi legga, che mi scriva mi fa letteralmente impazzire.
Dai commenti dei lettori si ricavano un sacco di spunti, si capiscono molte cose, e si riceve una fortissima spinta a continuare e a fare meglio (e ce n’è sempre bisogno). Esiste poi un passo successivo, che ha ancora più dell’incredibile, a pensarci, ed è quando da questi commenti poi nasce un’amicizia. Mi è successo tante volte e che posso dirvi? E’ al di là di ogni più rosea aspettativa sull’essere umano. 
The Shop around the Corner di Ernst Lubitsch

L’altro giorno, ho ricevuto la mail di un lettore che diceva di aver cercato di lasciarmi un commento ma che non ce l’aveva fatta... e quindi si era deciso a scrivermi un messaggio. Il motivo per cui il commento non era stato accettato, era la sua lunghezza... due pagine fitte fitte piene di considerazioni sul mio post intitolato Il Sesto Senso (Cinematografico).
La prima volta che l’ho letto ho pensato: Oddio, ma io non ho capito niente di quello che mi sta dicendo! Alla seconda mi è sembrato di intravedere una luce, e alla terza ho colto l'aspetto fondamentale della vicenda: ho dei lettori super colti ed interessanti, che mi citano come niente fosse Jacques Rivette, Jean Rouch,  Aki Kaurismaki e Agnès Varda e mi parlano dei film in maniera preziosa e piena di passione.
Mi sembrava davvero un peccato leggere in esclusiva quello che Francesco mi aveva scritto, così gli ho chiesto il permesso di pubblicare il suo lungo "commento", perché volevo  condividere le cose interessanti che lui mi aveva scritto con altri miei lettori, che magari chissà, avranno voglia di rispondergli, di dirgli che magari non sono d'accordo, insomma d'iniziare un bel dibattito.
Ho deciso che questo delizioso ipertrofico messaggio poteva essere un po’ la summa di tutti gli altri commenti ricevuti, e per i quali sono a tutti davvero grata. La mia passione per il cinema mi ispira, ma è quella dei miei lettori che mi fa venire voglia di andare avanti. Sapevatelo!
Quindi, come si diceva nel film di Cioni Mario: "Sospensione di ricreativo, principia avviare il culturale... " E grazie, lettori miei!

Cléo de 5 à 7 di Agnès Varda
Leggo spesso quel che scrivi e di solito sono molto d’accordo.
Questa volta, poi, mi sembrava un testo che avrei potuto addirittura scrivere io. E allora perché lasciarti un commento e non fare come sempre? Ovvero ritenermi soddisfatto della lettura, felice di non essere il solo a provare quelle sensazioni a proposito della voglia di andare al cinema nonostante la consuetudine, a proposito del sesto senso, e a proposito dell’adattamento del romanzo fitzgeraldiano (su cui il trailer ha avuto la meglio e che dunque, ma lo attribuisco a una forma di fortuna, non ho visto).
Perché allora? Forse perché ho sì sentito anch’io puzza di molto rumore per nulla intorno al film di Kechiche, nonché di strumentalizzazioni (benemerite quelle a sfondo sociale, intollerabili quelle di un vagheggiato ultimotanghismoaparigi con la Seydoux nei panni di Marlon Brando), solo che poi, io – e mi è dispiaciuto – non ho avuto la catarsi.
Sono in minoranza, è evidente, ed è perfino giusto che lo sia, perché il film è molto bello, ed è oltretutto una prova di sicura sensibilità, maestria e senso del cinema.
E allora di che cosa mi lamento? Fatta salva la questione che cogliere il respiro del tempo, da parte di un bravo autore, di un artista, comprenda ormai anche il saper cogliere il respiro dei festival e della critica che vi si aggira, nel senso che, non solo non c’è niente di male ad essere attuali perfino mostrando di capire le esigenze estetiche e le urgenze tematiche di un pubblico colto, ma che, anzi, è necessario affinché anche la cultura faccia parte della realtà - questione non irrilevante almeno in Italia - ho l’impressione che Kechiche abbia compreso talmente bene il dispositivo di quel consenso da tentare un salto di qualità intorno alla questione del realismo.
Nel cinema di ieri maggiore realismo significava, detta brutalmente, maggiori tempi morti. Lo sguardo dava conto di una vita che resisteva anche fra le pieghe di una vicenda e di una sceneggiatura. Accadeva nel cinema di Bresson o di Jean Rouch come continua a succedere in Garrel, Kaurismaki, Dardenne o Frammartino. L’attenzione “analogica” ai particolari insignificanti o ai vuoti della quotidianità ha, e ha avuto, un rilievo ideologico e ha distinto il cinema, da una parte, in un cinema di regia consapevole appunto del proprio ruolo politico, e dall’altra, in un cinema degli eventi, degli snodi, discreto, nel senso di “digitale” ancor prima della tecnologia, e dunque più compiacente.
Kechiche fa un’operazione nuovissima e ibrida, che forse è l’unica vera risposta possibile alla modernità, sicuramente vincente con il suo progressismo dei contenuti e con la sua “furbizia” formale (non sto parlando di Matteo Renzi, sto ancora parlando di cinema); tuttavia prima di accettarla senza riserve, e di sbarazzarmi dal sospetto di un certo qual personalismo, ho bisogno di comprendere l’inevitabilità storica di un simile assetto strutturale, altrimenti mi viene da derubricarla ad un modo per vincere Cannes nel 2013.
Il premio - argomento non marginale - glielo dà Steven Spielberg, il quale, per questioni funzionali al mio ragionamento, prima di essere l’autore de Lo squalo, di Incontri ravvicinati e di Indiana Jones, è l’autore di quei primi 24 minuti di Salvate il soldato Ryan, e dunque forse il primo, poco prima del 2000, ad interrogarci sulle sorti del realismo e sulle sue potenzialità spettacolari.

Save Private Ryan di Steven Spielberg

La versione americana del realismo non poteva che tradursi in un iperrealismo, ma di certo qualcuno può affermare che non sia realistica la ricostruzione filologica dello sbarco in Normandia a partire dalle inquadrature sovrapposte allo sguardo fotografico di Robert Capa? E d’altra parte, qualcuno può negare che con il realismo della storia non événementielle, dei piccoli gesti quotidiani o dei passaggi a vuoto della camera fino al décadrage come rivelazione del reale, non c’entri niente? Spielberg coniuga il massimo della ricostruzione realistica con il massimo della tensione e dello spettacolo, ha un’idea concertistica della guerra che però, forse, non so, si affrancherebbe dall’abjection rivettiana in nome della filologia bellica del photo-reportage. Insomma Spielberg dimostra, ma all’interno di una concezione hollywoodiana del cinema non poteva essere altrimenti, che anche il realismo può essere muscolare e che, nel suo caso attraverso gli effetti speciali, può diventare esso stesso un effetto speciale.
Ecco, io ho avuto la sensazione, guardando la La vie d’Adèle, di essere di fronte a una versione, sia pure europea e autoriale, di questo tipo di realismo, ben diverso da quello, “pieno di tempo” e creatore di un tempo interiore allo spettatore, cui ero abituato. Ho percepito un realismo ricco, ipertrofico. Quasi un virtuosismo alla continua ricerca della smorfia ideale di un’adolescente, degli ineffabili momenti di un’attrice, un montaggio di occhi, di capelli, di sguardi, di labbra (sempre troppo banalmente dischiuse), di nasi, di corse, di sudori, di bave, di morsi e di masticazioni sempre migliori, sempre più naturali, sempre più frequenti, il film sembra una collezione di momenti realisticamente perfetti.
Paradossalmente si respira durante le scene di sesso. Avevo sentito parlare di una durata imbarazzante ma come giustamente tu rilevi è un “sesso che va avanti quanto deve andare”, e questo perché è il tempo e il tempo soltanto, in questo caso, a dare rilievo realistico alle sequenze. Non voglio dire che sia irrealistico quel che accade fra le due ragazze, ma è palpabile, nel modo di girare, la preoccupazione per un’inclinazione precisa della macchina da presa, non un millimetro più in là né uno più in qua, e tutto quanto al servizio di una bellezza formale, certamente non patinata, ma sicuramente simmetrica, armonica e che mai corre il rischio di risultare oscena. Si respira durante queste scene perché si intuisce che il regista qui non può fare lo stesso gioco con lo spettatore, tanto poi ci pensiamo al montaggio, qui deve tutelare le due attrici, e la macchina da presa, almeno in campo medio, sta ferma, responsabile.
Il realismo di cui parlo dunque sta altrove, sta dove è evidente che la naturalezza dell’attrice lavori in favore della macchina da presa molto più di quanto la macchina da presa non lo faccia per la sua naturalezza; e sta esattamente dove tu stessa l’hai individuato: “qui c'è una camera che sta attaccata al volto di Adèle, al suo corpo, come se le stesse facendo un elettrocardiogramma e non si potesse perdere nemmeno un battito, nemmeno un soffio”. Parole che io considero tanto precise quanto allarmanti però: in una concezione laica e materialistica della realtà credo si possa tentare di sfiorare un principio di verità, nel cinema, solo attraverso la contemplazione del reale, dunque operare con strumenti di precisione per dare attenzione al particolare, oltre a fornire indicazioni parziali, sospetto abbia una vocazione più che altro sensazionalistica. E qui l’amplificazione del reale è programmatica, l’enfasi del particolare ripetuta, come può giovarsene allora il carattere realistico dell’intera sintassi?

La Vie d'Adèle di Abdellatif Kechiche
Ora io non pretendo che si risolva sempre alla lettera il pedinamento cosiddetto zavattiniano, né che dai tempi di Cléo de 5 à 7 della Varda non si sia tentata una progressiva evoluzione di ripresa intorno alla flanerie o all’eterno femminino, ma che kechiche abbia voltato pagina e che abbia voluto rifare un volto nuovo al realismo è questione che non può essere trascurata. Perché se fino ad ora il realismo è stato sostanzialmente un cinema di regia, ora, non diversamente da molto cinema mainstream, sta tornando ad essere un cinema di direzione degli attori. Ecco dove sta l’ibridismo e l’ambiguità de La vie d’Adèle, un film che si presenta dall’interno di una tradizione autoriale realistica per conquistare pubblico e Spielberg con una regia attenta invece alla bravura attoriale. La professionalità, mirabilmente differenziata, delle due attrici è fondamentale per un film come questo, e tutte le derivazioni, dall’attore come modello bressoniano (pensa al recente cinema della Hansen-Love o di Assayas), o come presenza brechtiana (Kaurismaki), o come il non professionista preso dalla strada (di derivazione pasoliniana e dunque più frequente in Italia – Pietro Marcello per dirne uno), rischiano di diventare pallidi ricordi con questa palma d’oro.
Certo, non è il caso di drammatizzare, la storia del cinema non ne rimarrà inficiata, né poi sarebbe così grave; ripeto, si tratta talvolta anche di essere disposti a girare pagina e sapersi aspettare nuovi esiti. Tuttavia, se è vero che il realismo è anche una prassi cinematografica sottesa da un metodo filosofico di ricerca della verità, che Kechiche lo usi come volano per evidenziare la sua bravura o quella delle sue attrici invece di usare la medesima in nome di una verità indagabile attraverso la realtà, significa che ha confuso, più o meno deliberatamente, più o meno astutamente, il fine con il mezzo.
Ecco, io in attesa di nuovi film, sospenderei il giudizio.
Un caro saluto, a te e a Parigi,
 
Francesco

Visto che roba? S'apre il dibattito!

lunedì 25 marzo 2013

The Oscars 2013 - Part 4: The Governors Ball

I have to confess I didn’t know about the existence of a thing called Governors Ball until the previous day, when I received the invitation to attend it. On the card there was written: Hollywood & Highland, Ray Dolby Ballroom, Immediately Following the Ceremony.
Once the Oscars were over, in fact, we have been invited to reach the top floor of the theater building: before entering the hall, there was the usual wall of journalists and photographers waiting for the stars, and those immense reflectors that, believe me, are the most annoying things on planet earth. The life of a star is a tough one…. how can you resist making an interview under those liquefying lights? The Governors Ball was taking place in an enormous, quite dark space, with an orchestra on the far left side, round tables elegantly set up everywhere and few big tables on the corners covered with food. I guess a place like El Morocco in the 20s should look like this.
I immediately understood that all the stars, sooner or later, would be passing by. And I was right. 
As a matter of fact, there were too many stars arriving. Helped by the first glass of champagne (at empty stomach), I started walking around: Jean Dujardin was the first in my line of vision. He was by himself, and I knew he doesn’t speak English super well, so I thought I could talk to him in French. Yes, good idea! but when I started walking towards him, Alexander Payne crossed my path. Oh, I love your cinema! I wanted to tell him. Yes, but just in front of him there was George Clooney with an absolutely irresistible beard, smiling.
What am I supposed to do now??! It was impossible to choose, believe me, so I just walked around enjoying the funny scenes I had the opportunity to look at, like Adele, Barbra Streisand and Shirley Bassey drinking and laughing all together, or Jason Gordon Levitt posing for pictures with Amy Adams and the-most-gorgeous-woman-in-the-universe, Ms. Charlize Theron (and her fabulous, new short haircut!).
 After a while, it was pretty clear that tables were naturally arranging around every Oscar movie: there was the Argo area, the Life of Pi area, and the Lincoln area, where I was. I was introduced to Steven Spielberg. My boss explained to him I was a cinema freak. Spielberg told me: "I love that you love cinema!" The second glass of champagne didn’t help: I felt like we were old friends and that it was actually normal talking to him.
Anyway, where is Daniel??! I wanted to scream. His family was there, all the actors from Lincoln were there, the director was there. And there he was, all of a sudden, the happiest man I have ever seen in all my life:
I looked at him, completely and utterly mesmerized by his smiling, his joyful expression, his way of walking and talking. Everybody wanted to say something, to shake hands, to compliment him. He was looking around, clearly enjoying every minute of it, distributing with equal magnanimity smiles and thank you. I could have stayed there forever. When I was about to approach him, Daniel Day Lewis looked around and said: "Could somebody bring me to my wife? I didn’t see Rebecca since I had the Oscar!" What a lovely and romantic thing to say… but the problem was that somebody actually brought him to Rebecca and soon afterwards they seated down at a table and started to eat. I was panicking. I missed my chance to talk to him. Definitely. So stupid of me! I was there with a desperate expression on my face when Heather, from the Academy, saw me and asked me what was going on. I explained. She said: "Let’s go, there is just one life, and we have to take advantage of it." And off she went towards Daniel. We arrived from behind him. She put a hand on his shoulder, and Daniel looked up at her: "I’m sorry to bother you Daniel, but there is an Italian woman who would like to tell you something." Day Lewis looked at me, smiling, and making a gesture with his hand, meaning: come, no worries. When I arrived, he gave me his right hand, I took it and I didn’t let it go until the end of my love declaration. Daniel listened carefully to my speech, having - I guess - a lot of fun. When I told him I have been following his career since I was 15 years old, he raised his eyebrow, and he commented: wow! He kept telling me thank you, smiling, and squeezing my hand every time I said something nice (basically every two seconds).
I don’t remember anything about the end of that scene. I was completely blown away by the events, and so I started walking around the place without a destination. 
And it was then that I saw Mads Mikkelsen walking in my direction. Alone.
Before I could even think what I was doing, I walked towards him.
He didn’t have a choice: he had to stop, because I went right in front of him saying: Hello!
Mikkelsen looked at me (down at me, because he is pretty tall): Hello!
- I’m a huge fan of yours!
- Oh, thank you!
- Actually, I have a cinema blog, and every year I give my personal Oscars, and this year you have won the award for Best Actor!
- Oh, really? For which movie?

(Is he really asking me this? I thought in a brief moment of lucidity)
- For Jagten! (are you impressed? – I wanted to add – that I quote the movie's original Danish title?)
- Oh, that’s a very good movie. Did you like it?
- Sure, a lot, this is also why I decided to give you this price.

Mikkelsend looked at me: And the price consists of...?
Dear readers, believe me or not, when he asked me that, I moved closer, I put my arms around him, and I kissed him on his right cheek.
Mikkelsen was puzzled: Oh, well… nice price! Thank you!
- You’re very welcomed!
- I have to go now, because I have friends waiting for me, but it was nice meeting you.
- The same for me! 
And while I was looking at him disappearing into the crowd, I thought: And you’re lucky I didn’t give you the Man of my Life Award…. Otherwise you wouldn’t make it out just with one kiss, darling!
To celebrate, I took a picture of myself as a real star:
The Governors Ball was over. On our way out we saw Christoph Waltz drinking coffee with the Oscar under his right arm and Tim Burton with a broken arm, and then we started waiting for our limousine to pick us up.
There was one more thing to do… the night was still young!

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