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giovedì 11 giugno 2015

Jean Gruault, L'ultimo dei Romantici

Truffaut e Gruault sul set di L'Enfant Sauvage (1970)
François Truffaut non amava scrivere i suoi film da solo. 
Di prassi, si è sempre circondato di uno o più sceneggiatori con i quali collaborava regolarmente: Marcel Moussy, Jean-Louis Richard, Claude de Givray, Suzanne Schiffman, Jean Aurel e... Jean Gruault. E’ proprio con quest’ultimo che ha avuto la collaborazione più lunga e “produttiva”. 
Cinque film scritti insieme: Jules et Jim (1962), L’Enfant Sauvage (1970), Les Deux Anglaises et le Continent (1971), L’Histoire d’Adèle H (1975) e La Chambre verte (1978). 
Praticamente cinque capolavori.
E’ di questi giorni la notizia della morte di Gruault, avvenuta all’età di 90 anni (era nato fuori Parigi nell’Agosto del 1924). 

Truffaut non era il solo regista della Nouvelle Vague con cui Gruault aveva lavorato, anzi... Da Rivette (Paris Nous Appartient e La Religieuse), passando per Godard (Les Carabiniers), sino ad arrivare ad Alain Resnais (con il quale scriverà tre film: Mon Oncle d’Amérique, La vie est un Roman e L’Amour à mort), Gruault sarà uno sceneggiatore di predilezione per tutti i registi del gruppo.
Gérard Depardieu in Mon Oncle d'Amérique (1980)
Gruault nel corso della sua lunga carriera ha collaborato anche con Roberto Rossellini (La prise de pouvoir par Louis XIV), con i Fratelli Dardenne (Je pense à vous) et con André Téchiné (Les Soeurs Brontë). 
Grualt aveva per altro scritto due sceneggiature per Truffaut che non sono mai state girate dal regista ma che sono state riprese da altri, in particolare, all’ultimo Festival di Cannes, Valérie Donzelli ha presentato Marguerite & Julien, una storia d’amore tra due fratelli.
Uomo di grande cultura e dal piglio molto ironico, lo sceneggiatore era un personaggio simpaticissimo. L'ho sentito parlare una volta alla Cinémathèque ad una tavola rotonda dedicata a Truffaut, e aveva subito rubato la scena agli altri partecipanti, con una sfilza di aneddoti e di battute, si era conquistato il pubblico in men che non si dica (date un'occhiata al filmato qui sotto per capire). 

Se uno scorre la filmografia di Gruault, appare chiaro che a lui piacesse scrivere soprattutto di una cosa: della passione.
Quella con la P maiuscola, quella amorosa, quella eccessiva, quella che sconfina nella follia, quella così totalizzante da superare anche la morte. 

Insomma mi viene da pensare che Jean Gruault fosse l’ultimo dei romantici.
Non a caso, c’è un film nella sua filmografia a cui io sono particolarmente affezionata, e che penso nessuno al mondo ricordi.
Si tratta di Australia, film del 1989 di un oscuro regista belga, Jean-Jacques Andrien, che Gruault ha scritto, niente poco di meno che, con (un allora sconosciuto) Jacques Audiard.
Il motivo per cui all’epoca mi ero precipitata a vedere il film, stava tutto nella scelta degli attori. 

I protagonisti di questa love story segnata dal contrasto tra la luce, il calore, lo spazio sconfinato del paesaggio Australiano e il buio, il freddo e lo spazio ristretto del paesaggio Fiammingo, erano Fanny Ardant e Jeremy Irons
Ancora oggi bellissimi, all’epoca facevano quasi male agli occhi talmente risplendevano di luce propria:
Stranamente, nel sentire la notizia, più che ad un capolavoro assoluto come Jules & Jim, è a questo strano film che ho pensato, perché in qualche modo di opere così, pur con i loro difetti, non se ne scrivono più. 
Il romanticismo non è più quello di un tempo.
E senza Jean Gruault, lo sarà ancora meno.

sabato 30 novembre 2013

Il sesto senso (cinematografico)

Ho visto, nella mia vita, tantissimi film. Davvero, davvero tanti. 
E tuttavia non ho mai smesso, neanche per un micro-secondo, di aver voglia di andare al cinema. 
L'idea di uscire di casa per andare a vedere un film, di vederne anche due o tre alla settimana, non mi annoia mai. Ma proprio mai.
Detto questo, ho sviluppato negli anni una specie di sesto senso cinematografico, grazie al quale intuisco piuttosto rapidamente cosa mi piacerà e cosa no. E ci azzecco quasi sempre.
Negli ultimi tempi, ad esempio, il mio sesto senso nutre una certa allergia nei confronti di film profondamente inutili. Ce ne sono alcuni che già in partenza sembrano tali, è vero, e qualche volta li si va comunque a vedere: per curiosità, per poterne discutere con gli altri, per desiderio di svuotare la testa. Ma questa è un'altra cosa.
Qui sto parlando di film fatti da registi che reputo bravi e importanti, gente che stimo, che amo, che seguo, e che sulla carta dovrebbero essere tutt'altro che irrilevanti. Eppure, purtroppo capita che mentre si è seduti al cinema si pensi: ma perché mai questo regista ha fatto questo film? ma perché mai ha speso tanti soldi e tanta energia per produrre una cosa così?
Il problema è che più vado avanti e più rapida sono a capire che un film non mi piacerà per niente. A volte lo capisco senza neanche andarlo a vedere, che lo so che non si dovrebbe fare, però vi giuro che ci azzecco la maggior parte delle volte.
Ad esempio: non mi è venuta nessuna voglia, all'epoca della sua uscita, di andare a vedere The Great Gatsby di Baz Luhrmann. Non c'era un singolo aspetto dell'opera che mi ispirasse. Tutti ne parlavano, tutti si precipitavano a vederlo, ma io niente, non ce la facevo. Era più forte di me.
La settimana scorsa ero in aereo, per un viaggio piuttosto lungo, e ho visto che nella scelta di film disponibili c'era anche questo. Ho pensato: vabbé, me lo guardo. Ecco, credo di aver resistito 20 minuti al massimo. E no, vi prego, non mi venite a dire che è perché l'ho visto su uno schermo piccolino e che non rendeva l'idea. Qui non c'era nessuna idea, da rendere. Non ho resistito perché questo film è ridicolo, stupido e superficiale. Immerso in una ricerca vuota e costante di uno sfarzo grottesco e uno sforzo di dettagli che rende stanchi e storditi ma non coinvolge e non ammalia PER NIENTE. Neanche se fosse stato in 5D sarebbe riuscito ad azzeccare un passaggio, un tono giusto. Un sopra le righe e un'infilata di déjà-vu che nemmeno in una soap-opera di quarta categoria. La voce off del narratore, abbiate pietà! Gli attori, poi, al di là del bene e del male. Carey Mulligan nella sua parte peggiore, già non la sopporto, ma qui avrei voluto che ci fosse Dexter nei dintorni per mettere fine alle nostre sofferenze, Tobey Maguire nell'eterna parte del ragazzino innocente (ormai c'ha cent'anni pure lui) con quell'espressione un po' ebete che no, caro, non significa che la vita ti sta sorprendendo, ma solo che ancora una volta non hai capito niente di quello che ti sta succedendo e se tanto mi dà tanto non lo capirai mai. E infine lui, quell'ingenuo di Leonardio Di Caprio, un attore bravissimo che però ha il grande difetto di essere alla ricerca spasmodica del "ruolo della vita", quello che gli farà vincere l'Oscar, quello che farà da spartiacque nella sua carriera, quello che farà dimenticare al mondo che lui è quello di Titanic. E ovviamente non ce la fa. E di certo non ce la farà con questo film idiota. Quanto al regista, che ai tempi di Strictly Ballroom, Romeo+Juliet e Moulin Rouge sembrava un tipo interessante, direi che dopo questo e quel mattone invedibile di Australia, ci ha fatto capire che forse non era mai stato così bravo e noi ci siamo illusi...
E a proposito di polpettoni, questa settimana ho avuto una delle delusioni cinematografiche più cocenti degli ultimi anni. Vi dirò, sempre in base a quel famoso sesto senso, io l'avevo già un po' capito, e il fatto che all'ultimo Festival di Cannes lo avessero ignorato non mi faceva certo ben sperare (ma non del tutto, che certe volte le giurie prendono degli svarioni che levatevi!), però il nuovo film di James Gray, The Immigrant, mi ispirava davvero poco. E infatti... 
Un film di tutto rispetto, per carità, ben fatto, ben recitato, ma di una inutilità sconvolgente. La trama è così banale e prevedibile, così fintamente drammatica, che davvero non lascia scampo. E' un film che non ti fa sentire niente, che ti lascia ai limiti dell'indifferenza, dell'apatia. Non so come Gray abbia potuto fare un simile, clamoroso errore. Se penso a quel piccolo capolavoro di Two Lovers, ho un momento di grande sconforto. E il peggio è che si capisce che lui "ci credeva davvero", che pensava sul serio di stare facendo un filmone bellissimo. E invece stava solo facendo un film per la TV, ma uno di quelli scarsi, mica una serie TV di quelle di oggi fantastiche e meravigliose, no, no, proprio quei filmetti banali con la musica che sottolinea ad ogni pié sospinto la drammaticità della scena (troppe! e quante ce ne sono di scene drammatiche? 50?)... Niente, un disastro completo. Anche se in questo caso sono convinta che sia uno svarione momentaneo, un errore di percorso, e che al prossimo si rifà e ci regala un'altra bella cosa. Vero, James?
James Gray sul set del film
A controbilanciare queste delusioni, però, ecco che arriva lui. Un film di cui sentivo parlare da mesi. Al punto che negli ultimi tempi la cosa aveva iniziato a darmi fastidio, soprattutto pensando alle polemiche che hanno accompagnato la sua uscita qui in Francia, con le attrici ed il regista che si davano addosso, e con le interviste al regista che proprio non mi piacevano, che anzi me lo facevano considerare antipatico e saccente, con arie da Jean-Luc Godard de noantri poveri. Insomma tutto questo per dire che quasi sono entrata al cinema pensando, vabbé, ma che sarà mai, mica sarà tutta 'sta cosa, questo film, magari è solo tanto rumore per nulla. E invece eccomi lì, seduta da sola al Ciné Studio 28, il fim è iniziato da 10 minuti ma io già comincio a rilassarmi e a godermi tutto perché il mio sesto senso cinematografico è come impazzito, è come se avessi nella testa una bacchetta da rabdomante che segnala che siamo vicinissimi a trovare l'oro. E infatti l'abbiamo trovato, l'oro (pure la Palma D'Oro!), si chiama La Vie d'Adèle - Chapitres 1 & 2, di Abdellatif Kechiche
Tre ore di film per raccontare la vita di una ragazza di 17 anni (meravigliosa attrice, Adèle Exarchopoulos!). Per entrare nella sua testa, nel suo corpo, nei suoi pensieri, nella sua felicità, nei suoi dolori. E persino nella banalità di tutti i giorni. Niente 3D, qui, e nemmeno inquadrature mirabolanti da mal di testa istantaneo. No, qui c'è una camera che sta attaccata al volto di Adèle, al suo corpo, come se le stesse facendo un elettrocardiogramma e non si potesse perdere nemmeno un battito, nemmeno un soffio. 
Adèle (Adèle Exarchopoulos) e Emma (Léa Seydoux)
Qui c'è carne e sangue, ci sono parole, situazioni, giorni, amore, desiderio, sofferenza, spensieratezza, feste, porte che sbattono, sesso che va avanti quanto deve andare. C'è una vita più vera del vero. C'è il racconto di una giovinezza che parla a chi quell'età ce l'ha adesso e a chi quell'età non se la ricorda più, ma se la ricorderà vedendo questo film dal messaggio assolutamente universale, perché "... così continuiamo a remare, barche contro corrente, risospinti senza posa nel passato". 
The Great Gatsby (quello vero, però...)



giovedì 5 novembre 2009

The Australian 400 Blows

Last week, I went to see the avant-première of an Aussie movie at the Cinéma du Pantheon: Samson & Delilah by Warwick Thornton (the movie won the Caméra D'Or, the award assigned to the best first feature at the last Cannes Film Festival).
I have to confess it: I’m in love with Australian cinema.
I think it’s a real pity that not many movies from Down Under are distributed in Europe and I think it’s a pity that the few Australian movies arriving in Europe are not exactly the best representation of their cinema industry. I mean, Australia by Baz Luhrmann is one of the worst movies I’ve seen in my entire life and the country he’s showing there is a mere cliché. The real Australia is somewhere else, for sure.
In the four years I’ve been living in Paris, though, I was lucky enough to see some very good Australian movies: the noir The Square by Nash Edgerton, the incredibly funny Razzle Dazzle by Darren Ashton, the fascinating 10 Canoes by Rolf De Heer, the interesting Jewboy by Tony Krawitz, the tender fairy tale Opal Dream by Peter Cattaneo and the splendid animation movie Mary and Max by Adam Elliot.
My favourite Australian movie of these recent years, by the way, is Lantana by Ray Lawrence. If you’ve never seen it, please rent/buy the DVD. It is a beautiful, touching, outstandingly played story (if you can, please also see the other two movies by Lawrence: Bliss and Jindabyne).
Another film maker I really love is Peter Weir and I don’t think my life would have been the same without the vision of Walkabout, a masterpiece by Nicolas Roeg (1971).
And last, but not least, I owe to two Australian movies my funniest moments seated in a cinema: The adventures of Priscilla, Queen of Desert by Stephan Elliott and the (unfortunately) completely unknown in Europe The Castle by Rob Sitch.
When I feel depressed, I think about Hugo Weaving, Guy Pearce and Terence Stamp dancing on I will survive in the middle of the Australian bush and, well, I can’t help myself: I’m happy again!
Besides my good foundation of Australian cinema, I wasn’t prepared for the experience of Samson and Delilah. When it comes to Aborigines, I always feel uncomfortable.
I mean, it is a very delicate subject in Australia, for evident reasons, and I’ve always found a false note in the representation of Aborigines in movies. The only exception is the character of the police woman in Lantana: she is Aborigine (or half-Aborigine) and this is a simple detail. Watching the movie by Thornton, the other night, I suddenly understood why I always felt that way: I’ve never watched a movie before on Aborigines made by an Aborigine. No false note whatsoever in his representation of the group. He was allowed to do something that other film-makers couldn’t do: to be tough with his own people.
The plot of the movie is very simple: Samson and Delilah are two young Aborigines living in a small community in Central Australia. When Delilah’s grandmother died (the only family she had), the two, who are secretly in love, leave the place trying to reach Alice Springs. The impact with the city is simply awful. All sorts of tragedies happen, but in the end they manage to go back to the community and to settle in an isolated but quite place in the Northern Territory.
I’ve rarely seen on screen such a powerful story.
Thornton, who’s been a cinematographer up until now, not only wrote, directed and edited the movie, but also partially composed the original soundtrack. He perfectly knows what he wants to say and how he wants to say it.
The images are so talkative, that there’s no need for words.
Thornton takes his time to tell us the story, and we savour every single moment of it. We enter into the bleak day by day life of these two young people very slowly, till the point it feels like it is our own life. We know that they are falling in love simply because they look to each other in a certain way (there’s a magnificent scene: Delilah seated in a car listening to some quite music looks at Samson dancing on some loud music from a ghetto blaster and the two tunes melt into each other, while Samson’s dancing is filmed in a sensual slow motion).
The violence too is filmed in a very strong way. Nobody is immune: the Australians towards the Aborigines and the Aborigines towards the Aborigines. Thornton wants to tell us that the good and bad could come from both sides (the white homeless that help the guys in town, the Aborigine woman that beat them up when they’re back to the community instead of welcoming them).
After the movie, we were lucky enough to have the film-maker present at the cinema. I really loved his witty and clever answers to the audience’s questions.
He said that this story is his story. He said that he’s been saved by cinema, otherwise he would have been one of the many Aborigines sniffing glue and getting drunk near some Australian highways. He said that this movie is his “400 Blows” (no surprise about the fact that I almost cried listening to this sentence: 25 years after Truffaut’s death, here it is an Aborigine film-maker talking about his cinema!!!).
Thornton, above everything else, was hoping that, leaving the theatre, every one of us meeting a homeless in the street would think about Samson and Delilah, and this will give us the will to help him/her.
I don’t know if this is going to happen but, for a moment, every one of us dreamt of being a better person, stepping out of that cinema.
So thanks, Mr. Thornton.
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