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martedì 6 dicembre 2016

Le Demy Monde

Quello che mi piace di Parigi, è che certe volte vai semplicemente a pranzo e ti capita di incontrare qualcuno del mondo del cinema che mangia a qualche tavolo di distanza dal tuo. 
Oggi, ad esempio, si festeggiava il compleanno di una collega al Café Beaubourg, luogo abbastanza frequentato da quelli che in Francia chiamano “people”, una parola che mi ha sempre fatto tantissimo ridere.
E infatti, quando mi sono seduta, ho detto ai miei amici: Allora, a parte noi, c’è qualche people in sala?
Ma, ad un rapido sguardo, non c’era proprio nessun famoso.
Invece, alla fine del pranzo, sbirciando distrattamente alla mia sinistra, ho riconosciuto un
 volto a me super caro, quello di Mathieu Demy, l’unico figlio della mitica coppia formata da Jacques Demy e Agnès Varda

Ora, se leggete questo blog, non c’è bisogno che vi dica chi sono questi due.
Di Mathieu, è vero, ho scritto un po’ meno, ma è sempre stato presente.
Alla sua carriera di attore (ha iniziato giovanissimo a recitare nei film dei suoi genitori), oggi ormai più che consolidata, affianca anche una mini carriera da regista. A parte due corti, ha diretto pochi anni fa (nel 2011) un film piuttosto bizzarro (e stracolmo di riferimenti al mondo Varda-Demy) dal titolo Americano, di cui ha firmato anche la sceneggiatura, e ultimamente ha diretto due episodi di una serie tv davvero bellissima nella quale ha anche un piccolo ruolo: Le Bureau des Légendes. Appassionati di serie TV che siete là fuori, sappiate che i francesi non sono niente male in questo campo. Guardare per credere. Tra l'altro la seconda stagione (quella in cui appare Demy) è pure meglio della prima, caso abbastanza raro:

Clement Migaud (Mathieu Demy) e Marie-Jeanne Duthilleul (Florence Loiret Caille) 
Dei suoi ruoli di attore, invece, i miei preferiti sono senza dubbio un vecchio film del 1998, Jeanne et le Garçon Formidable, un film chiaramente ispirato all'universo di Jacques Demy, di Olivier Ducastel e Jacques Martineau:
E il più recente Tomboy (2011) di Céline Sciamma, in cui era il padre super tenero e comprensivo della ragazzina che vorrebbe tanto essere un ragazzino:

Comunque, non che fosse la prima volta che incontravo Demy (ça va sans dire!). 
In effetti, speravo che lui non si ricordasse troppo della mitica serata delle Demoiselles, ovvero l’inaugurazione della mostra su Demy della Cinémathèque Française di qualche anno fa, nella quale, complice l’euforia dello champagne, con la mia "gemella" lo avevo insistentemente salutato da un balcone, iniziando una conversazione totalmente delirante della quale per fortuna ho perso ogni traccia nella mia memoria.
E speravo si ricordasse ancora meno del mitico flash mob delle Demoiselles organizzato un sabato pomeriggio sul parvis dell’Hôtel de Ville dove, sempre con la mia jumelle (e questa volta non c’era neppure la scusa dello champagne), lo avevamo di nuovo entusiasticamente salutato come se lo conoscessimo da tutta la vita... e lui ci aveva guardate prima un po’ stranito e poi proprio visibilmente preoccupato.
Insomma ero un po’ indecisa se andargli a parlare o no, quando il destino ha voluto che ci alzassimo dal tavolo allo stesso momento e arrivassimo davanti alla porta quasi contemporaneamente.
Bonjour, vous êtes Mathieu Demy?” – ho esordito io con un gran sorriso.
E lui, di rimando, sorridendomi: “Oui, des fois... ça m’arrive!” (Si, qualche volta mi capita).
Risposta geniale, non vi pare? 

Insomma ho capito che Mathieu era uno di noi, e quindi l’ho invaso di complimenti, e temo di avergli detto una cosa tipo: “Io penso che grazie ai film fatti dalla vostra famiglia, questo mondo sia un posto migliore!”, ma anche un più sobrio: "Ho un blog di cinema e non faccio altro che scrivere di vostro padre!" 
Lui comunque nonostante le mie enormità mi sembrava contento. 

Sorrideva e diceva spesso Merci!
Allora a quel punto l’ho lasciato andare: "Bonne Journée, Monsieur!" 
"Bonne journée à vous, Madame!"
Madame??? E’ stato il suo unico errore. 

Quello di non aver riconosciuto la Demoiselle (de Rochefort) che è in me. 
Ma vabbè, a uno del Demy Monde, si sa, io perdonerei qualsiasi cosa.



martedì 27 ottobre 2015

25 ans déjà!

Jacques Demy davanti al Passage Pommeraye, Nantes
Stamattina alla radio passava La Chanson de Maxence in un nuova versione. 
Che bello! - ho pensato: fuori c'è il sole e ascolto una canzone delle Demoiselles de Rochefort.
E’ stato solo qualche minuto più tardi che ho capito perché: oggi, 27 Ottobre, è l’anniversario della morte di Jacques Demy, che ci ha lasciato 25 anni fa, nel 1990.
Conosco pochi registi amati quanto Demy, qui in Francia.
E’ come se avesse operato nella mente di tutti, bambini e adulti, una specie di magia, in base alla quale è assolutamente impossibile dimenticarlo.
La magia è dovuta ad una manciata di film che hanno rivoluzionato la storia del cinema, con il loro carico di canzoni, colori, e un’allegria mista a malinconia alla quale è impossibile resistere:

Forse la particolarità di Demy è che le immagini dei suoi film ti si imprimono dentro, e poi non escono più, talmente forte è il loro impatto.
Impossibile per me vedere un garage senza che nella mia testa non scatti in automatico la musica dei Parapluies de Cherbourg

E’ l’effetto Demy. Non ci si può fare niente. Tanto vale smettere di lottare.
La settimana scorsa, mentre visitavo la mostra su Martin Scorsese alla Cinémathèque (a proposito, è bellissima, andateci appena potete), non potevo fare a meno di pensare che la più bella di tutte quelle che ho visto sino ad ora è stata proprio quella su Demy.
La serata inaugurale aveva dell'incredibile: con le ragazze all’ingresso che portavano i cappelli delle Demoiselles, lo champagne, Agnes Varda e tutta la sua famiglia, gli attori dei suoi film, la ricostruzione dei set cinematografici. 

Ne ho un ricordo indelebile, magico, appunto.  
Qualche giorno dopo, avevo partecipato ad un flash mob "Demoiselles de Rochefort" sul parvi dell’Hotel de Ville: centinaia di persone (di tutte le età) avevano imparato a memoria una coreografia da ballare tutti insieme sulla Chanson des Jumelles.
Una cosa tanto assurda quanto divertente e gioiosissima.
Uno di quei giorni in cui mi è sembrato evidente perché ho deciso di vivere qui, nonostante il brutto tempo, la vita che costa troppo cara e i musi lunghi dei parigini.
Finché c’è amore per Demy, c’è speranza.
Finché esiste il Demy-Monde, continuerò a viverci dentro. 
Evviva!

martedì 8 aprile 2014

Cléo de 5 à 7


L’ho scritto spesso, in questo blog: di donne che fanno cinema ce ne dovrebbero essere molte di più, e spero che questo desiderio un giorno si trasformi in una realtà acquisita. 
Nel frattempo, posso dire che la qualità compensa parecchio la quantità. 
Sono rare le registe donne scarse. Quasi non me ne viene in mente neanche una. E quando penso a quella che potrebbe essere un modello per tutte, la vera “precorritrice”, penso subito a lei: Agnès Varda, classe 1928.
Una donna di questa età, direte voi, a 86 anni starà a casa a godersi la pensione.
E invece no, a parte il fatto che continua a fare film, trova anche il tempo di andare nei cinema di Parigi a presentarli. Da pochi giorni infatti è possibile rivedere, in alcune sale della capitale, il capolavoro assoluto della Varda, un film del 1962 recentemente restaurato: Cléo de 5 à 7.
Sono andata a vederlo la settimana scorsa allo Champo, e prima del film Agnès Varda è venuta a fare una piccola, deliziosa spiega. Mi sono amaramente pentita di non averla filmata, perché quello che è riuscita a dire in 4 minuti di presentazione, era di una intelligenza e di una delizia rare. I capelli metà bianchi metà di un violetto aubergine, la Varda parlava come un piccolo elfo: divertente, coinvolgente, buffa, ha detto cose profonde con una leggerezza disarmante.

"Questo film parla di bellezza e di morte", ha esclamato concludendo con un gran sorriso e con l’aria sbarazzina. Come si fa, dico io, a non trovarla irresistibile?
Agnès Varda allo Champo, 1° Aprile 2014

Florence ‘Cléo’ è una giovane cantante di successo di 25 anni. Corteggiata, di successo, giovane e bella, non le manca niente per essere felice, ma in questo primo giorno di primavera del 1961, Cléo è angosciata e impaurita. Sta infatti aspettando i risultati di un’analisi medica fatta qualche giorno prima e che le saranno comunicati proprio quella sera: potrebbe esserle diagnosticato un cancro. Il film segue, quasi minuto per minuto, le due ore che la separano da quel momento. Cléo non riesce ad aspettare tranquilla a casa e quindi, dopo aver provato qualche pezzo con i suoi musicisti, se ne va e cerca di distrarsi come può: fa acquisti, beve qualcosa in un caffé, va a trovare un’amica, esce con lei, va a camminare in un parco. E’ qui che incontra un perfetto sconosciuto, un giovane soldato in licenza che sta per tornare in Algeria (quindi ancora più spaventato di lei), che la convincerà ad andare insieme a lui all’Ospedale per conoscere i risultati delle analisi.
Rohmer ha scritto: Si è moderni solo se lo si merita.
Credo che questo a Cléo spetti di diritto: raramente un film è stato così moderno nella sua forma come nel contenuto. Mi sono spesso chiesta perché La Nouvelle Vague abbia avuto tanta influenza sui film di oggi (più di qualsiasi altro movimento cinematografico), e forse la risposta sta nella particolare capacità dei suoi registi a trasformare la materia più pesante in immagini super leggere. Questo loro uscire per le strade, una camera a spalla, due luci, pochi attori, mettersi al tavolino di un caffé e parlare di vita, amore, morte, filosofia, amicizia, felicità, dolore, e poi magari alzarsi, cantare una canzone e ballare. 

Prima di loro nessuno faceva cinema così, e mi verrebbe da dire che pure dopo sono stati pochi quelli che l’hanno fatto con tanta grazia e stile.
In Cléo c’è un breve, divertentissimo film in bianco & nero tipo ridolini che, per stessa ammissione della Varda, è stato inserito per stemperare un po’ la grande tristezza che pervade il film. La cosa carina, è che i protagonisti sono gli amici della Varda, che di nome fanno Jean-Luc Godard, Anna Karina, Sami Frey, Jean-Claude Brialy. E ad altri amici sono affidati delle piccole ma gustose parti: Michel Legrand (il leggendario compositore di tutte le musiche dei film di Jacques Demy, il marito di Agnès Varda) è il musicista di Cléo, mentre Raymond Cauchetier (IL fotografo della Novuelle Vague, è a lui che si deve l’epocale scatto di Jean Seberg e Jean-Paul Belmondo sugli Champs-Elysées ai tempi di À bout de Souffle) è il proiezionista fidanzato dell’amica di Cléo che fa vedere alle ragazze il film ridolini:



Cléo è un film capace di farti assistere al miracolo di un cambiamento profondo nel giro di un paio d’ore. La giovane cantante delle prime scene del film, non è certamente la stessa che sta seduta su una panchina nel giardino di un ospedale alla fine. Cléo è passata attraverso tutte le fasi: dalla negazione alla disperazione, dal cercare gli sguardi ammirati degli altri al nascondersi al riparo da tutti, dalla spensieratezza alla rassegnazione. Ha soprattutto capito l'importanza di vedere, ascoltare, parlare con gli altri. Perchè è la presenza degli altri a fare la differenza nelle nostre vite. E questo valeva negli anni ’60 ma anche, e forse soprattutto, nel 2014.
Cléo (Corinne Marchand)


Non lo faccio spesso, ma vorrei dedicare questo post a qualcuno.
Vorrei dedicarlo a Sugako, che ci ha lasciato in questi giorni.
Una donnina speciale, dolcissima e super gentile, che non avrebbe certo avuto bisogno della diagnosi di una malattia grave per capire la bellezza del mondo e l’importanza degli altri. Perché questi valori ce li ha sempre avuti. E li ha regalati in abbondanza a tutti quelli che hanno avuto la fortuna di incontrarla. Io l’ho avuta, questa fortuna, e so che adesso mi mancherà per sempre. Ma so anche che siamo in tanti a portarla nel cuore. Come un piccolo film a colori che possiamo andare a riguardare ogni qual volta la vita ci sembrerà un luogo troppo buio e troppo triste.
ありがとうございます, Sugako-san! (Grazie, Sugako!)
 

martedì 10 dicembre 2013

The Readers

The Reader di Stephen Daldry
Ci penso spesso, io, a voi lettori.
E quando ci penso mi viene una grande commozione. L’idea che, famiglia e amici a parte, dei perfetti sconosciuti si mettano lì e trovino il tempo, nel mezzo di giornate che immagino piene di impegni e preoccupazioni di ogni tipo, per leggere un post di Zazie, mi riempie di una gioia insensata. 
Eppure ci siete, siete tanti, e venite da ogni parte del mondo. Certo, lo zoccolo duro è composto da lettori italiani e francesi, ma ci sono settimane in cui quelli americani superano tutti gli altri, per dire, dandomi la sensazione che la fatica di scrivere spesso in inglese sia ampliamene ripagata.
Poi ci sono i lettori ancora più speciali, quelli che mi scrivono dei commenti.
Ah, quelli io proprio li adoro! (anche perché di solito mi fanno un sacco di complimenti).
Loro stanno in una categoria a parte, perché se già mi sembra straordinario che la gente mi legga, che mi scriva mi fa letteralmente impazzire.
Dai commenti dei lettori si ricavano un sacco di spunti, si capiscono molte cose, e si riceve una fortissima spinta a continuare e a fare meglio (e ce n’è sempre bisogno). Esiste poi un passo successivo, che ha ancora più dell’incredibile, a pensarci, ed è quando da questi commenti poi nasce un’amicizia. Mi è successo tante volte e che posso dirvi? E’ al di là di ogni più rosea aspettativa sull’essere umano. 
The Shop around the Corner di Ernst Lubitsch

L’altro giorno, ho ricevuto la mail di un lettore che diceva di aver cercato di lasciarmi un commento ma che non ce l’aveva fatta... e quindi si era deciso a scrivermi un messaggio. Il motivo per cui il commento non era stato accettato, era la sua lunghezza... due pagine fitte fitte piene di considerazioni sul mio post intitolato Il Sesto Senso (Cinematografico).
La prima volta che l’ho letto ho pensato: Oddio, ma io non ho capito niente di quello che mi sta dicendo! Alla seconda mi è sembrato di intravedere una luce, e alla terza ho colto l'aspetto fondamentale della vicenda: ho dei lettori super colti ed interessanti, che mi citano come niente fosse Jacques Rivette, Jean Rouch,  Aki Kaurismaki e Agnès Varda e mi parlano dei film in maniera preziosa e piena di passione.
Mi sembrava davvero un peccato leggere in esclusiva quello che Francesco mi aveva scritto, così gli ho chiesto il permesso di pubblicare il suo lungo "commento", perché volevo  condividere le cose interessanti che lui mi aveva scritto con altri miei lettori, che magari chissà, avranno voglia di rispondergli, di dirgli che magari non sono d'accordo, insomma d'iniziare un bel dibattito.
Ho deciso che questo delizioso ipertrofico messaggio poteva essere un po’ la summa di tutti gli altri commenti ricevuti, e per i quali sono a tutti davvero grata. La mia passione per il cinema mi ispira, ma è quella dei miei lettori che mi fa venire voglia di andare avanti. Sapevatelo!
Quindi, come si diceva nel film di Cioni Mario: "Sospensione di ricreativo, principia avviare il culturale... " E grazie, lettori miei!

Cléo de 5 à 7 di Agnès Varda
Leggo spesso quel che scrivi e di solito sono molto d’accordo.
Questa volta, poi, mi sembrava un testo che avrei potuto addirittura scrivere io. E allora perché lasciarti un commento e non fare come sempre? Ovvero ritenermi soddisfatto della lettura, felice di non essere il solo a provare quelle sensazioni a proposito della voglia di andare al cinema nonostante la consuetudine, a proposito del sesto senso, e a proposito dell’adattamento del romanzo fitzgeraldiano (su cui il trailer ha avuto la meglio e che dunque, ma lo attribuisco a una forma di fortuna, non ho visto).
Perché allora? Forse perché ho sì sentito anch’io puzza di molto rumore per nulla intorno al film di Kechiche, nonché di strumentalizzazioni (benemerite quelle a sfondo sociale, intollerabili quelle di un vagheggiato ultimotanghismoaparigi con la Seydoux nei panni di Marlon Brando), solo che poi, io – e mi è dispiaciuto – non ho avuto la catarsi.
Sono in minoranza, è evidente, ed è perfino giusto che lo sia, perché il film è molto bello, ed è oltretutto una prova di sicura sensibilità, maestria e senso del cinema.
E allora di che cosa mi lamento? Fatta salva la questione che cogliere il respiro del tempo, da parte di un bravo autore, di un artista, comprenda ormai anche il saper cogliere il respiro dei festival e della critica che vi si aggira, nel senso che, non solo non c’è niente di male ad essere attuali perfino mostrando di capire le esigenze estetiche e le urgenze tematiche di un pubblico colto, ma che, anzi, è necessario affinché anche la cultura faccia parte della realtà - questione non irrilevante almeno in Italia - ho l’impressione che Kechiche abbia compreso talmente bene il dispositivo di quel consenso da tentare un salto di qualità intorno alla questione del realismo.
Nel cinema di ieri maggiore realismo significava, detta brutalmente, maggiori tempi morti. Lo sguardo dava conto di una vita che resisteva anche fra le pieghe di una vicenda e di una sceneggiatura. Accadeva nel cinema di Bresson o di Jean Rouch come continua a succedere in Garrel, Kaurismaki, Dardenne o Frammartino. L’attenzione “analogica” ai particolari insignificanti o ai vuoti della quotidianità ha, e ha avuto, un rilievo ideologico e ha distinto il cinema, da una parte, in un cinema di regia consapevole appunto del proprio ruolo politico, e dall’altra, in un cinema degli eventi, degli snodi, discreto, nel senso di “digitale” ancor prima della tecnologia, e dunque più compiacente.
Kechiche fa un’operazione nuovissima e ibrida, che forse è l’unica vera risposta possibile alla modernità, sicuramente vincente con il suo progressismo dei contenuti e con la sua “furbizia” formale (non sto parlando di Matteo Renzi, sto ancora parlando di cinema); tuttavia prima di accettarla senza riserve, e di sbarazzarmi dal sospetto di un certo qual personalismo, ho bisogno di comprendere l’inevitabilità storica di un simile assetto strutturale, altrimenti mi viene da derubricarla ad un modo per vincere Cannes nel 2013.
Il premio - argomento non marginale - glielo dà Steven Spielberg, il quale, per questioni funzionali al mio ragionamento, prima di essere l’autore de Lo squalo, di Incontri ravvicinati e di Indiana Jones, è l’autore di quei primi 24 minuti di Salvate il soldato Ryan, e dunque forse il primo, poco prima del 2000, ad interrogarci sulle sorti del realismo e sulle sue potenzialità spettacolari.

Save Private Ryan di Steven Spielberg

La versione americana del realismo non poteva che tradursi in un iperrealismo, ma di certo qualcuno può affermare che non sia realistica la ricostruzione filologica dello sbarco in Normandia a partire dalle inquadrature sovrapposte allo sguardo fotografico di Robert Capa? E d’altra parte, qualcuno può negare che con il realismo della storia non événementielle, dei piccoli gesti quotidiani o dei passaggi a vuoto della camera fino al décadrage come rivelazione del reale, non c’entri niente? Spielberg coniuga il massimo della ricostruzione realistica con il massimo della tensione e dello spettacolo, ha un’idea concertistica della guerra che però, forse, non so, si affrancherebbe dall’abjection rivettiana in nome della filologia bellica del photo-reportage. Insomma Spielberg dimostra, ma all’interno di una concezione hollywoodiana del cinema non poteva essere altrimenti, che anche il realismo può essere muscolare e che, nel suo caso attraverso gli effetti speciali, può diventare esso stesso un effetto speciale.
Ecco, io ho avuto la sensazione, guardando la La vie d’Adèle, di essere di fronte a una versione, sia pure europea e autoriale, di questo tipo di realismo, ben diverso da quello, “pieno di tempo” e creatore di un tempo interiore allo spettatore, cui ero abituato. Ho percepito un realismo ricco, ipertrofico. Quasi un virtuosismo alla continua ricerca della smorfia ideale di un’adolescente, degli ineffabili momenti di un’attrice, un montaggio di occhi, di capelli, di sguardi, di labbra (sempre troppo banalmente dischiuse), di nasi, di corse, di sudori, di bave, di morsi e di masticazioni sempre migliori, sempre più naturali, sempre più frequenti, il film sembra una collezione di momenti realisticamente perfetti.
Paradossalmente si respira durante le scene di sesso. Avevo sentito parlare di una durata imbarazzante ma come giustamente tu rilevi è un “sesso che va avanti quanto deve andare”, e questo perché è il tempo e il tempo soltanto, in questo caso, a dare rilievo realistico alle sequenze. Non voglio dire che sia irrealistico quel che accade fra le due ragazze, ma è palpabile, nel modo di girare, la preoccupazione per un’inclinazione precisa della macchina da presa, non un millimetro più in là né uno più in qua, e tutto quanto al servizio di una bellezza formale, certamente non patinata, ma sicuramente simmetrica, armonica e che mai corre il rischio di risultare oscena. Si respira durante queste scene perché si intuisce che il regista qui non può fare lo stesso gioco con lo spettatore, tanto poi ci pensiamo al montaggio, qui deve tutelare le due attrici, e la macchina da presa, almeno in campo medio, sta ferma, responsabile.
Il realismo di cui parlo dunque sta altrove, sta dove è evidente che la naturalezza dell’attrice lavori in favore della macchina da presa molto più di quanto la macchina da presa non lo faccia per la sua naturalezza; e sta esattamente dove tu stessa l’hai individuato: “qui c'è una camera che sta attaccata al volto di Adèle, al suo corpo, come se le stesse facendo un elettrocardiogramma e non si potesse perdere nemmeno un battito, nemmeno un soffio”. Parole che io considero tanto precise quanto allarmanti però: in una concezione laica e materialistica della realtà credo si possa tentare di sfiorare un principio di verità, nel cinema, solo attraverso la contemplazione del reale, dunque operare con strumenti di precisione per dare attenzione al particolare, oltre a fornire indicazioni parziali, sospetto abbia una vocazione più che altro sensazionalistica. E qui l’amplificazione del reale è programmatica, l’enfasi del particolare ripetuta, come può giovarsene allora il carattere realistico dell’intera sintassi?

La Vie d'Adèle di Abdellatif Kechiche
Ora io non pretendo che si risolva sempre alla lettera il pedinamento cosiddetto zavattiniano, né che dai tempi di Cléo de 5 à 7 della Varda non si sia tentata una progressiva evoluzione di ripresa intorno alla flanerie o all’eterno femminino, ma che kechiche abbia voltato pagina e che abbia voluto rifare un volto nuovo al realismo è questione che non può essere trascurata. Perché se fino ad ora il realismo è stato sostanzialmente un cinema di regia, ora, non diversamente da molto cinema mainstream, sta tornando ad essere un cinema di direzione degli attori. Ecco dove sta l’ibridismo e l’ambiguità de La vie d’Adèle, un film che si presenta dall’interno di una tradizione autoriale realistica per conquistare pubblico e Spielberg con una regia attenta invece alla bravura attoriale. La professionalità, mirabilmente differenziata, delle due attrici è fondamentale per un film come questo, e tutte le derivazioni, dall’attore come modello bressoniano (pensa al recente cinema della Hansen-Love o di Assayas), o come presenza brechtiana (Kaurismaki), o come il non professionista preso dalla strada (di derivazione pasoliniana e dunque più frequente in Italia – Pietro Marcello per dirne uno), rischiano di diventare pallidi ricordi con questa palma d’oro.
Certo, non è il caso di drammatizzare, la storia del cinema non ne rimarrà inficiata, né poi sarebbe così grave; ripeto, si tratta talvolta anche di essere disposti a girare pagina e sapersi aspettare nuovi esiti. Tuttavia, se è vero che il realismo è anche una prassi cinematografica sottesa da un metodo filosofico di ricerca della verità, che Kechiche lo usi come volano per evidenziare la sua bravura o quella delle sue attrici invece di usare la medesima in nome di una verità indagabile attraverso la realtà, significa che ha confuso, più o meno deliberatamente, più o meno astutamente, il fine con il mezzo.
Ecco, io in attesa di nuovi film, sospenderei il giudizio.
Un caro saluto, a te e a Parigi,
 
Francesco

Visto che roba? S'apre il dibattito!
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