giovedì 28 maggio 2015

Italians (don't) do it better


In questi giorni, di ritorno dal Festival di Cannes, non ho potuto fare a meno di leggere e sentire tutte le polemiche nate in Italia dopo che dal palmarès sono stati esclusi i tre film nostrani in concorso.
A Cannes ci sono stata solo gli ultimi 3 giorni: questi film non ho potuto vederli e qui in Francia non sono ancora usciti, per cui non posso esprimere giudizi sul loro valore e la loro eventuale (grande) bellezza.
La competizione di quest’anno, che sulla carta sembrava davvero notevole, a quanto pare si è rivelata una totale delusione.
Dal film di Gus Van Sant a quelli di Maïwenn e della Donzelli, tutti gridavano alla scandalo per il livello di certe pellicole in competizione, mentre – a quanto sembra – le sezioni collaterali pullulavano di film interessanti e innovativi (uno su tutti, Le Mille e una notte, la pellicola-fiume di Miguel Gomes, il regista portoghese di Tabù). 

Ho visto però il film che ha vinto la Palma D’Oro, Dheepan di Jacques Audiard, e per quanto mi riguarda se la meritava tutta.
Per la verità, Audiard già se la sarebbe meritata nel 2009 per quel capolavoro assoluto che era Un Prophète, ma era l’anno del Nastro Bianco di Michael Haneke, e purtroppo non c’era stato verso.
Molti pensano che Dheepan sia un film minore rispetto ad Un Prophète, ed è vero, perché quello era un film grandioso, assoluto, ma questo è comunque un film bellissimo, potente e di altissimo livello.
Leggere peste e corna del film di Audiard e della giuria, come è successo in questi giorni sui giornali del nostro Bel Paese, o – ancora peggio – leggere che il cinema italiano è il migliore del mondo, che non esiste un altro paese che possa vantare dei talenti come la triade Garrone-Sorrentino-Moretti (ma che davero, davero? ma che comincio a farvi delle liste?), mi fa sinceramente venire un po’ da ridere. 

No, mi dispiace, il nostro non è il cinema migliore del mondo.
E non credo che all’Italia convenga mettersi a fare dei paragoni, soprattutto non con la Francia.
La Francia, che ci piaccia o no, è il paese che in Europa produce più film di tutti.
Qui il cinema è un’arte e un’industria, roba seria, sia dal punto di vista artistico/culturale che dal punto di vista economico. I francesi se lo possono permettere perché hanno un governo che aiuta il cinema e tutti gli operatori del settore. Ma il motivo che sta alla base di questa florida industria, mettetevelo bene nella testa, è uno solo: e cioé che i francesi VANNO al cinema. 

In massa. 
A Parigi, anche in una giornata di giugno con il sole, se si entra in un cinemino del Quartiere Latino di primo pomeriggio per vedere un film russo di 3 ore con i sotto-titoli in uzbeco, state sicuri che lo trovate pieno.
Qui il cinema lo amano. Davvero.
Se l’Italia amasse veramente il cinema, tanto per dirne una, la si farebbe finita con questa pratica barbara di doppiare i film.
Ma qualcuno si rende conto del provincialismo totale di questa cosa?
I film DOPPIATI IN ITALIANO nel 2015?
Pensate solo che il film di Paolo Sorrentino, un regista italiano che ha girato in inglese, voi ve lo state vedendo in Italiano. Ma perché?
Michael Caine, uno degli attori dalla voce più meravigliosa che ci sia al mondo, voi ve lo vedete doppiato da un qualsiasi attorucolo con l’accento romano. No, dico, contenti voi.

Quindi, per favore, non statemi a dire niente.
Soprattutto non che abbiamo il cinema più bello del mondo.
Abbiamo dei bravissimi registi, certo, ci mancherebbe, ma non è che siano tantissimi, eh.
E in più manco li stiamo aiutando, se tanto mi dà tanto...
Gli ultimi 4 film di Jacques Audiard (De battre mon coeur s’est arrêté, Un Prophète, De Rouille et d’Os e Dheepan), per fare un esempio a caso, valgono da soli stuoli di intere cinematografie di registi italiani mediocri e senza un bruciolo d’inventiva.
Italiani, sveglia!
Il Festival cinematografico più importante del mondo, con tutti i difetti che possa avere, pensate un po’, che caso, eh? che cosa buffa eh?, si fa a Cannes, nel Sud della Francia.
Fatevi una domanda, e datevi una risposta.
E finitela di lamentarvi.
La cultura cinematografica si insegna, si impara, e l’amore per il cinema è una malattia che si prende in un modo solo: stando seduti in una sala buia. 

Tutto il resto, per quanto mi riguarda, è fuffa.

mercoledì 20 maggio 2015

Zazie goes to Cannes!


Every year, when the Cannes Film Festival begins, I have at least five or six friends who ask me : are you in Cannes?  They think I am there because I am posting non-stop pictures, videos, links to whatever is going on at the Festival.
But the reality is that I have never been to the Cannes Film Festival in my whole life.
Strange but true.
I have always been a bit scared, by festivals, and especially this one.
I am afraid to get lost in that wide range of possibilities, film choices, events, actors and film-makers going around.
I am probably afraid to like it too much… 

But this year, well, this year is different.
This year somebody has actually invited me to go to the Festival.
And even if I couldn’t stay there from the beginning till the end, I am actually leaving tomorrow morning for Cannes to enjoy the last 3 days of the Festival, and to seat somewhere, on Sunday night, in the theatre where the prize ceremony is taking place.
And this, I can tell you, is really a dream that becomes true.
Because every single year, since I was maybe 15, I have watched that ceremony on a TV screen, thinking: wow, it has to be amazing to be actually there!
If somebody could have said to my young-self that one day a President of the Jury of the Cannes Film festival (and one of her favourite film-makers) would have invited her to the ceremony, I think that my reaction would have been a big laugh and a statement like: You gotta be kidding me, right??!
Well, apparently not.
And if the invasion of the locusts doesn’t stop her, Zazie goes to Cannes.
So stay tune, dear readers. 

The best is yet to come...

Piccoli Dardenne Crescono

Ho la vaga impressione che, al di fuori di questo paese, si creda che il cinema francese sia quello dove un gruppo di parigini ricchi e stronzi del 16° arrondissement si ritrovino a parlare dei loro inesistenti problemi esistenziali.
Questo cinema esiste, certo, e già ne ho detto tutto il male possibile, ma il vero cinema francese - vorrei fosse chiaro - è tutta un'altra cosa. E' un cinema complesso e profondo, fatto di stili, generi e storie molto diverse. Un filone di questo cinema intelligente, si occupa di temi forti e terribilmente attuali. Film alla "Dardenne", per intenderci, volendo prendere a esempio questi due fratelli (sì, lo so che sono Belga, ma tant'è) che hanno fatto del film "sociale" il loro riuscitissimo marchio di fabbrica.
In questi ultimi giorni ho visto due film che sono un bellissimo esempio di un cinema francese capace di leggere e restituire il mondo che ci circonda in maniera potentissima. Entrambi giustamente in competizione al Festival di Cannes tutt'ora in corso: La Loi du Marché di Stéphane Brizé e di La Tête Haute di Emmanuelle Bercot.
Personalmente, amo il cinema di Brizé da diverso tempo. Dalla malinconia di Je ne suis pas là pour être aimé in poi, non mi sono persa una sua storia. Ancora ripenso a quanto ho pianto vedendo Quelques Heures de Printemps, un film magnifico (davvero sotto-estimato) che trattava di eutanasia, del difficile rapporto madre-figlio, della solitudine e confusione dell'uomo moderno. Regista di grande understatement, di pulitissima regia, di rigore estremo, Brizé con questa nuova prova conferma tutte le sue immense qualità. 
La loi du marché racconta una storia semplice quanto spietata: Thierry è un uomo di mezza età che ha perso il lavoro. La sua vita, ora, la passa a mandare CV, far rivedere il suo dossier da Pôle Emploi, e incontrare quelli della banca per cercare di non perdere l'appartamento che lui e la moglie stanno quasi finendo di pagare. Con un figlio handicappato, la macchina che si rompe, e una mobil-home che non si riesce a vendere, le cose non sembrano andare per il verso giusto. Quando finalmente trova lavoro in un supermercato, Thierry si rende conto di quanto spietata sia diventata "la legge del mercato".
Brizé sembra aver tolto tutto il superfluo, a questa storia, sembra aver scavato nella carne fino a lasciare solo l'osso, una superficie che brilla perché levigata, intatta. Le scene che si susseguono sono brevi, intense, filmate strette sui volti dei protagonisti, e non lasciano spazio a nessuna retorica, nessun vittimismo, nessun sentimentalismo. Non c'è bisogno di molto per far capire la stupidità e la tristezza di un colloquio di lavoro via skype. Non serve nemmeno far vedere la faccia dello stronzo che sta facendo le domande. Basta inquadrare l'intervistato, vedere come sta seduto, sentire la sua voce, intuire la rassegnazione e la disperazione con la quale risponde. Vincent Lindon, già complice di Brizé su altri due film, qui dà prova di tutta la sua bravura e, in mezzo ad un cast di attori non professionisti, si confonde con loro, si mimetizza, sparisce. Il suo personaggio di uomo sconfitto ma dignitoso è l'unica luce in un mondo che sembra aver perso qualsiasi dimensione e pietà umana.
Emmanuelle Bercot, qui in Francia più conosciuta forse come attrice che come regista, ha avuto grande successo nel 2013 con un film intitolato Elle s'en va, la cui protagonista era Catherine Deneuve, in un ruolo tagliato su misura per lei. Le due donne si sono ritrovate per La Tête Haute, dove la Deneuve interpreta un giudice per l'infanzia che si occupa per diverse anni del caso di Malony, un giovane delinquente cresciuto in condizioni precarie da una madre disgraziata (e stupida ai limiti dell'insopportabile). Il minore, dalla scolarità quasi pari allo zero e dal comportamento estremamente violento, vive tra case di correzioni e la galera. Aiutato dal giudice Florence, da un educatore che si prende a cuore il suo caso (rivedendosi un po' nel ragazzo), e da una giovane innamorata, Malony riuscirà nonostante tutto a diventare a poco a poco un adulto responsabile.
Anche in questo caso, la solida, ottima regia della Bercot ci trascina in una storia dal ritmo serrato, dove c’è poco spazio per le cose inutili e per i fronzoli. Malony sembra condannato, come tanti altri ragazzi nati e cresciuti in contesti poco fortunati, ad una vita da delinquente. Eppure, nonostante le ricadute siano tante e ogni volta segnate dalla paura che il baratro si spalanchi definitivo sotto i suoi piedi, ci si ritrova a sperare, insieme al giudice, all’educatore, agli operatori che (con un coraggio che andrebbe premiato!) si occupano nelle diverse strutture di questi ragazzi “difficili”, che Malony ce la possa fare. Nonostante una madre incapace sotto tutti i punti di vista di essere tale, nonostante la rabbia, la violenza, si farebbero carte false perché Malony ci riesca.
Merito soprattutto dell’attore che la Bercot ha trovato per impersonarlo: Rod Paradot, faccetta da schiaffi su un fisico minuto e nervoso. Tanto Lindon è calmo e contenuto nella sua interpretazione, quanto Paradot è agitato e strabordante. Con una naturalezza da attore consumato (è su uno schermo per la prima volta in vita sua) ci regala un anti-eroe a cui è difficile non volere bene fin dalla prima inquadratura.
Che questi due attori siano dei più che probabili candidati al premio per la migliore interpretazione a Cannes, a me pare una certezza.


domenica 17 maggio 2015

The first of a million cinemas

Facendo una ricerca di immagini per non so più quale post, sono capitata per caso su una  fotografia del Cinema Missori di Milano.
Cinema ormai chiuso da oltre 30 anni, e dimenticato da tutti, con un valore però del tutto speciale per me. E' stato infatti il primo vero cinema (se si esclude quello parrocchiale del mio paesello) in cui io abbia mai messo piede.
Doveva essere il 1978 (Zazie aveva 9 anni), e lo so per certo perché il film in programmazione era Grease di Randal Kleiser.
Come io possa ricordarlo, è un mistero abbastanza fitto, eppure me ne ricordo perfettamente, non dico come fosse stato ieri, ma quasi.
Evidentemente, avevo già capito che in posti così ero destinata a passarci un sacco di tempo.
La cosa buffa è che qualche settimana fa ho rivisto in TV il film (in lingua originale), e mi sono resa conto, per la prima volta, di che cosa parlassero i testi delle canzoni.
All'epoca l'inglese era una lingua del tutto sconosciuta, per me, e anche se il film era doppiato in italiano, avevano avuto la decenza di lasciare le canzoni in inglese. 
Ricordo che Grease è stato - per altro - il primo disco vinile che abbiamo comprato io e mio fratello (acquisto fatto dopo aver visto il film). Anche in questo caso, non chiedetemi come, ricordo che si trattava di un disco doppio, e mi sembra di tenerlo ancora in mano talmente ho stampato nella testa le immagini della copertina, e dell'interno.
Io cantavo a squarciagola le canzoni imitando la pronuncia e senza assolutamente avere idea del loro significato. Quando, rivedendo il film, ho capito il testo di Beauty School Drop Out, mi si è aperto un mondo!

Al posto del Cinema Missori, oggi, c'è una banca. 
Triste, lo so.
E le storie tristi si somigliano tutte: ogni volta che poso lo sguardo sul Castorama di Place Clichy, mi viene da piangere sapendo che lì un tempo svettava maestoso il Gaumont Palace, il cinema "più grande del mondo".
Che possiamo fare contro il logorio della vita moderna? Niente, se non continuare a frequentare le sale che esistono, che resistono, e che ci regalano quelle due ore di pura magia.
E pensare di tanto in tanto, con nostalgia, alla prima sala dove abbiamo messo piede, dove abbiamo visto le luci spegnersi, il resto del mondo restare chiuso fuori, e le immagini di un altro mondo, sconosciuto, lontano, aprirsi davanti a noi. E lasciarci diversi da come eravamo entrati.
Già innamorati, soprattutto di quel posto dove stavamo seduti al buio.
Il primo, di un milione di cinema.

lunedì 4 maggio 2015

Monsieur Blanchet

I have a nice story to tell you.
And - wow! - I love to have a beautiful story to share with my readers!
Almost 10 years ago, when I moved to Paris from Italy, and I started to live in Montmartre, I used to go very often on Sunday morning at the Hallé Saint Pierre to have a coffee in their bar and to look at books in their lovely book-shop.
One day, I found by chance in the BD section a book that attracted me for its cover and its style. The title was La Fugue and the auteur a certain Pascal Blanchet, an unknown (to me, until that moment) illustrator from Québec:
La Fugue is the (quite sad) story of a jazz musician: from the joys of youth (full of music and love) until the desperate last days of his life (full of sorrow and solitude). I have to confess that I didn't - and I still don't - know much about BD or graphic novels, and I was the first to be surprised by my discovery that day. I immediately bought the book, mesmerized by the beauty of Pascal's illustrations, by his vintage touch, and by the essential but powerful story he was able to write. Reading it, I somehow thought that the man behind the book would be of a certain age, so when I've found out that Pascal was born in the year 1980, my astonishment was truly great.
At the time of my discovery, Pascal had already published another book, Rapide Blanc (always for the adorable Montréal publishing company Editions de la Pastèque), a book that I ordered on line the next day. When the book arrived, I understood that my "love at first sight" was ready to become a long-lasting relationship:
If possible, I loved Rapide Blanc even more than La Fugue.
Pascal's style is unique and recognizable among thousands: his images, perfectly crafted and permeated of nostalgia, are able to give life to an entire world. His stories, always set in the late '40s - beginning of '50s, talk about people in the past but have a particular resonance on our modern lives, and I can't tell you how beautiful are these people living, loving, dancing on swings, drinking cocktails, moving as silhouettes on sharp backgrounds.
Cinema is not far away from all this, evidently enough, but I think that music has the greatest importance in Pascal's work (and life). It is not by coincidence that at the end of each of his books, you can find a "Discographie": with the name of the singer, the title of the track and of the album is taken from (I never saw a record dated later than 1969, by the way) or the fact that in his biography, on his site, he writes: No music, No nothing.
In 2008, Facebook was just appeared in my life, and I wanted to check if there was a fan page for Pascal. There was not, but Pascal was there, with his personal page, and so I decided to write him a message and ask him to accept my friendship, explaining how much I loved his books.
Pascal immediately accepted, and from that moment on, we started to regularly write to each other. 
I was fascinated by his work and Pascal was fascinated by the fact that I worked for an architect, since architecture and design, together with illustration and music, are his other big passions (and you could clearly see that looking at his work).
One day, to my great, great surprise, Pascal wrote to announce that he made a portrait of me  (!!!) for a series of portraits he was working on. The idea that Pascal made a portrait of me without even ever met me was pretty incredible, but also very cool, especially when he said that he has conceived it as a "Cinema Poster". This was the portrait (with my real name on it):
I was crazy about this portrait and in 2009, when I decided to create my cinema blog, I asked Pascal if I could use it as the opening image of Le Blog de Zazie.
And the rest is history, as you all know...
In the meantime, Pascal wrote a couple of other books: Bologne
and Nocturne
I personally adore this last one: dark as only the darkest souls can be, evocative, desperate, fascinating, a real masterpiece.
In all these years, Pascal and I never had the chance to meet in flesh in blood.
He was in Italy last year to receive in Bologna the prix Ragazzi for Le Noël de Marguerite, a book written by India Desjardins and illustrated by him but I couldn't be there and I had never been to Québec, where Pascal lives, so the chances to see each other were really small.
But a while ago, knowing that I would have been in NY for my job and having a good friend living in Montréal (the adorable Caterina), I decided to stop by for few days and I wrote to Pascal to inform him.
And this is why, in a cold and grey Monday of April 2015, Monsieur Blanchet and Zazie finally met.
What can I say? We spent just few hours together, walking around the Mile End, but we both have the feeling that we were like old friends, talking like we have been doing that for all our lives. 
Pascal took me to an incredible place for lunch: Wilensky, a place established in 1932, that became very famous thanks to Mordecai Richler's book The Apprenticeship of Duddy Kravitz (and through the 1974 film version by Ted Kotcheff ). Of course, we had the "Special": a grilled beef salami and beef bologna sandwich with mustard on a toasted roll. Absolutely delicious! And the place...oh, that place!
And this is us, happy to have finally met!
Didn't I tell you that was a wonderful story?
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