mercoledì 20 maggio 2015

Piccoli Dardenne Crescono

Ho la vaga impressione che, al di fuori di questo paese, si creda che il cinema francese sia quello dove un gruppo di parigini ricchi e stronzi del 16° arrondissement si ritrovino a parlare dei loro inesistenti problemi esistenziali.
Questo cinema esiste, certo, e già ne ho detto tutto il male possibile, ma il vero cinema francese - vorrei fosse chiaro - è tutta un'altra cosa. E' un cinema complesso e profondo, fatto di stili, generi e storie molto diverse. Un filone di questo cinema intelligente, si occupa di temi forti e terribilmente attuali. Film alla "Dardenne", per intenderci, volendo prendere a esempio questi due fratelli (sì, lo so che sono Belga, ma tant'è) che hanno fatto del film "sociale" il loro riuscitissimo marchio di fabbrica.
In questi ultimi giorni ho visto due film che sono un bellissimo esempio di un cinema francese capace di leggere e restituire il mondo che ci circonda in maniera potentissima. Entrambi giustamente in competizione al Festival di Cannes tutt'ora in corso: La Loi du Marché di Stéphane Brizé e di La Tête Haute di Emmanuelle Bercot.
Personalmente, amo il cinema di Brizé da diverso tempo. Dalla malinconia di Je ne suis pas là pour être aimé in poi, non mi sono persa una sua storia. Ancora ripenso a quanto ho pianto vedendo Quelques Heures de Printemps, un film magnifico (davvero sotto-estimato) che trattava di eutanasia, del difficile rapporto madre-figlio, della solitudine e confusione dell'uomo moderno. Regista di grande understatement, di pulitissima regia, di rigore estremo, Brizé con questa nuova prova conferma tutte le sue immense qualità. 
La loi du marché racconta una storia semplice quanto spietata: Thierry è un uomo di mezza età che ha perso il lavoro. La sua vita, ora, la passa a mandare CV, far rivedere il suo dossier da Pôle Emploi, e incontrare quelli della banca per cercare di non perdere l'appartamento che lui e la moglie stanno quasi finendo di pagare. Con un figlio handicappato, la macchina che si rompe, e una mobil-home che non si riesce a vendere, le cose non sembrano andare per il verso giusto. Quando finalmente trova lavoro in un supermercato, Thierry si rende conto di quanto spietata sia diventata "la legge del mercato".
Brizé sembra aver tolto tutto il superfluo, a questa storia, sembra aver scavato nella carne fino a lasciare solo l'osso, una superficie che brilla perché levigata, intatta. Le scene che si susseguono sono brevi, intense, filmate strette sui volti dei protagonisti, e non lasciano spazio a nessuna retorica, nessun vittimismo, nessun sentimentalismo. Non c'è bisogno di molto per far capire la stupidità e la tristezza di un colloquio di lavoro via skype. Non serve nemmeno far vedere la faccia dello stronzo che sta facendo le domande. Basta inquadrare l'intervistato, vedere come sta seduto, sentire la sua voce, intuire la rassegnazione e la disperazione con la quale risponde. Vincent Lindon, già complice di Brizé su altri due film, qui dà prova di tutta la sua bravura e, in mezzo ad un cast di attori non professionisti, si confonde con loro, si mimetizza, sparisce. Il suo personaggio di uomo sconfitto ma dignitoso è l'unica luce in un mondo che sembra aver perso qualsiasi dimensione e pietà umana.
Emmanuelle Bercot, qui in Francia più conosciuta forse come attrice che come regista, ha avuto grande successo nel 2013 con un film intitolato Elle s'en va, la cui protagonista era Catherine Deneuve, in un ruolo tagliato su misura per lei. Le due donne si sono ritrovate per La Tête Haute, dove la Deneuve interpreta un giudice per l'infanzia che si occupa per diverse anni del caso di Malony, un giovane delinquente cresciuto in condizioni precarie da una madre disgraziata (e stupida ai limiti dell'insopportabile). Il minore, dalla scolarità quasi pari allo zero e dal comportamento estremamente violento, vive tra case di correzioni e la galera. Aiutato dal giudice Florence, da un educatore che si prende a cuore il suo caso (rivedendosi un po' nel ragazzo), e da una giovane innamorata, Malony riuscirà nonostante tutto a diventare a poco a poco un adulto responsabile.
Anche in questo caso, la solida, ottima regia della Bercot ci trascina in una storia dal ritmo serrato, dove c’è poco spazio per le cose inutili e per i fronzoli. Malony sembra condannato, come tanti altri ragazzi nati e cresciuti in contesti poco fortunati, ad una vita da delinquente. Eppure, nonostante le ricadute siano tante e ogni volta segnate dalla paura che il baratro si spalanchi definitivo sotto i suoi piedi, ci si ritrova a sperare, insieme al giudice, all’educatore, agli operatori che (con un coraggio che andrebbe premiato!) si occupano nelle diverse strutture di questi ragazzi “difficili”, che Malony ce la possa fare. Nonostante una madre incapace sotto tutti i punti di vista di essere tale, nonostante la rabbia, la violenza, si farebbero carte false perché Malony ci riesca.
Merito soprattutto dell’attore che la Bercot ha trovato per impersonarlo: Rod Paradot, faccetta da schiaffi su un fisico minuto e nervoso. Tanto Lindon è calmo e contenuto nella sua interpretazione, quanto Paradot è agitato e strabordante. Con una naturalezza da attore consumato (è su uno schermo per la prima volta in vita sua) ci regala un anti-eroe a cui è difficile non volere bene fin dalla prima inquadratura.
Che questi due attori siano dei più che probabili candidati al premio per la migliore interpretazione a Cannes, a me pare una certezza.


0 commenti:

Posta un commento

Related Posts Plugin for WordPress, Blogger...