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venerdì 31 gennaio 2014

Quartiere che vai, Cinema che trovi

Non mi stancherò mai di scrivere, in questo blog, della bellezza dei cinema indipendenti di Parigi. 
Ho praticamente passato metà della mia vita al Cinéma des Cinéastes di Avenue Clichy (e anche al suo Bistrot à Vin... la cameriera ormai mi chiama per nome e mi dà del tu!), abito a due passi dal Ciné Studio 28 (la più antica sala della capitale) e ho frequentato in maniera massiccia il Triangolo delle Bermuda del Quartiere Latino: Champo + Filmothèque + Reflet Médicis
Certo, per i film nuovi vado nelle grandi multisale sparse un po’ ovunque, ma a livello di felicità, vi assicuro, non c’è confronto. 
Perché in questi cinemini ti senti subito “a casa”. Di solito i proprietari stanno lì da qualche parte, non troppo lontana, e l’atmosfera è quasi da cospiratori. Siamo pochi, ma neanche tanto pochi, in questa città, a sostenere la cosa che amiamo di più: le sale dove possiamo consumare la nostra passione per il cinema.
E allora (tutte cose provate in prima persona): c’è quello che ti fa la spiega prima del film, il proiezionista che ti aspetta se devi fare la pipì, l’incontro e il dibattito con il regista la domenica mattina, il pienone per vedere un film Italiano degli anni ’70 quando fuori c’è una giornata di Giugno con il sole e il caldo (merce rara, a Parigi!) e spesso c’è anche un vero baretto dove prendere un caffé o una cosa da bere (e non quegli orrendi mostri puzzolenti e sforna pop-corn che ci sono nelle multi-sale). 

E non parliamo della programmazione! Cinema che da tutta la vita proiettano solo film di Pasolini, per dire! E non chiudono, capite? Cinema specializzati in film africani, in film indiani, in film dell’America Latina, cinema dove puoi andarti a rivedere un film con Audrey Hepburn, o The Apartment di Billy Wilder, o Fanny & Alexander (versione di 5 ore che manco l'ha mai vista il regista) di Bergman. J'adore!!!

L’altra sera mi era venuta voglia di rivedere Inside Llewyn Davis dei Coen Brothers. ll film qui in Francia è uscito mesi fa, ma ero certa che, da qualche parte, sarei riuscita a trovarlo. E infatti, ecco qua che spunta una “séance” ad un orario perfetto e in un luogo che amo molto: L’Entrepôt, nel 14° arrondissement. Questo posto ha tutto per piacermi: un bar, un ristorante con un bellissimo giardino, uno spazio per piccoli concerti e 3 sale cinenamatografiche rigorosamente classificate d'Art & d'Essai. 
In pratica, la perfezione! 
Ristorante (e giardino) dell'Entrepôt
Prima di andare a cena, io e l'amico che era con me siamo andati ad assicurarci dell'orario di inizio del film: i multi-sala hanno questa pessima abitudine di far cominciare la proiezione dopo 15-20 minuti rispetto all'orario indicato, i cinema indipendenti, invece, fanno al massimo 1-2 trailers e poi attaccano subito il film. Evviva! 
Dopo una buonissima cena e un ottimo bicchiere di vino, eccoci pronti per i Coen.
Il ragazzo che vendeva i biglietti era simpaticissimo... siamo stati lì a dire due parole e poi ci siamo diretti verso la sala. Ed ecco che, prima di entrare, vedo semi-aperta la porta della cabina di proiezione. Mi sono fermata incantata: le pizze una sopra l'altra, il muro scrostato, il guscio vuoto di una bobina appesa al muro, il buio appena rischiarato dalla luce della pellicola. 
Tutto un mondo (il mio) condensato dietro una porta socchiusa:

In sala eravamo solo in quattro. Io, il mio amico Alex, e una coppia. Quando siamo entrati ci hanno guardato. Alex ha scherzato: "Ah, pensavamo che la sala fosse solo per noi!"
Loro hanno riso: "Eh sì, pure noi, ma adesso siete arrivati voi a disturbarci...
Più che a Parigi sembrava di stare in un villaggio simpatico dove tutti si conoscono. 
La magia dei Coen ha fatto il resto: alla fine del film, prima di uscire, i due ci hanno salutato. 
Forse, chi lo sa, pensavano che fossimo al Gaslight Café del Greenwhich Village negli anni '60.

venerdì 9 novembre 2012

Jagten

Nel 1995, i registi Danesi Lars Von Trier e Thomas Vinterberg (39 e 26 anni, all'epoca), redigono e firmano a Copenhagen il manifesto cinematografico conosciuto sotto il nome di Dogma 95.
Di solito, i movimenti cinematografici vengono riconosciuti in corso di attuazione o più facilmente dopo qualche tempo: la Nouvella Vague francese, il Neo Realismo italiano, il Cinema Novo brasiliano, il Free Cinema inglese, sono diventati categorie soltanto dopo che un gruppo di opere aveva chiaramente manifestato lo stesso stile, lo stesso tipo di storie, lo stesso modo di girarle. Von Trier e Vinterberg, invece, decidono di fare esattamente l’opposto. Scrivono alcune regole e proclamano che qualsiasi regista al mondo voglia mettersi a fare film secondo quelle regole, sarà considerato un regista Dogma. L’idea alla base del manifesto era essenzialmente quella di promuovere un cinema più “puro”: via gli effetti speciali, via gli investimenti miliardari, via l’ego smisurato dell’artista (il nome del regista non deve mai comparire, tanto per dirne una). Il loro decalogo, per la verità, è al limite dell’estremo: no a luci artificiali, no a scenografie, no all’uso della musica. Non c’è da stupirsi se il Dogma viene ben presto soprannominato “Voto di Castità”. Per quanto assurdo tutto questo possa sembrare, il manifesto nei suoi 10 anni di vita (nel 2005 è stato infatti ufficialmente “chiuso”), ha prodotto un po’ dappertutto nel mondo una manciata di film molto interessanti, e anche un paio di piccoli capolavori.
Lars Von Trier e Thomas Vinterberg ai tempi del Dogma
Il primo film Dogma, ad esempio, è stato anche l’esordio di Vinterberg: Festen, film sommerso da una marea di premi ed enorme successo di critica e pubblico. Personalmente, Festen a parte, io ho adorato alcuni film dogma considerati minori, come Mifune di Søren Kragh-Jacobsen e Italian for Beginners di Lone Scherfig, due chicche che vi consiglio di recuperare.
Vinterberg, colto alla sprovvista dal successo planetario di Festen, ha fatto fatica a proseguire con una decente carriera cinematografica. Quest’anno, è ritornato al Festival di Cannes con la sua ultima opera: Jagten (La Caccia), riscuotendo di nuovo un gran successo e portandosi a casa uno dei premi più importanti (e finora secondo me anche l’unico sensato dato dalla giuria), quello a Mads Mikkelsen (lo ADORO!) come miglior interprete maschile.
La settimana scorsa, in un’anteprima speciale al Cinéma des Cinéastes (il film uscirà in Francia il 14 Novembre e in Italia il 23 Novembre), Vinterberg ha incontrato il pubblico parigino per discutere del film.
La storia: Lucas, un quarantenne appena uscito da un doloroso divorzio, sta cercando di rifarsi una vita. Le cose sembrano andargli abbastanza bene: ha accettato un nuovo lavoro come aiuto-insegnante in una scuola materna, suo figlio Marcus sta per andare a vivere con lui e Lucas sembra anche aver trovato una nuova compagna. Questa serenità è però destinata ad essere spazzata via in breve tempo: Klara, una bambina di cinque anni (nonché figlia del suo miglior amico), confessa alla direttrice della scuola di aver subito attenzioni di natura sessuale da parte di Lucas. La direttrice, sconvolta da quello che ha appena sentito, mette immediatamente in moto la macchina infernale che rischierà di schiacciare la vita dell'uomo, del tutto innocente.
Come ha giustamente fatto notare Vinterberg durante la discussione seguita al film, Jagten è l’anti-Festen assoluto. In Festen, dei bambini innocenti erano costretti a subire le attenzioni morbose di un adulto (il padre), che la faceva franca fino alla famosa festa in cui il figlio si decide a raccontare tutto di fronte agli altri componenti della famiglia. In Jagten il problema è opposto: un uomo adulto viene accusato da una bambina di aver compiuto degli atti osceni, e deve passare attraverso le prove più dure per riuscire a dimostrare agli altri la propria innocenza. Il tema è ovviamente molto delicato, e Vinterberg dimostra un gran coraggio nel “mostrare” due aspetti davvero poco rappresentati al cinema: il fatto che i bambini possano e sappiano mentire, e il fatto che anche nei primissimi anni di vita possiamo provare un sentimento simile all’innamoramento nei confronti di soggetti adulti. Klara è chiaramente affascinata da Lucas ed è proprio di fronte al suo rifiuto (in quanto adulto responsabile) verso alcuni comportamenti inattesi della bambina, che quest’ultima reagirà “contro di lui”.
 
Costruito in maniera lineare e molto rigorosa, Jagten fa crescere la tensione a poco a poco, generando un sentimento di oppressione e ingiustizia che permea la pellicola in maniera costante ma dilagante. Lo spettatore, sapendo dell'innocenza di Lucas, soffre con lui, ed è inevitabilmente portato ad una grande identificazione con il protagonista, perché tutti potremmo essere vittima di un simile errore, e chi sarebbe pronto a crederci, contro la parola innocente di un bambino? Quali amici resteranno al nostro fianco? Chi continuerà ad amarci dei nostri familiari? Chi avrà ancora fiducia in noi? Senza mai dare giudizi morali, ma anzi facendo ben capire i drammi e i dubbi nascosti dietro ciascuno dei personaggi, Jagten impressiona per forza stilistica e capacità di non abbandonarsi mai a facili vie d'uscita o scorciatoie sentimentali. La sceneggiatura è solidissima, certo, ma qui come al solito gli attori fanno la differenza. Intanto, chi ha trovato una bambina di 5 anni così brava a recitare? Mentre su Mikkelsen, che volete che vi dica, per me è uno dei più bravi attori in circolazione. Se qualcuno di voi ha familiarità con il cinema di un altro grande regista danese, Nicolas Winding Refn, sa di cosa sto parlando: dalla trilogia Pusher al delirio Valhalla Rising, Mikkelsen dimostra una versatilità ed una capacità di cambiare registro di rara potenza. Qui è tutto in sottrazione, con rare esplosioni di rabbia che lasciano senza fiato. Semplicemente eccezionale.
Vinterberg, ritrovata la sua vena più personale, ritornato - se posso osare - più "dogmatico", dà vita ad un film dal quale non si esce indenni (magnifica, lo vedrete, la scena finale!). Non sono stupita che abbia citato come primo riferimento per il film Fanny e Alexander di Ingmar Bergman. 
Perché nella vita, si sa, dovendo avere dei modelli, tanto vale puntare in alto! 

martedì 17 luglio 2012

Sous le soleil (exactement)

Lo so, amici italiani, voi state morendo di caldo, cuocete sotto il sole, non avete un filo di vento, invocate la pioggia e il calo delle temperature. Ma noi, qui, da metà Francia in su e nel resto del Nord Europa, da MESI non sappiamo che cosa sia, il sole. Non abbiamo mai tolto il piumino invernale dal letto, non abbiamo mai potuto uscire di casa senza un impermeabile, una giacca, un ombrello, e saremmo pronti a dare dei soldi pur di sentire un po’ di caldo nelle nostre ossa.
Nel disperato tentativo di trovare l’estate in questa fredda stagione parigina, a Zazie è venuto in mente di cercare conforto in una manciata di film in cui il sole regna sovrano.
Sous le soleil, exactement!

  
Sommaren med Monika 
(Ingrid Bergman, 1953

La storia d’amore tra due giovanissimi, Harry e Monika, l’estate su una selvaggia isola svedese, la sensualità ardente di Arriet Andersson: Bergman ci regala uno dei suoi capolavori più luminosi e intensi (e anche un nudo che all’epoca fece scandalo, soprattutto in America). Un film famoso per aver fatto innamorare della Andersson tutte le teste calde della Nouvelle Vague. Non a caso, nei 400 Coups di Truffaut, il giovane Doinel ruba in un cinema di Parigi l’affiche con la foto dell'attrice.
  

 
Plein Soleil
(René Clément, 1960
Se il nome Mr. Ripley vi suona familiare, sappiate che il romanzo di Patricia Highsmith, prima di essere portato sullo schermo nel 1999 da Anthony Minghella con Jude Law e Matt Damon, è stato uno straordinario film di René Clément con due attori magnifici e sensuali: Alain Delon e Maurice Ronet. Come è noto, la trama lascia molto spazio all’ombra, ma il lato oscuro è relegato all’interno degli esseri umani, mentre fuori tutto risplende sotto il sole accecante del Mediterraneo. La musica di Nino Rota e la fotografia di Henri Decae, perfette, completano il già ricco programma.



I film estivi di Eric Rohmer
Non esiste al mondo un regista più estivo del mio adorato Eric Rohmer. Moltissimi dei suoi film sono ambientati in questa stagione, al punto che c’è il vero e proprio imbarazzo della scelta, ma avendo voglia di mettersi comodi su una sdraio vista mare, ecco quali io avrei preferito per voi:


Pauline à la Plage (1983) 
La quindicenne Pauline parte con la zia Marion per una vacanza sulle coste dell’Atlantico e scopre le prime gioie e i primi dolori dell’amore. Dialoghi fiume sulla spiaggia, spontaneità assoluta, e una visione sempre lucida sulla complessità dell’essere umano e dei suoi sentimenti.

Le Rayon Vert (1986) 
Un gioiello assoluto e uno dei film preferiti di Zazie. Delphine, una giovane segretaria parigina, viene piantata in asso dall’amica con cui doveva partire a due settimane dalle vacanze. Disperata all’idea di viaggiare da sola, Delphine decide comunque di lasciare la città. Dopo vari disastrosi tentativi, arrivata a Biarritz, finalmente Delphine fa un bell’incontro e riesce addirittura a veder esaudito un suo grande desiderio: osservare il raggio verde di cui fantasticava Jules Verne in un suo libro! Rohmer, aiutato dalla protagonista Marie Rivière, autrice con lui dei dialoghi del film, crea un personaggio adorabile (anche se ad alto mantenimento psicologico!) e ci regala un racconto leggero e pieno di speranza sul tema della solitudine e del bisogno d’amore.

Conte d’été (1996)
 Alla vigilia del suo primo lavoro a Parigi, il giovane Gaspard, fresco di laurea in matematica, decide di passare le vacanze estive a Dinard, in Bretagna, a casa di una zia. Spera vagamente di poter rivedere Léna, una ragazza con la quale ha intrecciato una relazione, ma nel frattempo conosce Margot (interpretata per altro dall'attrice di Pauline à la plage), che lavora in una créperie, che a sua volta gli presenta un’amica. Gaspard, affascinato da tutte queste donne, non sa decidersi sui suoi veri sentimenti nei loro confronti. 
Rohmer at his best, oserei dire, in questa girandola di parole, canzoni, sole, mare, sorrisi, baci, sguardi, e intreccio irresistibile di vacanze, vita vera, futuro, presente, sentimento amoroso, desiderio sensuale.  
J'adore!



My Summer of Love
(Pawel Pawlikowski, 2004)
Piccolo film british molto interessante uscito qualche anno fa: nella campagna inglese (Yorkshire, per la precisione), durante un’estate torrida, Mona, una ragazza della working-class un po’ naive e facilmente impressionabile, incontra Tamsin, bella, ricca, spregiudicata e un tantinello cinica. Complice il calore, le vacanze, la libertà, le due ragazze scopriranno di essere attirate l’una all’altra più che da una semplice amicizia. Il film è molto intenso, intelligente nel mostrare i meccanismi del desiderio, delle differenze di classe, dei rapporti di forza tra le persone. Ha anche avuto il merito di far scoprire il talento di due bravissime attrici: Emily Blunt (nella parte di Tamsin), un’attrice che da allora ha fatto una carriera sfolgorante, e Natalie Press nel ruolo di Mona (l'attrice ha lavorato più volte con Andrea Arnold ed è stata protagonista del suo corto, Wasp, vincitore di un premio Oscar).



L’Estate di Giacomo
(Alessandro Comodin, 2011)
Vi parlo di questo film perché l’ho visto proprio ieri sera insieme alle mie amiche bloggers Marianna e Maëlle, seguito da un dibattito con il giovane regista Alessandro Comodin al cinema Reflets Médicis, in pieno Quartiere Latino.
Girato (su pellicola!) nel corso di un’estate in Friuli, il film mostra alcuni momenti della vita vera di Giacomo, un ragazzo sordo di 19 anni. A metà tra documentario e finzione, il film è un oggetto strano ma molto tenero, nel quale non si ha difficoltà “ad entrare”, nonostante non corrisponda a nessun canone del cinema attuale. La vita di Giacomo è molto semplice: va al fiume con Stefania, una sua amica (nonché sorella minore del regista), suona la batteria e canta canzoni strampalate, va a vedere i fuochi d’artificio, va ad una festa di paese, e passa del tempo con Barbara, la sua ragazza. Tutto per lui è nuovo, perché si è da poco fatto operare e quindi ci sente per la prima volta. Grazie alla simpatia innata di Giacomo e alla sua carica vitale, il film emana una luce soffusa e dolcissima, proprio come nella bellissima scena della passeggiata in bicicletta al tramonto di Giacomo e Stefania. Nella quale sembra di sentire, oltre che vedere, il profumo dell’estate calda e spensierata. Film sul passaggio dall'adolescenza all'età adulta, premiato a vari festival (tra cui quello di Locarno), L'estate di Giacomo è un esempio di quanto siano infinite le possibilità dell'espressione cinematografica. E siamo già curiosi di vedere cosa succederà al prossimo film di Comodin!
Vi sembrerà incredibile ma proprio oggi, dopo mesi di cieli grigi, su Parigi è di nuovo spuntato il sole e... fa caldo! E poi dicono che i film non cambiano la vita...

domenica 17 giugno 2012

Welcome

Ho viaggiato molto nelle ultime settimane, e mi scuso con i miei lettori per aver trascurato un po' il blog.
Sono anche stata, per la prima volta nella mia vita, in Svezia. 
Non avevo nessun motivo particolare per andare in questo paese. Se non, credo, il desiderio di vedere il luogo che aveva dato i natali a Ingmar Bergman. Quando non viaggio per lavoro, è raro che vada in posti che non c'entrino nulla con il cinema, e Bergman è uno dei miei registi preferiti. Amo i suoi film: le immagini, la luce, i luoghi, i dialoghi, i silenzi, l'abilità con cui disseziona, spiega e interpreta l'animo umano, con cui racconta l'amore e il disamore tra le persone, la disperazione con cui cerca di dare un senso alla vita, e il suo interrogarsi sull'esistenza o meno (piuttosto meno, temo, se si pensa a Luci d'Inverno) di un essere superiore.
Arrivata all'aeroporto di Stoccolma, con mia grande sorpresa, mi sono vista accogliere da fotografie di famosi personaggi svedesi. Gli Abba, ça va sans dire, ma anche Ingrid Bergman, Greta Garbo e Stellan Skarsgard (attore per il quale ho sempre avuto un debole). Proprio un attimo prima che le porte si aprissero sull'uscita, c'era una foto in bianco & nero di Ingmar Bergman. Welcome to my hometwon, diceva la scritta accanto al suo volto.
Voi adesso penserete che sono proprio una cretina, ma io ho avuto un colpo al cuore. 
Mi sono sentita un groppo in gola, come se avessi trovato un amico ad accogliermi lì in aeroporto. Benvenuta, mi diceva Ingmar, e io avrei voluto buttargli le braccia al collo e dirgli che mi sentivo già un po' a casa.

domenica 28 agosto 2011

Reality bites

Andare al cinema non mi basta, così passo il tempo anche a leggere di cinema.
Quando si tratta di interviste, i migliori, non c'è dubbio, sono i registi. Gli attori spesso dicono delle banalità o, semplicemente, non hanno poi molto da dire, ma è raro trovare un regista che non sappia il fatto suo. E nella categoria registi, c'è una sotto-categoria: quella dei registi che hanno come unico e solo argomento (non importa di cosa stiano parlando) il loro amore per il cinema. Quelli, inutile dirlo, sono i miei preferiti. Mi vengono in mente, di getto, tre nomi: Martin Scorsese, Aki Kaurismaki e Woody Allen. Le loro interviste sono miele per le mie orecchie. Non perdono mai occasione per fare riferimento ai film che hanno visto, che hanno amato, ai registi che sono stati per loro di grande ispirazione, e a quanto la visione di un certo tipo di cinema abbia cambiato la loro vita per sempre. Una volta Kaurismaki ha affermato che per lui il paradiso è questo: un bar (guarda caso...) dove Chaplin si intrattiene in simpatiche chiacchiere con Renoir. Insomma, stiamo parlando di gente con il mio stesso problema: senza cinema, non potrebbero vivere (e a quanto pare pure da morti sperano di poter continuare ad averci a che fare!).
In tutti questi anni, se abbastanza spesso Allen mi ha delusa come regista, in qualità di "intervistato" mi è sempre sembrato imbattibile. Quello che trovo interessante è quanto Allen denigri il suo cinema. Quanto dica che rispetto a uno come Ingmar Bergman lui non conti niente. Quanto deluso sia dal risultato finale dei suoi film rispetto all'idea iniziale che lui aveva in testa. Nelle interviste di Allen c'è sempre molto materiale su cui riflettere. Poco tempo fa, per l'uscita del suo ultimo film in Francia, Midnight in Paris, il regista ha rilasciato una lunga intervista a quelli di Télérama. Mi era piaciuta così tanto che l'avevo strappata dal giornale e l'avevo conservata. Questa mattina, facendo pulizie in casa dopo la lunga pausa estiva, l'ho ritrovata per caso. Mi sono messa a rileggerla e lì, scritto nero su bianco, ho scoperto una frase che BAM!, mi ha folgorata. E mi ha fatto capire che Allen potrebbe essere il mio portavoce:
"Mi identifico sempre in quelli che rifiutano la realtà: Cecilia (la protagonista della Rosa Purpurea del Cairo), Gil (il protagonista di Midnight in Paris) o la Blanche Dubois di Un tram che si chiama desiderio, che non vuole rinunciare a vivere in un mondo incantato. Trovo il nostro mondo sinistro, e la condizione umana sempre più atroce. Come milioni di persone della mia età, sono cresciuto nella più perfetta illusione, nei sontuosi decori delle sale di cinema dove passavo la mia vita, e nell'immaginario dei film hollywoodiani. Conosco persone che non si sono mai rimesse dalla delusione che hanno provato andando avanti nella loro esistenza. Che sono rimaste in collera tutta la loro vita contro il loro compagno perché non era così nobile, così bello, onesto e coraggioso come nei film. Si sentono come in un incubo: presi in ostaggio dalla realtà. Io stesso, non sono mai veramente riuscito a superare questa tristezza."
Se dovessi iniziare una terapia oggi, andrei dallo psicanalista con un foglietto sul quale riporterei fedelmente queste parole di Woody Allen. Per poi chiedere: Dottore, mi dica, è grave?

venerdì 3 settembre 2010

September (Underestimated n° 2)


All bloggers have their favourite month, I guess.
As far as I'm concerned, it is September. I love the end of summer, the warm light in the streets at sunset, the crispy colours of things around me.
Every time September is back, I think about the Woody Allen movie having the same title. It is one of those Allen's movies people usually don't talk about and I never understood why. I watched it for the first time 23 years ago, in a Milan cinema, and I still clearly remember how much I was taken by this picture.
Lane (Mia Farrow) and Stephanie (Dianne West)
A house in Vermont, six characters, different loving disasters.
The movie never shows the outside world. This is a "chamber piece", a theatrical movie.
The owner of the house is Lane, a woman who's recovering from a nervous breakdown. It is the end of the summer and few friends has joined her for the week-end. Lane is in love with Peter, a writer, but Peter is in love with Stephanie, Lane's best friend, while Howard, a neighbour, is in love with Lane.
Things are already a bit complicated, but to make them worse, Diane (very lively Lane's mother) arrived at the house together with her third husband. Friends will spend the days talking, eating, drinking, avoiding to show or showing their feelings to the others, until a big storm comes to trouble them. It is a kind of signal: all the things remained unsaid until that moment come to surface, exploding and exposing the hidden feelings and wounds of the group.
There will not be blood, but tons of sadness.
Diane (Elaine Stritch), Lane's mother
Interestingly enough, Woody Allen directed September twice. He practically made the movie a second time because he wasn't happy about the first version, and especially his cast. He had the guts to replace two actors like Christopher Walken and Sam Shepard for the role which was eventually played by Sam Waterson, and even to replace Maureen O'Sullivan with Elaine Stritch for the role of Diane. Not that O'Sullivan was extremely famous, but she was (at that time) Allen's mother-in-law. Bad move, I guess.
By the way, I was personally very happy with the cast, thanks to the presence of an actor and an actress I have always been a huge fan of: Denholm Elliott (probably better known for his role as Mr. Emerson in A room with a view, who sadly died few years afterwards, in 1992), who's playing Howard, and Dianne Wiest (an amazing actress, and here particularly adorable with her short haircut), who plays Stephanie.
Lane (Mia Farrow) and Peter (Sam Waterson)
What I really like about September, is that Woody Allen doesn't even try to make people laugh.
I think this is one of the few movies (together with Interiors and Another Woman) where Allen allowed himself to show his (deeply) dark side. I mean, it is not by chance that Ingmar Bergman is his favourite film-maker. I read very often that this could be considered Allen's Autumn Sonata (because of the relationship between Lane and her mum), but I think that September is more Allen's Winter Light. It is just that, instead of winter in Sweden, it is autumn in Vermont.
Many themes he cherishes are present here: the cruelty of love, the volubility of feelings, the betrayal, the difficulty of human relationships, the meaning of life and the reasons behind this universe's existence. Allen's vision is not a cheerful one, and
September doesn't leave the audience with much hope. In his other movies, Allen is usually able to hide his gloomy attitude through the lens of irony. I think about that scene of Radio Days where a little boy is taken to see a doctor by his mum because he is depressed. When the doctor asks him why, he answers: "Because the universe is expanding". And his mum replies: "But you live in Brooklyn and Brooklyn is not expanding!".
Maybe somebody should say to Woody that Manhattan is not expanding as well.
This is the only scene of September I was able to find on the net (with Spanish subtitles!) but it is a good example of the general atmosphere of the movie.

martedì 20 luglio 2010

Una Storia Vera

Mi sono spesso chiesta se il fatto di condividere la stessa passione renda le persone più unite, più capaci di capirsi, più simili nel loro modo di concepire la vita e di viverla. Il fatto di tifare per la stessa squadra, ad esempio, mi chiedo affascinata io che non ho mai potuto soffrire il calcio, fa sì che le persone sappiano di cosa parlare quando si incontrano anche se un attimo prima erano perfetti sconosciuti?
Con il calcio non saprei, ma con il cinema questa teoria funziona.
Quando incontro qualcuno che ama i film, è raro che nella stanza cali il silenzio. E spesso, guarda caso, si finisce con lo scoprire che si amano anche gli stessi libri, la stessa musica, insomma più o meno le stesse cose. Certo i gusti possono essere molto diversi, e ci stanno pure delle animate discussioni su registi, film e attori, ma il mondo lo vediamo tutti da quella prospettiva lì.
Quella della poltrona di un cinema.

Ho una bella storia (vera!) da raccontare, in proposito.
Se seguite questo blog da vicino, forse vi ricorderete dei miei post su due film italiani la cui bellezza mi aveva colpito in maniera plateale: i documentari (ma chissà perché mi sembra riduttivo definirli tali) del giovane regista casertano Pietro Marcello. Ho già spiegato come, tramite alcuni amici comuni, avessimo avuto un contatto epistolare, ma la novità è che la scorsa settimana, complici quegli stessi amici (Sara Conforti ed Emiliano Morreale, pratiche di beatificazione già in corso) e la coincidenza di trovarsi nella stessa città (Roma), Pietro l’ho conosciuto per davvero.
Che posso dirvi? Che già dopo due minuti che parlavo con lui mi sembrava di stare a casa.
Ad esempio, ha raccontato di aver portato il suo film, La Bocca del Lupo, in centinaia di festival cinematografici (compresi alcuni molto importanti), ma che il suo preferito è stato il Midnight Sun Film Festival, il festival che i fratelli Aki e Mika Kaurismäki organizzano tutti gli anni a metà Giugno a Sodankylä, in Lapponia. E’ da sempre che voglio andare a quel festival, da sempre che Aki Kaurismäki è, in una mia personalissima classifica, fra i primi cinque esseri umani per cui valga la pena vivere. Ho pensato che avrei anche potuto confessare a Pietro, così su due piedi, che un paio d’anni fa ho preso una settimana di ferie per vedermi l’integrale dei film di Kaurismäki qui a Parigi, che ho pianto tutta una sera quando ho saputo che Matti Pellonpää era morto e che ho una cartolina di Télérama attaccata al computer con la didascalia “Aki Kaurismaki tra due camerieri del Grand Hotel di Cannes” ma che in realtà uno dei due camerieri è Timo Salminen, il suo storico direttore della fotografia. E che ho il forte sospetto di essere l’unica al mondo ad averlo notato (forse l’unica no, immagino che anche Salminen e la moglie se ne siano accorti). Insomma, particolari inquietanti che di solito evito accuratamente di esternare dopo il primo quarto d’ora che conosco qualcuno per paura di essere considerata una pazza completa, qui sentivo di poterli divulgare in assoluta tranquillità.

Ve l’ho detto, e ve lo ripeto, il cinema accomuna.
E così, dopo il regista finlandese, siamo passati agli altri dèi del nostro pantheon cinematografico: Terence Davies, Aleksandr Sokurov, Andrei Tarkosvky, Ingmar Bergman, i registi della Nouvelle Vague, quelli del Free Cinema inglese, Pedro Costa e gli altri portoghesi, Mike Leigh, per poi discutere di cinema americano che entrambi amiamo molto meno di quello europeo, ed infine arenarci su David Cronenberg, per cui io tifo ma lui no.
Sono rimasta sconvolta nel sentire con quali pochi soldi è riuscito a fare i suoi documentari, un po’ meno nell'apprendere che non ha nessuna intenzione di chiederne al Ministero per fare il suo prossimo film (questa volta di pura finzione, e non vediamo l’ora!).
E mi ha lasciato senza parole raccontandomi di aver trovato casa ad Arturo, il protagonista del Passaggio della linea, che passava la sua vita sui treni. Dal momento che mi affeziono ai protagonisti dei film come a dei parenti, è stato come se mi avesse detto di aver trovato casa a mio nonno. Sacré Pietro!, come direbbero i francesi.
E Sacré Rencontre!, aggiunge la blogger.

Quando Pietro ha tirato fuori un pacchetto delle sue sigarette, l'ho guardato stranita: mai viste prima.
Mi ha spiegato che erano "quelle del Monopolio", le 3 Stelle.
Non ho potuto fare a meno di pensare alle tabelle dei critici cinematografici, quelle dove si mettono le stelline per indicare l'indice di gradimento dei film, e che di solito vanno da uno (non vale la pena di scomodarsi) a cinque (capolavoro da non perdere).
Ecco, io a questa storia vera che sembra un film darei un voto alto... se non vi dispiace!
Zazie

p. s. Un grazie a Roberto Dulio, detto anche "il Richard Avedon de noantri", per la Hipstamatic super cool scattata a Pietro e Zazie! Fossi in te, caro Roberto, lascerei il ramo architettura e mi consacrerei alla fotografia...

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