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sabato 27 maggio 2017

Cannes a Paris - Giorno 2

Secondo giorno ed altri 3 film in programma per la vostra impavida blogger divoratrice di pellicola.  
A questo punto, la Sala 1 del Gaumont Pathé di Boulevard des Capucines è diventata una seconda casa, e ci si riconosce un po' tutti, anche se non si socializza, perché siamo a Parigi e di socializzare nessuno ha la minima intenzione. E vabbè... 
E dunque oggi ho visto:
Hikari di Naomi Kawase (Giappone)

Regista giapponese spesso presente al Festival di Cannes, Naomi Kawase è stata invitata in competizione anche quest’anno con Hikari (Luce). Storia dell’incontro tra un fotografo che ha perso quasi totalmente la vista e una ragazza che sta traducendo in parole un film per un pubblico di non vedenti. 
Ero felicissima di questa visione sia perché avevo trovato delizioso l’ultimo film della Kawase (An - Le ricette della Signora Toku), sia perché – come è noto – basta la parola Giappone ad illuminarmi la giornata.
Hikari, purtroppo, è un’opera non riuscita, a causa di una sceneggiatura zoppicante e troppo altalenante. Momenti davvero bellissimi ed intensi si alternano infatti a scene pericolosamente sentimentali, e sotto questo aspetto l'onnipresente musica di Ibrahim Maalouf spesso peggiora anziché migliorare le cose.
Peccato, perché Hikari è una riflessione molto interessante sul potere delle immagini e delle parole, sul senso stesso del cinema e sul suo valore nelle nostre vite.
La Kawase ha la straordinaria capacità di catturare la luce del sole, farla entrare in una scena e rendere quel momento prezioso e magico, e anche di far leggere come una mappa i volti dei suoi attori, che filma da vicinissimo, come a volerne cogliere l’essenza (ritroviamo qui il bravissimo Masatoshi Nagase, già protagonista di An, nonché poeta vagamente beat in Paterson di Jim Jarmusch).
Insomma un vero peccato.
Ad un certo punto qualcuno dice, nel film: Non c’è niente di più bello di quello che abbiamo davanti agli occhi e che è destinato a sparire.
Ditemi voi se il cinema non è proprio questa cosa qui!

Happy End di Michael Haneke (France)
Dite la verità: la vostra blogger di riferimento riesce sempre a stupirvi.
Ma come? Da anni scrive peste e corna sul cinema di Michael Haneke e poi va addirittura a vedere un suo film in anteprima? Ebbene sì, ma c’era una ragione ben precisa: il desiderio di poterne parlare male senza ritegno.
A questo giro, però, il nostro Haneke non ci dà neppure troppa soddisfazione.
Tanto ha fatto e tanto ha detto che con Happy End (apprezzate l’ironia del titolo) si è dato la zappa sui piedi da solo: questo film non è piaciuto a nessuno, talmente era trito e ritrito. 

Di grandi novità, in effetti, non ce n’erano. Trattasi del solito film in cui Haneke ci spiega che l’umanità fa schifo, la vita è orrenda e le famiglie sono il covo delle peggiori nefandezze. Qui non si salva proprio nessuno: dai 13 agli 85 anni, allegria e felicità distribuita in parti uguali (i più contenti non vedono l’ora di suicidarsi, per dire). Unico tocco in più: l’aggiunta di alcune figure di immigranti. Forse Haneke voleva stare al passo con i tempi, ma la cosa è talmente posticcia da risultare ridicola.
Il film è sopportabile solo ed esclusivamente per la presenza di Jean-Louis Trintignant (ah, quella voce!) e di Mathieu Kassovitz (dite quello che volete ma Kassovitz negli ultimi anni sta diventando sempre più bravo). 
A Isabelle Huppert invece vorrei fare un appello personale: Basta, la prego! Dica no al prossimo ruolo da antipatica-anaffettiva-ricca-stronza che le propongono. Dica sì ad una bella commedia di quelle stupide dall’incasso facile dove l’unica sfida sarà quella di fare un bel sorriso amabile e sincero davanti alla telecamera. 
Lo so, una prova durissima, ma lei è talmente brava che - ne sono certa - riuscirà a stupirci!

120 Battements par minute di Robin Campillo (France)
Uno dei film più attesi sulla Croisette e anche qui a Parigi (i biglietti sono andati esauriti in un attimo). Il nuovo lavoro di Campillo, il regista di Eastern Boys, racconta le lotte dell’associazione Act Up Paris nel corso degli anni ’90 per sensibilizzare l’opinione pubblica e il governo sull’epidemia dell’AIDS, che all’epoca stava facendo migliaia di morti. Famosi per i loro blitz contro le case farmaceutiche con spargimento di (finto) sangue infetto e per alcune dimostrazioni plateali nelle piazze e nelle scuole, il film segue un gruppo di attivisti (gay, lesbiche ma anche una mamma con un figlio emofiliaco diventato sieropositivo a causa di una trasfusione) nelle loro vite quotidiane. Gli incontri dell’associazione per stabilire nuove strategie e nuovi obiettivi, la preparazione e l’attuazione dei famosi blitz ma anche la nascita di amicizie e amori, di conflitti, momenti allegri (la discoteca, il gay pride), momenti super intensi (le scene di sesso sono stupende) e momenti terribili, quelli in cui la malattia prende il sopravvento e non dà scampo ad alcuni di loro.
Film così se ne vedono pochi: 120 Battements par minute (sono i battiti della musica disco) è compatto, asciutto, con bellissime idee di regia, una resa perfetta di ambienti e di personaggi, mostrati con tutte le loro contraddizioni e nella loro assoluta umanità. Ma è soprattutto un film che ti fa capire la forza e il coraggio con cui questo gruppo di giovani ha urlato forte contro tutto e tutti il loro desiderio di non voler morire. Il cast è notevolissimo: degli attori le cui facce ci farebbe piacere rivedere presto, con menzione speciale per il franco-argentino Nahuel Pérez Biscayart.
Alla fine della proiezione, in sala è scoppiato un applauso sincero e carico di emozione.
Uno di quei momenti in cui capisci la differenza fondamentale che esiste tra il guardare un film seduto sul divano di casa tua piuttosto che seduto al cinema, in mezzo ad altri essere umani che, come te, hanno appena smesso di piangere su Smalltown Boy dei Bronsky Beat.

Avevo una gran voglia di filmare la scena e mandarla ad Haneke: guarda che forse, per gli esseri umani, c'è ancora speranza.

mercoledì 7 ottobre 2009

C'est la Rentrée! - 3° Film


Se è vero che i film che mi piacciono di più sono quelli che mi restano in testa più a lungo, ecco a voi un film visto un mese fa e che ancora se ne sta in cima ai miei pensieri.
Vincitore del Gran Premio della Giuria all'ultimo Festival di Cannes (ma la Palma d'Oro, no?), Un Prophète è opera di Jacques Audiard, che dal 1994 ad oggi ha saputo imporsi come uno dei nuovi grandi registi francesi.
Dopo aver esordito con Regarde les hommes tomber e Un Héros très discret (entrambi con protagonista Mathieu Kassovitz, più conosciuto al pubblico per essere il regista di La Haine, L'Odio, e l'innamorato di Amélie Poulain), Audiard ha rasentato il sublime con i suoi ultimi tre film: Sur mes lèvres (Sulle mie labbra), De battre mon coeur s'est arreté (Tutti i battiti del mio cuore) e il film di cui vi sto parlando.
La storia di Un Prophète è molto semplice: Malik, un giovane arabo, povero e analfabeta, finisce in carcere con una pena di sei anni da scontare. A pochi giorni dal suo arrivo, viene avvicinato da César Luciani, l'anziano capo di una banda di corsi mafiosi che è il re della prigione. E' infatti a lui che tutti, incarcerati e secondini, obbediscono senza fiatare, pena l'essere barbaramente picchiati e in alcuni casi uccisi. Malik, dopo una prima, terribile prova per conquistarsi la fiducia dei corsi, entra a far parte a poco a poco del loro gruppo. Il suo è un cambiamento radicale: da impacciato e quasi timido, il ragazzo si trasforma in un duro quasi spietato. Impara a leggere, impara addirittura il corso e diventa in breve, grazie alla sua furbizia e alla sua intelligenza, il braccio destro di Luciani. Quando ottiene i primi permessi di libertà vigilata, continua a "lavorare" per lui in città. E infine, alleandosi alla comunità araba e da sempre contraria allo strapotere dei corsi, Malik riesce nell'incredibile impresa di fare il vuoto intorno a Luciani e sovvertire i giochi di potere all'interno del carcere.
Il cinema, vivaddio, ha ancora la capacità di sorprendermi come poche cose al mondo.
Se qualcuno m'avesse raccontato la trama di questo film senza dirmi chi stava dietro la macchina da presa, francamente, non ci sarei andata, a vederlo. Chi potrebbe mai aver voglia di sorbirsi un film iper-violento e iper-cupo TUTTO ambientato tra le mura di un carcere? Di sicuro non io. Eppure, questo film è esattamente il contrario di quello che ti aspetti. E' soprattutto un racconto di formazione, in cui assisti (e partecipi, perché la vivi con lui) alla trasformazione di un ragazzo che non può contare nemmeno su se stesso (è arabo e analfabeta, dove volete che vada?) in un uomo che ha imparato i codici così bene da saperli non solo usare ma servirsene per fregare chi glieli ha insegnati. E' una storia di conquista ma anche di crescita, di presa di coscienza del mondo, di scoperta dell'amicizia, del potere e del valore della morte, e della sensazione di beatitudine che ti può dare quello che sai fare bene (anche se quello che sai fare bene è fregare gli altri e uccidere).
Tutto questo non sarebbe stato minimamente possibile senza la presenza di un attore che per oltre due ore porta sulle proprie spalle il senso e il peso di Un prophète: Tahar Rahim, 28 anni, e un futuro radioso che lo attende. Ma i membri della giuria dell'ultimo festival di Cannes che problemi gravi devono aver avuto per non premiarlo?
La sua interpretazione è un work in progress proprio come il suo personaggio: all'inizio quasi animalesca, dove quello che sente te lo trasmette con il corpo e con lo sguardo (lo spavento in quei due occhi da bestiola intrappolata che ti fanno stare male solo a intravederli), e poi mano a mano si fa più sottile, parlata, raffinata. Il momento in cui Malik si butta nella macchina dopo aver sparato a degli uomini per strada è da brividi: l'estasi nel suo sguardo, quel mezzo sorriso che sale da una consapevolezza appena accertata, quel suo capire di essere la persona giusta al momento giusto, e forse anche il potere futuro che gli passa davanti in corsa.
E una menzione speciale, davvero non si può non citarlo, a Niels Arestrup, classe 1949, che nel film interpreta Luciani. Di un carisma e di una bravura senza pari (già lo aveva dimostrato nel ruolo del padre disgraziato di Roman Duris in De battre mon coeur s'est arreté). 
Ma, evidentemente, il merito di questa meraviglia va soprattutto a Jacques Audiard, che è una specie di Scorsese dei francesi, con quell'european touch in più che fa tutta la differenza. Perché Audiard non solo è un mago della macchina della presa, non solo ha una giustezza e una maestria nelle inquadrature che tutti i futuri registi di questo mondo dovrebbero studiare, ma alla perfezione stilistica aggiunge una profondità di sguardo e un'umanità straziante che lascia il segno su chiunque. In questo film, poi, si spinge ancora più in là: aggiunge un elemento metafisico, onirico, che all'inizio ti chiedi se sei tu che non ci vedi bene e fai fatica a cogliere e capire, e che poi diventa parte integrante del film, al punto che non te ne accorgi più e lo hai già digerito, e lo stai amando, e non puoi farne a meno.
E ti rendi conto che la magia del film sta proprio lì, nella commistione di questi due piani, due letture, due mondi, che si fondono insieme. 
E' buffo, ho parlato con tante persone di Un Prophète, e ho notato una cosa molto interessante: gli uomini hanno odiato l'inserimento di questo elemento metafisico, mentre alle donne è piaciuto moltissimo.
Che si fa? S'apre il dibattito?
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