martedì 15 settembre 2020

Zazie dans le théâtre

Devo confessarlo: non ho mai particolarmente amato il teatro.
Troppo reale, per i miei gusti. Vuoi mettere lo schermo buio e il salto in un altro mondo, in un’altra vita, che il cinema ti può regalare?
Però, per assurdo, è stato il cinema che mi ha portato più spesso a teatro.
Nel senso che ci sono sempre andata per veder recitare i miei attori cinematografici preferiti. Perché quasi tutti, lo ammetto, è da lì, che arrivano.
Negli anni ho accumulato ricordi bellissimi che oggi, nell’era di questo stramaladetto virus, brillano ai miei occhi di una luce speciale: oh, stare seduta in un teatro accanto ad altri esseri umani, oh, poter applaudire, scoppiare a ridere o a piangere tutti insieme, oh, aspettare allo stage door il tuo attore preferito nella speranza che ti faccia un autografo o scatti una foto con te.
Insomma tutte quelle piccole cose meravigliose che oggi non si possono avere.
Il mio più grande cruccio è stato quello di non essere riuscita a vedere Daniel Day Lewis quando ancora recitava a teatro. L’ultima volta è stato per un Hamlet al National Theatre di Londra nel 1989: una sera, nella scena in cui appare ad Amleto il fantasma del padre, a Day Lewis è apparso il fantasma del suo, di padre (il poeta irlandese Cecil Day Lewis). Risultato: il nostro DDL ha piantato la rappresentazione a metà e non ha mai più messo piede su un palco. Oggi minaccia di non mettere mai più piede nemmeno su un set. Vedi a volte le crudeltà della vita.

Con gli altri miei attori preferiti sono stata più fortunata.
Nel 2000, ad esempio, sono stata a Broadway a vedere Gabriel Byrne recitare in una pièce di Eugene O’Neill, A moon for the misbegotten, ed è stata una cosa indimenticabile. Con lui recitava un’attrice straordinaria, Cherry Jones, oggi piuttosto famosa grazie al piccolo schermo (è la mamma di Elisabeth Moss in The Handmaid’s Tale, per dirne una). Ho fatto stage door e sono riuscita a parlare con Byrne, un signore gentilissimo (e bellissimo!) che mi ha pure fatto l’autografo (i tempi del selfie erano ancora di là da venire).

Ma è stata Londra la città che mi ha dato le più grandi soddisfazioni.
Un paio di volte sono stata a vedere Ralph Fiennes, a teatro. La prima in una pièce di Henrik Ibsen (Brand) durante la quale ho seriamente temuto di morire di inedia e di noia (Ibsen è peggio di Bergman in quanto a pessimismo cosmico e calvinismo spinto) e la seconda in The Tempest di Shakespeare, e quella volta è andata decisamente meglio.

In ogni caso, l’attore che ho visto più spesso a teatro, ma tu pensa che strano, è Jeremy Irons. L’ho visto recitare in un evento storico, il suo ritorno sulle scene dopo 18 anni di assenza, in Embers di Christopher Hampton (tratto dal romanzo di Sandor Marai), al Duke of York Theatre. Era l’ormai lontano 2006. All’epoca ancora non lo conoscevo di persona, ero stata ad una matinée e avevo aspettato per più di un’ora fuori dal teatro nella vana speranza di vederlo comparire. Niente. 

Mi sono rifatta con gli altri due spettacoli a cui ho assistito: uno è stato (nel 2010) l’incredibile The God’s Weep di Dennis Kelly all’Hampstead Theatre, sorta di moderno King Lear nella quale Irons per 3 ore mesmerizzava l’audience con una performance fisicamente e psicologicamente provante, e l’altro il classico A long day’s journey into night di O’Neill al Wyndham theatre, in pieno West End londinese, un paio d’anni fa. Anche in questo caso si trattava di una matinée, ma qui mi ero fatta furba, il giorno prima lo avevo avvertito che ci sarei andata e quando ho bussato alla stage door e un signore è venuto ad aprirmi, gli ho detto che Mr. Irons mi stava aspettando. Lui mi ha guardato dubbioso, anzi diciamo pure molto dubbioso, ma ha preso lo stesso il mio nome ed è andato ad informarsi. Quando è tornato, mi ha sorriso e mi ha fatto passare. Le confermo che la sta aspettando, mi ha detto.  Solo questo episodio avrebbe meritato un post, ammettetelo!

Il mio ultimo attore preferito in ordine di tempo, come certo saprete (ho l’inconfondibile vizio di far partecipi le persone delle mie ossessioni), è l’irlandese Andrew Scott. Anche nel suo caso ho un grande cruccio: ricordo ancora come fosse ieri di essere passata davanti all’Almeida Theatre nel 2017 ed essermi detta che dovevo assolutamente andare a vedere il suo Hamlet. Ero a Londra per lavoro e la pièce durava quasi 4 ore. Mi sono scoraggiata e ho lasciato perdere. Ancora oggi non me lo perdono.
Così, quando l’anno scorso, in pieno delirio Fleabag, l’Old Vic ha annunciato una nuova produzione di Present Laughter di Noël Coward con Andrew Scott nel ruolo di Garry Essendine, il protagonista, non me lo sono fatto ripetere due volte e ho comprato subito un biglietto. Nello spettacolo Scott era in grado di generare fragorose risate nel pubblico ad un ritmo forsennato, e baciava con la stessa giubilatoria passione uomini e donne indistintamente, lasciando noi povere fanciulle nella transitoria speranza che questa benedetta bisessualità potesse per osmosi traslare nella sua vita reale. Ahimé, invano.  

Alla fine della rappresentazione, mi sono messa pazientemente in fila, insieme ad un gruppo foltissimo di ragazze, davanti alla fatidica stage door. Metà delle fanciulle erano fans di Moriarty e metà dell’Hot Priest. Io di entrambi, ma più del secondo. L’età media era chiaramente 20 - 25 anni al massimo. Che cosa ci facessi lì io, senza cena, al freddo, con il doppio dei loro anni, in attesa di un attore dichiaratamente gay, è un mistero pari a quello non svelato di Fatima. E chi sono io per rivelarlo, direte voi. E infatti. Quando è arrivato il mio turno, Scott mi ha spiazzato parlando lui per primo: Wow, you look so stylish! (in effetti avevo un vestitino vintage giallo veramente niente male, ero strafelice del complimento ma anche atterrita dal fatto che quella fosse la prova incontrovertibile della sua gaytudine… quale etero al mondo avrebbe degnato quel vestito di uno sguardo?!). La sua frase è bastata a farmi perdere la testa, tutte le cose belle e intelligenti che avevo pensato di dirgli sono sparite dalla mia mente tipo lavagnetta magica e l’unica cosa che mi ricordo è che abbiamo fatto insieme questa foto qui (nella quale tutto sommato sembra che io sia ancora in possesso delle mie facoltà mentali, cosa della quale dubito fortemente): 

In questo 2020 annus horribilis per cinema e teatro, prima dell’estate è arrivata una notizia portentosa: The Old Vic proponeva una serie di spettacoli teatrali virtuali che si potevano tranquillamente seguire sullo schermo del proprio computer. Tra questi, un nuovo lavoro con protagonista assoluto Andrew Scott, in una pièce in 3 atti scritta apposta per lui dal drammaturgo inglese Stephen Beresford (sceneggiatore del film Pride nonché compagno di Scott in un recente passato… certa gente ha proprio tutte le fortune) dal titolo Three Kings. Lo spettacolo era previsto per l’inizio di agosto ma, pochi giorni prima della rappresentazione, il teatro ha inviato un messaggio per avvertire che sarebbe stato posticipato a data da destinarsi: Scott doveva fare una piccola operazione (ci rassicuravano sul fatto che si trattasse di una cosa non seria e che nulla avesse a che vedere con il Covid) e quindi bisognava dargli il tempo di riprendersi. Non vi dico la preoccupazione delle fans, lo so perché su FB sono iscritta a qualsiasi gruppo che abbia Scott nel nome, e c’era gente che diceva di non riuscire a dormire perché troppo in ansia per la salute del nostro idolo. Ammetto con un certo sollievo di non essere arrivata a tanto. Mi spiaceva molto per lui ma ho continuato a dormire sonni tranquilli (anche perché è rassicurante sapere che in giro c’è gente mooolto più pazza di te, che già pensavi di esserti piazzata bene in classifica).
Lo spettacolo, alla fine, è stato riconfermato agli inizi di Settembre. Per cui qualche giorno fa io e la mia amica Giulia, con la quale condivido questa insana passione per gli hot priests, eravamo davanti al mio computer di casa in trepidante attesa. 

Ad essere sincera, non sapevo bene che cosa aspettarmi da uno spettacolo virtuale e temevo un po’ sia la freddezza del mezzo che lo straniamento della situazione. E invece, niente di tutto questo.
Per prima cosa, dopo esserci collegate al sito del teatro via zoom, ci siamo rese conto che si sentiva un simpatico sottofondo: proprio come quando si è a teatro in attesa che inizi lo spettacolo, si sentiva il brusio delle gente che chiacchierava, un effetto molto rassicurante. Ad un certo punto, a circa 15 minuti dall’inizio della rappresentazione, si è sentito un campanello e poi la voce di una donna che invitava i signori e le signore a prendere posto perché lo spettacolo stava per cominciare. Insomma hanno cercato in tutti i modi di ricreare un vero teatro, e la sensazione era piacevolessima.
Quando Scott è comparso nella sala vuota, solo, leggermente al buio, la magia ha operato immediatamente. Storia di un padre poco amorevole, inaffidabile, incapace di essere presente nella vita dei figli, pieno di donne e concentrato solo su se stesso, Three Kings è raccontato da uno dei suoi figli, Patrick, in tre scene successive, e in tre momenti diversi della sua vita. Nello spazio di un'ora, Scott interpreta un bambino di 8 anni, un adolescente, un adulto sconsolato, un padre, due figli, varie donne, e passa dalla serietà al cinismo al riso al pianto con una bravura che lascia letteralmente senza fiato. Far piangere attraverso lo schermo di un computer non è da tutti, ma lui ci riesce senza nessun problema, e possiamo testimoniarlo in due. 
Insomma ci sono giorni in cui arrivo a pensare che in fondo vedere una pièce non sia così male! Però, certo, se mi chiedete qual è stata la più grande emozione che ho provato a teatro, vi devo sinceramente rispondere che non è stata proprio dentro una sala ma piuttosto appena fuori. Quella volta in cui all'Hampstead Theatre io e Jeremy Irons (ve l'avevo detto che ero stata ampiamente ripagata da quella prima vana attesa!) ci siamo seduti a parlare su una panchina che avevamo letteralmente rubato nella hall e piazzato fuori dalla porta, perché lui potesse fumare. Il teatro dietro di noi era ormai al buio e si sentivano solo le nostre voci e io non riuscivo a credere che fossimo lì a chiacchierare del più o del meno come se nulla fosse. Ogni tanto uno degli altri attori partiva e noi lo salutavamo da lontano, con le voci che scomparivano nel bellissimo silenzio del parco lì davanti. E per quanto mi sforzassi di ricordare che fossimo a teatro, la verità è che a me sembrava proprio di stare in un film.

 

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