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venerdì 28 aprile 2017

Booklover

In queste ultime settimane ho rinnovato un po' il mio appartamento (principale motivo per cui sono andata poco al cinema e ho scritto pochino sul blog).
Nessun grande lavoro, ma piccole cose che ne hanno migliorato decisamente l'aspetto. Ultima in ordine di tempo: nel week-end, grazie all'aiuto di alcuni simpatici (e aitanti) amici, ho riempito una parete intera di librerie (che qui in Francia si chiamano Bibliothèques, cosa che mi fa sempre un po' ridere perché mi immagino dei posti enormi anziché dei semplici scaffali).
In pratica, non ho fatto altro che tenere tra le mani i miei libri per due giorni.
Prima li ho tolti e li ho impilati a casaccio sul pavimento (quando li ho visti così distesi  tutti insieme mi è preso un colpo!) e poi ho dovuto trovare loro un posto ben preciso nelle nuove librerie, lavoro faticosissimo ma estremamente interessante.
Mi sono resa conto che attraverso quei volumi potevo tranquillamente ricostruire tutta la mia vita. 
So che ognuno ha il suo personale sistema di catalogazione: per editore, colore dei libri, autore, argomento ecc. ecc.
Io sono piuttosto per un rangement a tema.
Temi che nel mio caso sono (praticamente da sempre): Giappone (con una quantità inquietante di romanzi di Haruki Murakami nelle sempre strabilianti traduzioni di Giorgio Amitrano), letteratura italiana contemporanea, libri di moda (rigorosamente vintage), libri sul design degli anni '50, letteratura inglese e americana (sezione in lingua originale, sezione tradotta), libri illustrati (tutta Beatrice Alemagna, tutto Pascal Blanchet), libri di poesia, libri francesi, libri di cucina, guide illustrate dei posti che preferisco al mondo, libri su Parigi, libri di fotografia, qualche libro di architettura (ma pochini eh), quasi nessun libro d'arte (lo so, è un mio grave problema) e, dulcis in fundo, tanti, tanti, tanti libri sul cinema.
Tralascerò il fatto che a Milano, a casa di uno zio con un po’ di spazio, ho lasciato almeno altri 15 scatoloni di libri, ma anche quelli potrebbero rientrare nelle stesse categorie: è da tanto tempo che mi piacciono le stesse cose.
In effetti uno degli aspetti più sconcertanti di fare questo lavoro è rendersi conto di quanto poco, in fondo, si è cambiati da quando si avevano 15 anni. 

Ho scoperto di avere un intero scaffale dedicato a Virginia Woolf e ai suoi amici di Bloosmbury, ad esempio. Vai a capire perché, ho sviluppato una specie di ossessione per questo gruppo di intellettuali inglesi che nella vita andavano a letto tra di loro in combinazioni piuttosto interessanti, vivevano in case di campagna nel Sussex, dipingevano, scrivevano, erano pacifisti e amavano occuparsi del giardino. Ovviamente sono anche andata a visitare tutte le loro case, e ne ho già scritto nel blog, vi ricordate
Monk's House - La casa di Virginia Woolf nel Sussex

Un’altra mia grande passione è quella dei libri Penguin (per me Penguin sta ai libri come Criterion sta ai DVD, ovvero sono il meglio che puoi trovare al mondo, sia dal punto di vista della qualità che della grafica). Letteralmente stravedo per le loro vecchie edizioni. Posso restare interi minuti in religioso raccoglimento di fronte alle copertine delle raccolte di poesia degli anni ’50-’60. Lì siamo nel campo del sublime:

Nei reparto italiano, libri di mio fratello Matteo B Bianchi a parte, mi ha impressionato favorevolmente constatare di quanti scrittori sono amica. Essere circondati dai libri degli amici è una cosa meravigliosa, e quindi dico grazie in ordine alfabetico a: Paola Calvetti, Carolina Cutolo, Diego De Silva, Marco Drago, Matteo Galiazzo, Fabio Genovesi, Lisa Ginzburg, Antonella Lattanzi, Marco Mancassola, Antonio Monda, Francesco Pacifico, Giuseppe Rizzo. 
Grazie amici di essere così talentuosi!
Quelli sul cinema, che ve lo dico a fare, riempiono da soli metà libreria.
C’è il reparto chiamato Tutto Truffaut, perché contiene solo ed esclusivamente libri su di lui, tra i quali spicca la Bibbia, ovvero la sua biografia scritta da Antoine De Baecque e Serge Toubiana (ecco, se qualcuno a 15 anni m’avesse detto che un giorno avrei vissuto a Parigi, avrei conosciuto Toubiana e avrei amabilmente chiacchierato con lui di cinema tutte le volte che lo incrociavo alla Cinémathèque Française, penso che non ci avrei creduto o che mi sarebbe venuto un colpo).  

C’è lo scaffale con i cataloghi di tutte le ultime mostre della Cinémathèque, giustappunto, e quello con i volumi dedicati ai registi che amo: Demy, Tati, Eustache, Antonioni, Scorsese, Allen, Kaurismäki, Lars Von Trier, Wong Kar-Wai (e pure due-tre libri SOLO su In the Mood for Love) ecc. ecc. 
C’è un libro enorme su Wes Anderson con una sua dedica che non scorderò mai (anche perché porta la data del 13 Novembre 2015: me l’ha scritta poche ore prima degli attentati di Parigi).
E poi ci sono cose che solo io potrei avere.
Tipo questo libro che adoro e per il quale mi chiedo sempre: ma chi diamine potrebbe averlo mai comprato, a parte me??? Il titolo è British Cinema and Thatcherism…. 

Non chiedetemi perché ma mi mette di buon umore tutte le volte che lo guardo, forse perché grazie al loro odio nei confronti della Tatcher i registi inglesi hanno fatto dei film bellissimi, negli anni '80:
Comunque, dopo tutto, non devo essere stata l’unica ad averlo comprato, perché mi sono appena resa conto che ne hanno fatto una seconda edizione, mettendoci pure in copertina uno dei miei film preferiti di tutti i tempi: My Beautiful Laundrette di Stephen Frears. Toccherà comprare anche quest'altro, ovvio!

E poi volumi sul Free Cinema inglese, sulla televisione britannica (che le serie le sfornava già negli anni ’60), un libro meraviglioso du Six Feet Under, una serie infinita di libri su Mad Men e il mitico libretto per “colorare” Ryan Gosling (che noi in La La Land ci abbiamo sempre vissuto, modestamente):
Certo, a volte ci sono anche delle brutte sorprese, mettendo a posto i libri.
Un volume da cui salta fuori un biglietto che avevamo dimenticato, ad esempio. 

Con dentro una frase qualsiasi che però nasconde un intero mondo che non esiste più, e capire la distanza tra quella me stessa e quella di oggi è piuttosto impressionante. 
La tristezza, per fortuna, è passeggera, e riguarda soprattutto il fatto che nessuno oggi potrebbe lasciarmi un biglietto simile. Ma ormai la lezione l’abbiamo imparata. Una persona, come un libro, è meglio non giudicarla mai dalla copertina.
In ogni caso, alla fine, il risultato dell'immane lavoro è stato questo qua (sì, lo so, ci sono due librerie completamente storte, però non è colpa mia se a Montmartre i pavimenti non sono dritti e se a quel punto non c'era nessuno che poteva aiutarmi! E poi per distrarvi da quel particolare, buttate un occhio al mio Mad Men Bar in primo piano):
Mica male, no?

lunedì 16 febbraio 2015

Here Comes the Sun

La cosa che mi riempie più di gioia nella vita, a parte andare al cinema e raccontarvelo in questo blog, sono i miei amici. 
Perché io devo dire che sono proprio brava a scegliermi come amici delle persone belle dentro (e spesso pure fuori!), creative, simpatiche, gentili, e davvero speciali. 
Ora, succede che ho tanti amici che sono anche talentuosi, e pure in campo cinematografico.
Nel corso degli anni, se vi ricordate, ho scritto diversi post su alcuni di loro e sui loro lavori.
Un'altra cosa che mi succede spesso, è di andare pazza per i fidanzati e i mariti delle mie amiche. 
No, non è quello che state pensando: è semplicemente che sono felice di sapere che delle donne fantastiche si accompagnino a uomini altrettanto fantastici.
Un classico esempio è il marito della mia amica Linda, che si chiama Gaetano.
Ecco, lui proprio è nel campo del meraviglioso. E questo lo dichiaro spesso davanti ad entrambi, che hanno la pazienza di sopportare le mie numerose visite a casa loro, ad Amsterdam. Il cocktail Linda&Gaetano&Moneypenny (la loro irresistibile cagnetta dal nome Bondiano) + The Eye museo del cinema è infatti per me assolutamente irresistibile.
Nella vita, Gaetano (e Linda) sono dei linguisti. Gente seria con due o tre dottorati alle spalle che fanno ricerca su cose che io non riesco a capire neanche se me le spiegano con il pallottoliere. Tutti e due sono pieni di altri interessi e ogni tanto mi sorprendono con le cose più strane, tipo corsi di kundalini yoga o composizioni di musica elettronica alternativissima.
La settimana scorsa, Gaetano ha pubblicato sulla sua pagina Facebook il suo terzo film d'animazione. 
La cosa che mi fa impazzire, è che lui non ha mai fatto una scuola, un corso, una lezione per imparare a fare delle cose così. No, si è messo lì nel tempo libero e con delle matite prima e con dei colori a china poi, ha creato tre piccoli lavori davvero deliziosi.
Il primo (Brucaliffo) è un vero e proprio tentativo, brevissimo e tenero, il secondo (The Unknown Man) è un'idea tanto semplice quanto geniale (e pare ci sarà un seguito...), ed il terzo (Rembrandt Park) una piccola oasi di pace con un tocco finale alla Jacques Tati (quelle lucine che si illuminano sui palazzi come in Tativille!)
Anche le scelte musicali che accompagnano questi piccoli film sono molto azzeccate, come Autumn Leaves di Joseph Kosma per The Unknown Man o un pezzo di Alva Noto e Ryuichi Sakamoto, Vrioon, per Rembrandt Park.
Io ho visto i film di Gaetano in una giornata buia, fredda e grigia dove tutto sembrava andare storto, e all'improvviso è stato come se fosse spuntato il sole.
Eccolo qui: 


The Unknown Man from Gaetano Fiorin on Vimeo.

Rembrandtpark (3 easy pieces) from Gaetano Fiorin on Vimeo.

mercoledì 21 novembre 2012

Playtime

Pensate che il cinema sia completamente inutile nella vita di tutti i giorni?
Che non vi possa servire nelle cose pratiche? Per risolvere un problema? Far svoltare una serata? Ebbene no, cari lettori, il cinema serve sempre, anche per decidere dove andare a cena. 

Zazie, ad esempio, vive in una città con un numero così alto di ristoranti da far girare la testa. Scartando quelli troppo cari, o quelli troppo lontani da dove si abita e si lavora, ne restano talmente tanti che certe volte è persino scoraggiante doverli scegliere. Ecco che, in questi casi, il cinema viene in aiuto.
La settimana scorsa, un paio di miei amici volevano portarmi fuori a cena per dimenticare il brutto incidente che mi era capitato. Dove? Mi sono fatta guidare dall'unico criterio dal quale mi faccio guidare nella vita: ha a che fare con un film? Allora lo prendo, grazie! Da tempo volevo provare questo ristorante che porta il nome di uno dei miei film preferiti di tutti i tempi: Playtime di Jacques Tati. Detto, fatto. 

 
Playtime fa parte di una categoria di film a cui sono molto affezionata: quella degli anti-depressivi naturali. Quei film cioé che non importa quanto tu ti senta giù di morale e ti pare che la tua vita non abbia più senso, basta che li rivedi, e il mondo ti sorride di nuovo.
Tati ha iniziato a girare Playtime nel 1964, ma il film è uscito nelle sale solo nel 1967. Più che un semplice tournage, il film si è rivelato una grande, rovinosa avventura, per il regista. Dopo che si era reso conto, avendo cercato di girare per una settimana nella zona dell’aeroporto di Orly, che sarebbe stato impossibile avere il set da lui immaginato in un ambiente naturale, Tati ha fatto costruire in un’area di 15.000 m2 appena fuori Parigi, una vera e propria città (ispirata alla capitale francese così come a tutte le altre capitali moderne), dal nome sibillino Tativille. Inoltre, il regista decide di girare il film in 70 mm (unico caso nella storia del cinema francese), e questo per riuscire a rendere visivamente la grandezza degli edifici e degli spazi presenti nel film (tecnica tuttavia molto costosa). Alla sua uscita nelle sale, Playtime viene accolto malissimo. I critici, tranne alcune eccezioni, non lo capiscono, e il pubblico, che vuole vedere un film di Tati solo per ridere a crepapelle, rimane perplesso di fronte alla storia raccontata. Tutto questo, unito ai problemi di budget già nati in corso di realizzazione, farà fallire la casa di produzione del regista: Tati è costretto a vendere la propria casa (quella in cui vive, intendo), perde i diritti su tutti i suoi film e vede sfumare il sogno di conservare Tativille per le generazioni di futuri registi. Prima di morire, nel 1982, farà altri due film: Trafic e Parade, ma niente sembra poterlo consolare dal dolore per il "disastro" Playtime
Oggi, per fortuna e giustamente, questo film viene considerato un capolavoro assoluto del cinema mondiale. 
Monsieur Hulot, alter ego del regista, figura tenerissima di spilungone allampanato dall'eterno look cappello+impermeabile+ombrello, si aggira sperduto per la città. Ha un semplice appuntamento di lavoro, ma raggiungere l'ufficio dove lo aspettano sembra un'impresa più che titanica. Sul suo cammino incrocia una comitiva di turisti americani sperduta quanto lui. Quando finalmente riesce ad arrivare a casa, sembra riuscire a perdersi anche negli appartamenti tutti uguali del palazzo in cui vive. Senza parlare della cena nel ristorante super chic appena finito di sistemare e nel quale tutto sembra essere in precario equilibrio (che ovviamente Hulot contribuirà a distruggere). 
Film praticamente muto dove solo il genio infinito di Tati fa sentire la sua voce, Playtime mostra con un'eleganza e una grazia meravigliose il lato assurdo e demenziale del vivere moderno attraverso immagini, suoni, e metafore visive per i quali si resta a bocca aperta come bambini di tre anni. I luoghi asettici e tecnologici, il traffico impazzito che sembra una giostra, la vita negli appartamenti tutti uguali con le pareti a vetro, il finto glamour dei ristoranti di tendenza (la scena assolutamente mitica ed esilarante della cena), la freddezza e la bruttezza di certa architettura moderna, la mancanza di comunicazione reale tra esseri umani, i malefici della globalizzazione, insomma Tati alla fine degli anni '60 ci butta già là con assoluta nonchalance tutti i temi di discussione degli anni 2000. Riuscendo a farci ridere, ad intenerirci, e a ricordarci che basta poco (grazie al cielo!) per ritrovare la bellezza del mondo. Come in quelle brevi sequenze in cui la turista americana, alla ricerca disperata di una Parigi da cartolina, vede riflesse nelle porte a vetro le immagini dei monumenti più famosi della città.
Una pura delizia, una gioia infinita. Dio, quanto lo amo questo film.
Quello che mi è piaciuto del ristorante Playtime, è che ha veramente cercato di ricreare l'atmosfera del film: nell'arredamento, nei colori, dal menù alle stoviglie, tutto è in puro stile anni '60, con un piccolo tocco alla Monsieur Hulot. Senza contare che il cibo è eccellente:
Vabbé, insomma, lo avrete capito, il ristorante era solo una scusa per parlarvi di un film che adoro. 
Del resto, se la mia più grande passione fosse la cucina, starei scrivendo tutto un altro blog, non vi pare??!



Se volete provarlo, Playtime si trova al 5, Rue des Petits Hotels, 75010 Paris. 
Tel. 01 44 79 03 98. Attenzione! E' chiuso durante il week-end. 

giovedì 23 agosto 2012

La Notte

Non posso farci proprio niente. 
Se mi capita di arrivare alla Stazione Centrale di Milano in pieno Agosto e alzo gli occhi per guardare il Grattacielo Pirelli, a me partono in automatico i titoli di testa della Notte di Antonioni:

Film del 1961, capitolo centrale della "Trilogia esistenziale" (o dell'incomunicabilità) insieme a L'Avventura e L'Eclisse (hai detto niente!), La Notte rappresenta per me il punto più alto della cinematografia di Antonioni, e il punto più alto della cinematografia italiana tout court. Ebbene sì, se in una ipotetica classifica dei migliori film di tutti i tempi io dovessi citare un solo film italiano, dubbi non ne avrei, il mio titolo sarebbe questo.
Antonioni sul set con Jeanne Moreau e Marcello Mastroianni
La Notte è la cronaca di 24 ore (dal mattino all'alba successiva) nella vita di una coppia, quella composta da Giovanni, uno scrittore di successo, e sua moglie Lidia. A Milano è estate, fa caldo e le strade sono semi deserte. Giovanni e Lidia vanno a trovare in ospedale Tommaso, un amico gravemente ammalato, e poi partecipano in una libreria al lancio dell'ultimo romanzo di Giovanni. Fin da subito, risulta chiaro che il rapporto tra i due è in crisi. Lidia, lievemente disgustata dall'atmosfera e dalla gente, abbandona la presentazione e si mette a vagare senza meta, finendo in una periferia deserta e abbandonata. La sera, dopo essere stati in un night club, i due decidono di partecipare ad una festa nella villa fuori città dell'industriale Gherardini. Nel corso della serata, Lidia accetta la corte di uno sconosciuto, mentre Giovanni rimane affascinato dalla giovane figlia dell'industriale, Valentina. Chiamando in ospedale, Lidia scopre che Tommaso è morto. La notte è ormai alla fine, sta spuntando l'alba, e Giovanni e Lidia si ritrovano, soli, nel parco deserto della villa. La donna inizia a leggere al marito una lettera d'amore. Lui l'ascolta, affascinato. Quando le chiede chi le ha scritto quella lettera e quando, la risposta di Lidia lo lascia senza parole: quella lettera è sua. L'ha scritta per Lidia all'inizio del loro amore.
Marcello Mastroianni - Giovanni
Jeanne Moreau - Lidia
Monica Vitta - Valentina
Ho sempre pensato una cosa: che nessun regista al mondo è stato capace di comunicare l'incomunicabilità come Antonioni. Nessuno è mai stato capace quanto lui, in maniera tanto elegante, precisa e spietata, di rappresentare la disperazione, il vuoto, l'alienazione. Antonioni è stato anche estremamente moderno, talmente avanti sui tempi che la gente faceva fatica a capirlo (penso a tutti i fischi che si era beccato con L'Avventura le prime volte che veniva proiettato... un film che ha praticamente rivoluzionato il modo e il senso di fare cinema, e che ha influenzato generazioni intere di giovani registi). Anche su certe insensatezze della vita moderna e del progresso, Antonioni era stato di una lungimiranza estrema. Se un regista come Jacques Tati aveva scelto la strada dell'ironia e dell'assurdo per mettere in ridicolo le aberrazioni del mondo moderno, Antonioni aveva scelto quella del rigore e del silenzio, rappresentando il deserto di valori e sentimenti con un deserto fisico (a volte rosso e a volte in bianco e nero) di paesaggi, di orizzonti, di strade. Il mondo di Antonioni è vuoto, fuori e dentro. Le città sono palazzi moderni dalle forme geometriche spigolose e crudeli, in cui le persone sembrano muoversi sperdute, solitarie, abbandonate. Antonioni si interroga costantamente sul perché della nostra esistenza senza riuscire a trovare una sola risposta decente. Cosa ci può salvare dall'assenza di senso e di riferimenti? La Notte, sotto questo profilo, è il suo film più spietato: la malattia e la morte (Tommaso), l'ignoranza e la miseria umana dei ricchi (l'imprenditore Gherardini, il classico cumenda milanese), la noia moraviana dei giovani che hanno avuto tutto e non desiderano niente (Valentina), lo scrittore-artista più interessato alle mondanità e al successo che a quello che scrive nei libri (Giovanni), la moglie che non ha saputo dare un senso alla sua vita al di là dell'amore, ormai morto, per il marito (Lidia). C'è tutto, non manca niente, salvo (forse) un po' di speranza. 
Aiutato in questa mirabile impresa dalla penna di Ennio Flaiano e Tonino Guerra, che hanno scritto con lui la sceneggiatura, Antonioni ha scelto un trio di attori straordinari per esprimere al meglio il buio di questa notte. Mastroianni, lontano dai gigioneggiamenti delle prove felliniane, è febbrile, sperduto e fragilissimo. Jeanne Moreau, con la sua aria triste e corrucciata, è il ritratto di un disagio profondo ed immobile, mentre Monica Vitti, in quel suo modo leggero e falsamente spensierato, fa intravedere abissi di vuoto esistenziale. Ma uno dei motivi per cui amo da morire questo film, è per come Antonioni ha filmato Milano. Mi pare che lui ne abbia catturato la vera essenza, fatta di cose davvero impalpabili eppure riconoscibilissime. Il mondo di ciascuno è gli occhi che ha, ha scritto una volta José Saramago. Ma il mondo di ciascuno è anche i film che ha visto, e a me sembra di avere sempre osservato Milano con gli occhi di Antonioni.

In uno degli episodi di Die Zweite Heimat di Edgar Reitz, alcuni dei protagonisti vanno al cinema a vedere La Notte e al rientro uno di loro annuncia agli amici, estasiato: "Questo film è straordinario. Lo vedi, e poi hai voglia di spararti un colpo."  
Devo essere l'unica al mondo a cui La Notte fa tornare la voglia di vivere.

martedì 28 febbraio 2012

Villa Arpel

Cari lettori,
dal momento che avete molto apprezzato il post sulle case cinematografiche, ho pensato di proporvi un nuovo contributo sullo stesso argomento. Come forse saprete, uno dei miei registi preferiti in assoluto è il francese (di origine russa) Jacques Tati. Un vero genio, che con una manciata di film e la creazione di un personaggio mitico, quello di Monsieur Hulot, è entrato nella storia del cinema per non uscirne mai più.
Qualche anno fa, la Cinémathèque Française gli ha dedicato una bellissima mostra e, in contemporanea, uno degli spazi culturali di Parigi, il 104, ha avuto l'idea geniale di ricostruire uno dei set più famosi dei film di Tati: la Villa Arpel di Mon Oncle (1958). 
Poteva forse la vostra Zazie perdersi un evento simile? Giammai. E infatti, munita della mia piccola Fuji, sono andata al 104 e ho scattato foto a più non posso ad una delle case cinematografiche dei miei sogni, con un décor e uno stile anni '50 assolutamente meravigliosi! L'avesse vista Matthew Weiner, sono sicura che ci avrebbe ambientato una puntata di Mad Men... 



Ed eccola nel film:






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