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sabato 31 dicembre 2016

Ma vie de Courgette

A volte succede che nel corso dell'anno ci si perda dei film fondamentali.
Quei film di cui tutti parlano e che tu per qualche strana ragione ti sei lasciato sfuggire.
A me nel 2016 è successo con il film di animazione Ma vie de Courgette di Claude Barras, ma sono stata abbastanza fortunata da ripescarlo in extremis in un piccolo, delizioso cinema di Milano che consiglio a tutti gli amici in città di frequentare: il cinema BeltradeIntanto, tutti i film sono in lingua originale! La programmazione è ottima, la sala bella e comoda, l'atmosfera accogliente e simpatica. 
E che volete chiedere di più ad un cinema?
Ma vie de Courgette è stato il mio novantesimo film visto in una sala cinematografica.
Come potete constatare, la famosa frase "Passo la mia vita al cinema", nel mio caso non è un'esagerazione.
Sono stata particolarmente felice che fosse questo film perché, proprio come avevo letto ovunque e come mi avevano detto tutti i miei amici, questo film è una meraviglia.
Icare, che si fa chiamare Courgette (Zucchina), è un bambino di 9 anni che vive con la madre, sempre ubriaca e depressa. Un giorno, per un incidente di cui lui si sente responsabile, la madre muore e Courgette, che non ha mai conosciuto il padre, viene mandato in una casa famiglia con altri bambini nella sua stessa situazione.
Tutti bambini già malmenati (a volte nel senso letterale del termine) dalla vita e che si ritrovano per la prima volta in un ambiente accogliente e con un po' di amore, grazie alla direttrice e agli insegnanti della casa-scuola. Quando Courgette si è ambientato e ha trovato dei nuovi amici, arriva anche Camille, una ragazzina per cui prende una cotta.
La zia antipatica e cattiva della ragazza vorrebbe portarsela a casa (solo per una bieca questione di soldi) ma Courgette e gli altri amici faranno di tutto per poterla tenere con loro. E, grazie anche all'aiuto di un poliziotto che si è affezionato a Courgette, le cose finiranno nel migliore dei modi.
Sceneggiato dalla sempre bravissima Céline Sciamma (la regista di quel capolavoro che era Tomboy) e tratto dal romanzo di Gilles ParisAutobiographie d'une Courgette, questo film di animazione che utilizza la tecnica stop-motion è già stato ricoperto di premi ed è uno dei possibili candidati al prossimo Premio Oscar per il Miglior Film Straniero (concorre per la Svizzera).
Se c'è un film adatto a salutare questo vecchio anno che se ne va e ad accogliere quello nuovo con un briciolo di felicità e speranza, Ma vie de Courgette sbaraglia ogni concorrenza.
In poco più di un'ora il film è capace di farti affezionare a questo gruppetto di bimbi sfortunati e già segnati dal dolore, di farti sorridere, di farti piangere, di ricordarti le cose fondamentali della vita e di insegnarti che non ci si deve mai arrendere e che si può sempre contare sull'amore e la generosità degli altri.
La tonda faccetta di Zucchina e dei suoi amici è l'antidoto naturale alle brutture, alle violenze, ai soprusi  e alla tristezza di questo mondo.
Il mio augurio a voi lettori per l'anno che verrà è proprio questo: di trovare la vostra felicità anche nei momenti più cupi, di saper riconoscere la bellezza in mezzo agli orrori, di cercare le persone che vi sapranno amare e capire, e di avere un posto segreto a cui fare sempre ritorno, anche quando fuori piove e fa freddo, anche quando non c'è nessuno ad aspettarvi.
Da Courgette e i suoi amici e dalla vostra Zazie, gli auguri per un Felice Anno Nuovo pieno di Cinema e di Amore!

mercoledì 7 settembre 2016

Divines

Un fatto è certo: i film che vincono la Caméra D'Or (il premio per la miglior opera prima) al Festival di Cannes, sono quasi sempre dei grandi film. 
Qualche esempio negli anni: Stranger than paradise di Jim Jarmusch, Toto le Héros di Jaco Van Dormael, Me and You and Everyone we know di Miranda July, Samson and Delilah di Warwick Thornton e, su tutti, Hunger di Steve McQueen. Stare per la prima volta dietro la macchina da presa e riuscire a creare un film speciale, importante, e che faccia la differenza, è ancora più difficile per un absolute beginner.
Si intuisce, dietro queste opere, un desiderio incredibile di riuscire a dire tutto quello che si ha da dire (casomai non ce ne fosse un'altra, di occasione), una spinta creativa di potenza superiore, una libertà e a volte un'ingenuità che ne fanno un prodotto a cui si vuole bene da subito in maniera spontanea e totale.
Il film che ha vinto quest'anno la Caméra D'or rientra perfettamente nella categoria: Divines della regista francese (di origine marocchina) Houda Benyamina.
Dounia e Maimouna sono due ragazze della banlieu parigina. La prima vive con la madre (spesso ubriaca e di facili costumi) in una baraccopoli stretta tra l'autostrada e degli orrendi palazzoni HLM, e Maimouna proprio in uno di quei palazzoni con dei genitori super religiosi (il padre è l'imam della Moschea locale). Entrambe sanno che il futuro non ha in serbo un granché, per loro, e Dounia decide di passare all'attacco chiedendo lavoro a Rebecca, la pusher più famosa e cazzuta del quartiere. Le ragazze se la cavano bene e cominciano a fare un po' di soldi, e Dounia si innamora di un ballerino, che osserva danzare di nascosto nel retro di un teatro, dove lei custodisce quello che guadagna. Ma la fortuna, ad un certo punto, smette di girare per il verso giusto. E la vita chiede un prezzo altissimo da pagare.

Negli ultimi anni non sono mancati, qui in Francia, film sulle periferie parigine, e uno dei più incisivi aveva già come protagoniste un gruppo di ragazze (Bande de Filles di Céline Sciamma), Divines però ha quel qualcosa in più che fa la differenza. Un eccesso di vitalità che deborda da ogni particella dello schermo, che qualche volta rasenta il prosaico e qualche volta il sublime. La cosa irresistibile è il desiderio sfrenato di Dounia di emanciparsi dalla realtà di miseria in cui vive. E’ talmente chiaro che questa possibilità non gliela darà la scuola (la scena divertente ma lucidissima in cui Dounia deve far finta di essere la receptionist di una qualsiasi ditta, come se il massimo a cui le ragazze di periferia possano ispirare fosse proprio un lavoro di questo tipo), e talmente chiaro che il modo più rapido (anche se non indolore) di riuscire a fare soldi sia buttarsi in loschi traffici. 

Divines è una sorta di La Haine al femminile 20 anni dopo, con l'aggravante che niente sembra essere migliorato, per la gente delle banlieu: Fin qui, tutto male, per parafrasare  il famoso tormentone del film di Kassovitz. 
Nel film della Benyamina, se non altro, si assiste ad una sana inversione di ruoli: il leader più tosto e carismatico  è Rebecca, una ragazza nera che sembra uscita da Goodfellas, furba e impietosa, regina incontrastata dello spaccio di droga del quartiere, e con uno stuolo di uomini a sua disposizione. La dolcezza, l’amore e l’unica altra alternativa possibile allo schifo che c'è intorno, ovvero l’arte, sono invece incarnati da un uomo, il ragazzo di cui Dounia si innamora, un banlieusard come lei che però ha trovato nella danza la sua via di fuga. 
Divines è un film durissimo che lascia poche speranze (per non dire nessuna) ma che regala momenti straordinari: le scene di danza filmate dall’alto, il “finto” viaggio in Ferrari, l’amicizia “à la vie à la mort” delle due ragazze. E' un film potente fatto di lacrime e sangue, dietro il quale si indovina la forza prodigiosa di una regista in lotta con il mondo. 
Storico il suo discorso-fiume quando ha ritirato il premio a Cannes: militante, cazzuto, un po' esagerato, anche un po' troppo lungo, ma pieno di sincerità ed entusiasmo. Una vera boccata d'aria fresca in mezzo a tutti gli speech sempre più standardizzati.
La prima cosa che ha fatto salendo sul palco, è stato ringraziare il suo produttore. Utilizzando una frase del suo stesso film, gli ha urlato: Merci Marc, t'as du clito! (Grazie Marc, hai del clitoride!).
In effetti, di avere soltanto le palle, non se ne può proprio più!   

giovedì 5 maggio 2011

Tomboy

L’identità sessuale è un tema molto trattato, al cinema, ma in pochi hanno avuto il coraggio di esplorarlo dal punto di vista infantile. Lo fa un film uscito in questi giorni in Francia e che sembra aver stregato pubblico e critica: Tomboy (espressione inglese che significa “maschiaccio”), seconda prova di una giovane regista, Céline Sciamma, 30 anni, che già si era fatta conoscere al grande pubblico con un film che parlava di adolescenza (Naissance des Pieuvres, che ora mi pento amaramente di aver perso alla sua uscita quattro anni fa). 
E’ la fine dell’estate, e una giovane famiglia francese si è appena trasferita in un nuovo appartamento alla periferia di Parigi. Papà, mamma visibilmente in cinta, una figlia piccola e quello che a tutti gli effetti sembra un giovane figlio: capelli corti, pantaloni, canottiera, lo osserviamo mentre il padre gli insegna un po’ per gioco a guidare... insomma, un ragazzino di 10 anni. E’ solo quando lo vediamo uscire dalla vasca dopo che ha fatto il bagno con la sorellina, che ci rendiamo conto che si tratta in realtà di una ragazzina e, contemporaneamente, sentiamo la voce della madre chiamare il suo nome: Laure! Il problema, a questo punto, è che lo spettatore lo ha già metabolizzato come bambino, e si fa una grandissima fatica a considerarlo di un altro sesso. Non siamo i soli ad avere questa difficoltà: la condividiamo con la protagonista. Quando Laure raggiunge in cortile dei ragazzini per giocare ed una di loro, Lise, le chiede: come ti chiami? La sua risposta, sicura, precisa, spiazzante, è: Michael. E’ cosi che inizia un percorso tutto in salita per Laure/Michael, che dovrà fare i conti con la sua decisione e le sue inevitabili conseguenze.
Tomboy, vi assicuro, è un film straordinario. Il tema è delicato e complicato insieme, ed anche di una pesantezza infinita, ammettiamolo, ma la regista riesce in un piccolo miracolo, quello di raccontare la storia come se la vivessimo da dentro. Con l’inconsapevolezza e l’energia dell’infanzia, che trova un suo corrispettivo visivo nel calore e nella brillantezza dell’estate. Laure ci crede veramente, di poter sovvertire l’ordine prestabilito, e noi insieme a lei. Seguiamo con trepidazione i suoi tentativi coraggiosi e maldestri insieme di trasformarsi in un ragazzo e viviamo con ansia crescente il momento in cui, inevitabilmente, la vera vita prenderà il sopravvento (del resto, mancano solo pochi giorni all’inizio della scuola...). 
Tutto suona giusto in questo film girato velocemente (20 giorni di riprese in totale), con pochi mezzi, e pervaso da una luce speciale. Non so come la regista abbia potuto trovare un’attrice cosi giovane e talentuosa: Zoé Héran è spettacolare nella parte di Laure/Michael. La scena in cui si mette a giocare a calcio, si toglie la maglietta e sputa per terra come ha visto fare agli altri ragazzini, è un concentrato di bravura e tenerezza. Non è da meno la giovanissima Malonn Lévana nella parte della sorellina, una simpatica peste che si rivela a sorpresa un’incredibile ed abilissima complice della sorella/fratello. I genitori restano sullo sfondo ma sono fondamentali: Sophie Cattani nel ruolo della madre è estremamente vera e sensibile, e Mathieu Demy nel ruolo del padre (lui che è figlio di due mostri sacri come Jacques Demy e Agnès Varda!) è sobrio e disarmante di sincerità. 
Questo film ci pone di fronte a moltissime questioni, ma prima fra tutte la crudeltà della condizione di un essere umano che si sente in un modo ma è in un altro, costretto in un corpo che non gli appartiene. Il fatto che a soffrire sia una ragazzina di 10 anni, fa cadere di colpo tutte quelle barriere che di solito sorgono spontanee quando la persona coinvolta è un adulto. La sofferenza di Laure ci appare inumana, e si avrebbe voglia di credere, almeno per un attimo, che le cose per lei possano cambiare. 
Born this way... but for ever?
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