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mercoledì 9 novembre 2016

Raoul Coutard (L'Homme à la caméra)

When, this morning, my radio alarm woke me up, the 8 am news voice announced Trump’s victory at the US Elections. 
I was still under the blankets, outside it was raining, it was surely cold, and I really couldn’t think about a decent reason to move and get out from where I was. 
After few minutes, the same voice announced the death of Raoul Coutard, the historical cinematographer of almost all the film-makers of the Nouvelle Vague era.
At this point - I said to myself - I’ll stay in bed all day!

On the set of À bout de Souffle - Godard, Coutard and Belmondo
Raoul Coutard was born in 1924 and he became a war photographer during the Indochina War (he lived in Vietnam for 11 years). Back to Paris, he started to freelancing for magazines like Paris Match and Look. He entered into the cinema world - quite incidentally - in 1956: he was hired as a cinematographer on a movie while he was convinced his job was just to take production stills! 
But his breakthrough is dated 1959 and it is called… À bout de Souffle! His collaboration with Jean-Luc Godard has been the most prolific of his career. They have worked together constantly between 1959 and 1967. What they did on their first movie, though, was the beginning of a revolution, with people filming in the streets of Paris, while until that moment the cinema was exclusively shot in studios. Coutard also worked on many François Truffaut’s movies : Tirez sur le pianist, Antoine et Colette, Jules et Jim, La Peau Douce et La Mariée était en noir, but also with Jacques Demy on his first magnificent film, LolaHe was a real master of both colour (think about Le Mépris!) and black & white (Jules et Jim!!!).
On the set of Le Mépris in Capri, with Godard
On the set of Lola by J. Demy with A. Aimée
While searching for pictures of Coutard to accompany this post, I realized that in almost all of them he has a camera in his hands, and very often he is in weird or even dangerous places to shoot! 
Le vrai homme à la camera, no doubt, c’était lui… 
With J. Demy on the set of Lola, Nantes
Filming of À bout de souffle in the streets and on the roofs of Paris
On the set of Tirez sur le Pianiste by F. Truffaut
On the set of Antoine et Colette with F. Truffaut
And this is the famous "générique parlé" at the beginning of Le Mépris: the guy behind the camera, is Coutard. 
The only reason why I woke up today, was writing about him in this post.

martedì 10 maggio 2016

Palme d'Honneur !


Ci sono notizie che non ti aspetti e che arrivano così, in mezzo ad una giornata in cui fai fatica a stare dietro a tutto perché hai passato due settimane dall’altra parte del mondo ma il mondo che avevi di qua non si è fermato.
Al Festival di Cannes 2016, che aprirà i battenti domani, il 22 Maggio
consegneranno la Palme d’Honneur all’attore francese Jean-Pierre Léaud.
Per me, è come se questo premio lo prendesse uno di famiglia.
Perché con Antoine Doinel ci sono cresciuta.
Con Antoine Doinel mi sembra di aver passato la vita a prendere dei Pastis al bancone dei caffé della Rive Gauche, quelli piazzati di fianco a qualche cinema d’essai (perché così “si può passare a controllare l’orario”, come diceva Léaud in un altro fim di Truffaut, La Nuit Américaine).

Il mitico monologo dello specchio: Antoine Doinel in Baisers Volés (F. Truffaut)

Léaud è stato il volto e l’attore simbolo di tutta la Nouvelle Vague, ha lavorato con i più grandi registi dell’epoca: François Truffaut, Jean-Luc Godard, Jacques Rivette, Jean Eustache, e poi con quelli che adoravano quegli stessi registi: Bernardo Bertolucci, Olivier Assayas, Aki Kaurismäki, Tsai Ming-Liang, Philippe Garrel, in un corto circuito di cinefilia totale.  
Henri (Léaud) e Vic (Serge Reggiani) - I hired a contract killer (A. Kaurismäki)

L’amicizia tra Truffaut e Godard si è rotta praticamente a causa sua: Truffaut, che considerava Léaud come un figlio, non sopportava il modo in cui Godard lo trattava. E Léaud, che considerava Truffaut come un padre, alla sua morte ha passato anni bui in bilico su un baratro dal quale si è salvato solo per miracolo.
Oggi, lontano dallo sguardo sbarazzino del piccolo Doinel, lontano dalla spavalderia di quel film-fiume capolavoro assoluto che era La maman e la putain, Léaud resta comunque Léaud.
Con le sue ferite di guerra tutte intatte, e la certezza di far parte della storia del cinema, con o senza Palme d’Honneur.
Non sarà facile prenderlo sulle spalle e portarlo in giro per Cannes tutto trionfante come aveva fatto Jean Cocteau all’epoca dei 400 Coups (Léaud aveva allora 12 anni), ma se qualcuno avesse il coraggio di farlo, sono sicura che lui non batterebbe ciglio.
Perché Doinel, sera toujours Doinel!


domenica 29 novembre 2015

giovedì 11 giugno 2015

Jean Gruault, L'ultimo dei Romantici

Truffaut e Gruault sul set di L'Enfant Sauvage (1970)
François Truffaut non amava scrivere i suoi film da solo. 
Di prassi, si è sempre circondato di uno o più sceneggiatori con i quali collaborava regolarmente: Marcel Moussy, Jean-Louis Richard, Claude de Givray, Suzanne Schiffman, Jean Aurel e... Jean Gruault. E’ proprio con quest’ultimo che ha avuto la collaborazione più lunga e “produttiva”. 
Cinque film scritti insieme: Jules et Jim (1962), L’Enfant Sauvage (1970), Les Deux Anglaises et le Continent (1971), L’Histoire d’Adèle H (1975) e La Chambre verte (1978). 
Praticamente cinque capolavori.
E’ di questi giorni la notizia della morte di Gruault, avvenuta all’età di 90 anni (era nato fuori Parigi nell’Agosto del 1924). 

Truffaut non era il solo regista della Nouvelle Vague con cui Gruault aveva lavorato, anzi... Da Rivette (Paris Nous Appartient e La Religieuse), passando per Godard (Les Carabiniers), sino ad arrivare ad Alain Resnais (con il quale scriverà tre film: Mon Oncle d’Amérique, La vie est un Roman e L’Amour à mort), Gruault sarà uno sceneggiatore di predilezione per tutti i registi del gruppo.
Gérard Depardieu in Mon Oncle d'Amérique (1980)
Gruault nel corso della sua lunga carriera ha collaborato anche con Roberto Rossellini (La prise de pouvoir par Louis XIV), con i Fratelli Dardenne (Je pense à vous) et con André Téchiné (Les Soeurs Brontë). 
Grualt aveva per altro scritto due sceneggiature per Truffaut che non sono mai state girate dal regista ma che sono state riprese da altri, in particolare, all’ultimo Festival di Cannes, Valérie Donzelli ha presentato Marguerite & Julien, una storia d’amore tra due fratelli.
Uomo di grande cultura e dal piglio molto ironico, lo sceneggiatore era un personaggio simpaticissimo. L'ho sentito parlare una volta alla Cinémathèque ad una tavola rotonda dedicata a Truffaut, e aveva subito rubato la scena agli altri partecipanti, con una sfilza di aneddoti e di battute, si era conquistato il pubblico in men che non si dica (date un'occhiata al filmato qui sotto per capire). 

Se uno scorre la filmografia di Gruault, appare chiaro che a lui piacesse scrivere soprattutto di una cosa: della passione.
Quella con la P maiuscola, quella amorosa, quella eccessiva, quella che sconfina nella follia, quella così totalizzante da superare anche la morte. 

Insomma mi viene da pensare che Jean Gruault fosse l’ultimo dei romantici.
Non a caso, c’è un film nella sua filmografia a cui io sono particolarmente affezionata, e che penso nessuno al mondo ricordi.
Si tratta di Australia, film del 1989 di un oscuro regista belga, Jean-Jacques Andrien, che Gruault ha scritto, niente poco di meno che, con (un allora sconosciuto) Jacques Audiard.
Il motivo per cui all’epoca mi ero precipitata a vedere il film, stava tutto nella scelta degli attori. 

I protagonisti di questa love story segnata dal contrasto tra la luce, il calore, lo spazio sconfinato del paesaggio Australiano e il buio, il freddo e lo spazio ristretto del paesaggio Fiammingo, erano Fanny Ardant e Jeremy Irons
Ancora oggi bellissimi, all’epoca facevano quasi male agli occhi talmente risplendevano di luce propria:
Stranamente, nel sentire la notizia, più che ad un capolavoro assoluto come Jules & Jim, è a questo strano film che ho pensato, perché in qualche modo di opere così, pur con i loro difetti, non se ne scrivono più. 
Il romanticismo non è più quello di un tempo.
E senza Jean Gruault, lo sarà ancora meno.

martedì 8 aprile 2014

Cléo de 5 à 7


L’ho scritto spesso, in questo blog: di donne che fanno cinema ce ne dovrebbero essere molte di più, e spero che questo desiderio un giorno si trasformi in una realtà acquisita. 
Nel frattempo, posso dire che la qualità compensa parecchio la quantità. 
Sono rare le registe donne scarse. Quasi non me ne viene in mente neanche una. E quando penso a quella che potrebbe essere un modello per tutte, la vera “precorritrice”, penso subito a lei: Agnès Varda, classe 1928.
Una donna di questa età, direte voi, a 86 anni starà a casa a godersi la pensione.
E invece no, a parte il fatto che continua a fare film, trova anche il tempo di andare nei cinema di Parigi a presentarli. Da pochi giorni infatti è possibile rivedere, in alcune sale della capitale, il capolavoro assoluto della Varda, un film del 1962 recentemente restaurato: Cléo de 5 à 7.
Sono andata a vederlo la settimana scorsa allo Champo, e prima del film Agnès Varda è venuta a fare una piccola, deliziosa spiega. Mi sono amaramente pentita di non averla filmata, perché quello che è riuscita a dire in 4 minuti di presentazione, era di una intelligenza e di una delizia rare. I capelli metà bianchi metà di un violetto aubergine, la Varda parlava come un piccolo elfo: divertente, coinvolgente, buffa, ha detto cose profonde con una leggerezza disarmante.

"Questo film parla di bellezza e di morte", ha esclamato concludendo con un gran sorriso e con l’aria sbarazzina. Come si fa, dico io, a non trovarla irresistibile?
Agnès Varda allo Champo, 1° Aprile 2014

Florence ‘Cléo’ è una giovane cantante di successo di 25 anni. Corteggiata, di successo, giovane e bella, non le manca niente per essere felice, ma in questo primo giorno di primavera del 1961, Cléo è angosciata e impaurita. Sta infatti aspettando i risultati di un’analisi medica fatta qualche giorno prima e che le saranno comunicati proprio quella sera: potrebbe esserle diagnosticato un cancro. Il film segue, quasi minuto per minuto, le due ore che la separano da quel momento. Cléo non riesce ad aspettare tranquilla a casa e quindi, dopo aver provato qualche pezzo con i suoi musicisti, se ne va e cerca di distrarsi come può: fa acquisti, beve qualcosa in un caffé, va a trovare un’amica, esce con lei, va a camminare in un parco. E’ qui che incontra un perfetto sconosciuto, un giovane soldato in licenza che sta per tornare in Algeria (quindi ancora più spaventato di lei), che la convincerà ad andare insieme a lui all’Ospedale per conoscere i risultati delle analisi.
Rohmer ha scritto: Si è moderni solo se lo si merita.
Credo che questo a Cléo spetti di diritto: raramente un film è stato così moderno nella sua forma come nel contenuto. Mi sono spesso chiesta perché La Nouvelle Vague abbia avuto tanta influenza sui film di oggi (più di qualsiasi altro movimento cinematografico), e forse la risposta sta nella particolare capacità dei suoi registi a trasformare la materia più pesante in immagini super leggere. Questo loro uscire per le strade, una camera a spalla, due luci, pochi attori, mettersi al tavolino di un caffé e parlare di vita, amore, morte, filosofia, amicizia, felicità, dolore, e poi magari alzarsi, cantare una canzone e ballare. 

Prima di loro nessuno faceva cinema così, e mi verrebbe da dire che pure dopo sono stati pochi quelli che l’hanno fatto con tanta grazia e stile.
In Cléo c’è un breve, divertentissimo film in bianco & nero tipo ridolini che, per stessa ammissione della Varda, è stato inserito per stemperare un po’ la grande tristezza che pervade il film. La cosa carina, è che i protagonisti sono gli amici della Varda, che di nome fanno Jean-Luc Godard, Anna Karina, Sami Frey, Jean-Claude Brialy. E ad altri amici sono affidati delle piccole ma gustose parti: Michel Legrand (il leggendario compositore di tutte le musiche dei film di Jacques Demy, il marito di Agnès Varda) è il musicista di Cléo, mentre Raymond Cauchetier (IL fotografo della Novuelle Vague, è a lui che si deve l’epocale scatto di Jean Seberg e Jean-Paul Belmondo sugli Champs-Elysées ai tempi di À bout de Souffle) è il proiezionista fidanzato dell’amica di Cléo che fa vedere alle ragazze il film ridolini:



Cléo è un film capace di farti assistere al miracolo di un cambiamento profondo nel giro di un paio d’ore. La giovane cantante delle prime scene del film, non è certamente la stessa che sta seduta su una panchina nel giardino di un ospedale alla fine. Cléo è passata attraverso tutte le fasi: dalla negazione alla disperazione, dal cercare gli sguardi ammirati degli altri al nascondersi al riparo da tutti, dalla spensieratezza alla rassegnazione. Ha soprattutto capito l'importanza di vedere, ascoltare, parlare con gli altri. Perchè è la presenza degli altri a fare la differenza nelle nostre vite. E questo valeva negli anni ’60 ma anche, e forse soprattutto, nel 2014.
Cléo (Corinne Marchand)


Non lo faccio spesso, ma vorrei dedicare questo post a qualcuno.
Vorrei dedicarlo a Sugako, che ci ha lasciato in questi giorni.
Una donnina speciale, dolcissima e super gentile, che non avrebbe certo avuto bisogno della diagnosi di una malattia grave per capire la bellezza del mondo e l’importanza degli altri. Perché questi valori ce li ha sempre avuti. E li ha regalati in abbondanza a tutti quelli che hanno avuto la fortuna di incontrarla. Io l’ho avuta, questa fortuna, e so che adesso mi mancherà per sempre. Ma so anche che siamo in tanti a portarla nel cuore. Come un piccolo film a colori che possiamo andare a riguardare ogni qual volta la vita ci sembrerà un luogo troppo buio e troppo triste.
ありがとうございます, Sugako-san! (Grazie, Sugako!)
 
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