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venerdì 26 luglio 2019

Fleabag

Non so voi, ma io sono sempre stata una persona che adora avere delle ossessioni, che le coltiva, che ne ha bisogno per vivere. 
In generale, si tratta di “magnifiche ossessioni”, essendo legate a film o, in anni più recenti (diciamo da Six Feet Under in poi), a serie TV. Quando ero più giovane credevo che con l’avanzare dell’età questa cosa mi sarebbe passata, che sarei diventata più saggia, che avrei smesso di provare questi entusiasmi colorati e prolungati, durante i quali tutto il resto si annulla, si annacqua, o mi annoia profondamente. Non è andata così. E oggi, all’alba dei miei (favolosi, ça va sans dire) 50 anni, posso tranquillamente affermare che continuo a vivere queste passioni furibonde con lo stesso grado di follia momentanea di quando di anni ne avevo 15 o 20.
Sarà una brutta o una bella cosa? Mi chiedo spesso. Vorrà dire che non riesco a crescere? Che mi rifiuto di diventare più posata? Eh, non lo so, ma dato che non ci posso fare molto, eccomi qui, prendere o lasciare. In questo blog, ai miei lettori ho ciclicamente propinato post entusiasmanti su questo o quel film, questo o quell’attore, questo o quel regista, questa o quella serie. Tutti questi amori si sono negli anni accumulati, si sono allineati uno di fianco all’altro, formando un piccolo e privato pantheon di idoli assoluti.
La felicità che mi procura avere un nuovo, incontenibile entusiasmo, è sempre stata ai primi posti in classifica, nella mia vita. L’unica cosa che forse è cambiata, con lo scorrere del tempo, è la frequenza con cui queste cose accadono. Si è più esigenti, presumo, si è più sicuri dei propri gusti, si riconoscono meglio i propri simili. Ma poi, sempre, arriva il giorno che BOUM!, succede, e allora non ce n’è più per nessuno.
Da tempo leggevo sulla stampa inglese articoli entusiasti su questa ragazza, Phoebe Waller-Bridge, e la serie TV di cui era autrice e protagonista, Fleabag (Sacco di pulci). Ne leggevo ma nessuno intorno a me la stava guardando, o me ne parlava, e allora avevo lasciato correre. Poi pochi mesi fa sul Guardian hanno iniziato a scrivere delle cose pazzesche sulla seconda stagione della serie, culminate in un pezzo in cui, a pochi giorni dalla fine della sua messa in onda, davano delle istruzioni per riuscire a sopravvivere alla fine della stessa.
Il grado di idolatria che sprigionava da questi articoli è suonato come una chiamata alle armi. Una sirena rossa si è messa a lampeggiare: Warning! Warning! nuovo possibile entusiasmo all’orizzonte.
Così mi sono decisa a guardare la prima stagione. 

Non è stato, come molti potrebbero pensare, amore a prima vista. Anzi.
Sono rimasta sconvolta dai primissimi minuti della serie, dalla crudezza con cui Fleabag si mette a nudo, da quella domanda assurda che fa a se stessa e al pubblico (perché la protagonista ha il vezzo di rivolgersi direttamente allo spettatore guardando dritta nella camera da presa) seduta in un caffè, ancora prima del titolo, ancora prima della sigla (che poi non esiste nemmeno, una vera sigla, ti butta lì il titolo con sotto una musica assordante come a dire: e chi se ne importa di quelle belle sigle tutte super design quando ti ho appena fissato dallo schermo per chiedermi/chiederti: Do I have a massive asshole? Letteralmente: Ho un buco del culo enorme?).
Insomma Fleabag è respingente. Non è l’eroina nella quale ti vuoi facilmente identificare, anzi ti mette così a disagio che pensi: oddio, io non sono ASSOLUTAMENTE come lei!
Quindi ho visto i primi due episodi e ho mollato lì. E poi, una sera, non so perché, era Giugno, ho sentito che quella partita non era finita, che anzi doveva ancora iniziare.
Ho guardato tutto di nuovo dall’inizio e ad un certo punto è scattato qualcosa: BANG!, e nel giro di poche ore avevo visto per intero la prima e la seconda serie, senza riuscire a fermarmi (non è un’impresa impossibile, le due stagioni sono composte di 6 episodi ciascuna di circa 20-25 minuti l’uno).
E da allora, niente, c’è un prima e c’è un dopo Fleabag.

Fleabag racconta di una ragazza di circa 30 anni che vive a Londra e gestisce un caffè, che ha una relaziono on/off con un ragazzo gentile ma un po’ bizzarro, che ha un sacco di incontri sessuali con gente ancora più bizzarra, che ha una famiglia composta da padre, nuova compagna del padre (una stronza micidiale interpretata divinamente da Olivia Colman, l'attrice Premio Oscar 2019), sorella e marito della sorella (più figlio acquisito di quest’ultimo), che ha perso da poco la madre e la migliore amica (con la quale aveva aperto il caffè) e che queste due cose la fanno soffrire tantissimo. Fleabag ha uno spiccato sense of humour, molto british e molto trash, ha la capacità di dire tutto quello che pensa nella maniera più indigesta possibile per gli altri (e pure per se stessa), e alla fine della prima stagione sta letteralmente andando in pezzi.
Basato su un one-woman-show che la Waller-Bridge aveva portato al Fringe Festival di Edimburgo qualche anno fa, e che aveva generato tanto entusiasmo da indurre la BBC a chiederle di farne una serie TV, Fleabag era destinato ad essere un esperimento da una stagione sola. Visto il successo, la BBC ha cominciato ad insistere perché la storia di questo sacchetto di pulci avesse un seguito. Dapprima restìa, la Waller-Bridge racconta di avere avuto una vera e propria illuminazione, di aver avuto L’IDEA, e che solo a quel punto ha accettato di far continuare la storia.
Sono poche, ammettiamolo, le serie TV che hanno una seconda stagione più bella della prima. Fleabag fa eccezione.

Se la prima stagione è bellissima, la seconda è straordinaria, anzi di più, è perfetta (e infatti non avrà un seguito, perché sarebbe impossibile concepire una cosa altrettanto geniale, o forse - come lei stessa afferma - si potrà fare tra 20 anni, per vedere che cosa mai avrà combinato questa donna nel frattempo).
Tra la prima e la seconda stagione, nella finzione, è passato poco più di un anno.
Un anno nel quale Fleabag ha cercato di cambiare, di migliorare, di crescere: la relazione on/off è definitivamente terminata, non scopa più in giro, mangia sano, fa sport e il caffè che gestisce ha preso a funzionare. Le cose con la famiglia sono messe un tantino peggio. Con la matrigna non va benissimo e, soprattutto, non parla con la sorella dalla fine della prima stagione.
Il primo episodio di Fleabag 2, io ve lo dico, dovrebbe essere studiato in qualsiasi scuola di sceneggiatura di questo mondo come esempio straordinario di scrittura.
E’ una cena. Una semplice cena di famiglia, dove tutti sono riuniti (in un ristorante), per festeggiare l’avvenimento dell’anno: l’imminente matrimonio tra il padre di Fleabag e l’insopportabile compagna. Finirà in un massacro, metafisico e fisico, ma anche in una cosa totalmente inaspettata, come del resto ci promette Fleabag all’inizio dell’episodio, una scena memorabile in cui, con il volto insanguinato e tumefatto guarda verso la telecamera e annuncia: This is a love story! (Questa è una storia d’amore!).
E ovviamente non poteva che essere una storia d’amore in puro stile Waller-Bridge.
Perché cosa mai ci potrebbe essere di più profondamente déplacé, assurdo, sconveniente e disperante che innamorarsi del prete cattolico che sta per sposare tuo padre?
E dunque eccolo, il personaggio destinato a cambiare tutto, questa figura di cool (but very hot) priest, che fuma, beve (decisamente troppo), è minacciato dalle volpi (una vera ossessione) e dice parolacce che neanche uno scaricatore di porto.
Ma tanto basta.

Lui e Fleabag sullo schermo fanno letteralmente scintille, e il loro rapporto trasfigura entrambi, lì, sotto i nostri occhi increduli, mentre stiamo a metà tra le risate e le lacrime, e il desiderio potente che tutto questo non abbia mai fine. Anche perché, senza quasi darci il tempo di rendercene conto, succede una cosa sconvolgente che non voglio spoilerare ma che è da cascare dalla sedia. Tenetevi forte, questa donna ha la capacità di stupirvi ad ogni scena.  Disseminato di nuovi, meravigliosi personaggi (una psicologa intepretata dalla magnifica Fiona Shaw, una manager intepretata dalla grandiosa Kristin Scott-Thomas, alla quale la Waller-Bridge affida uno dei monologhi femministi più riusciti della storia), Fleabag 2 si snoda ad un ritmo vorticoso, un’idea geniale dietro l’altra, un crescendo di situazioni e assurdità varie, che non lasciano mai la presa, fino alla fine. Che è devastante.
C’è gente che non s’è più ripresa, ve lo giuro (gli attori hanno dovuto girarla almeno tre volte, perché le prime due non facevano altro che piangere).
E capisco perfettamente perché.
Per la parte del prete, Waller-Bridge ha pensato ad un attore non famosissimo, con il quale aveva lavorato 10 anni prima, e il cui carisma inaudito le era rimasto sempre impresso: l’irlandese Andrew Scott. Reputatissimo attore teatrale (il suo Amleto un paio d’anni fa all’Almeida Theatre di Londra ha mandato i critici in visibilio), Scott ha iniziato ad avere un nutrito gruppo di fans soprattutto grazie alla sua interpretazione flamboyante del cattivissimo James Moriarty, la nemesi di Sherlock Holmes nella serie TV Sherlock con Benedict Cumberbatch. Il suo ‘Honey, you should see me in a crown!’ (Dolcezza, mi dovresti vedere con una corona in testa!), ha generato un numero di meme sconsiderati, ed un interesse spasmodico sull’ambiguità sessuale del suo personaggio (diciamo che l’attrazione di Sherlock per lui travarica un po’ il confine dell’eterosessualità). Nella vita reale, Scott è apertamente gay, attivo nel sostegno alla causa LGBT, ma si dichiara felicissimo di interpretare ruoli da etero, come quello che gli ha proposto Waller-Bridge (ha accettato la parte prima che lei scrivesse la sceneggiatura, fidandosi ciecamente del talento dell’amica).
Il risultato è sotto gli occhi di tutti: l’alchimia tra i due è semplicemente pazzesca e la hotness del prete a rischio infarto. Se pensate che sto esagerando, fidatevi della dichiarazione di un sito porno inglese: la ricerca di film con pratagonisti dei preti sul loro sito è aumentata del 125% dopo la messa in onda di Fleabag 2. E su Twitter, sotto il mitico #hotpriest, sono state dette per settimane le cose più irriverenti che si possano immaginare.

Il problema vero di quando si guarda Fleabag, in effetti, è il dopo.
Perché la serie lascia una sorta di vuoto cosmico che io prima di oggi ho sentito solo alla fine di Six Feet Under e Mad Men, vale a dire delle due esperienze di serie TV che più mi hanno marcato nella vita. Però attenzione, la differenza è abissale, perché quelle due serie avevano rispettivamente 5 e 7 stagioni, con 10-13 puntate a stagione di almeno un'ora ciascuna. Qui no. Il vuoto cosmico è sproporzionato alla durata della serie, ma tant'è.
La prima cosa, la più ovvia, è stata quella di mettersi a rivederne dei lunghi pezzi. Sì, ma poi? E' stato a  quel punto che, in preda alla disperazione, ho scritto uno status sulla mia pagina Facebook alla ricerca di orfani di Fleabag, tra l'altro nel momento peggiore, quello in cui la gente parlava senza sosta della fine di Game of Thrones. Alcune amiche, per fortuna, mi sono venute in soccorso. Noi, felici poche. Noi, manipolo di sorelle (no, dico, cito l'Enrico V di Shakespeare che se lo sapesse Andrew Scott sverrebbe!). E' stato grazie ad una di loro che ho scoperto che in questo periodo Scott era a teatro a Londra, in una pièce di Noël Coward: Present Laughter, all'Old Vic. Inutile dirvi che dopo circa due ore mi ero comprata un biglietto, e mi ero organizzata un week-end a Londra. 
Ma ancora non mi bastava. 
La vera svolta è stata la scoperta, su FB, di FLEABAG - THE OFFICIAL GROUP. 
Ed è lì che la mia vita è cambiata, perché ho scoperto di non essere sola.
Perché c'è sempre il momento semi-serio in cui ti chiedi: ma sarò pazza? Ed è così meraviglioso scoprire che, eventualmente, sei pazza insieme ad altre migliaia di persone sparse ovunque sul globo terracqueo (perché vi assicuro, una delle prime cose che ho letto era un post di questa ragazza che chiedeva: ma di dove siete, gente là fuori? e dalla Nuova Zelanda al Nuovo Messico, passando per Taiwan e l'Islanda, c'era tutto il mondo). Ed è così che da settimane il mio buon umore è assicurato da questo gruppetto assurdo di gente che passa il tempo a scrivere cose che io trovo assolutamente esilaranti. Qui citerò una serie di cose totalmente incomprensibili per chi non ha visto la serie, ma si tratta di gente che parla di guinea pigs, volpi, lattine di G&T, dove trovare portachiavi a forma di scultura di busto di donna, tote bags con la scritta: Hair is everything, Anthony (I capelli sono tutto, Anthony), gente che organizza Fleabags Quiz nei pub di Londra, che intavola conversazioni perché è "Chatty Wednesday", che pone delle domande tipo: Ma cosa fate nel caso in cui i vostri colleghi a cui avete consigliato di vedere la serie vi dicono che non l'hanno amata? E la risposta, inevitabile, è: Devi semplicemente cambiare lavoro, cara! O ancora: Mio marito non ama la serie. Sto preparando le carte per il divorzio! 
Poi ditemi voi se non è buon umore assicurato per il resto della giornata...
Quando sono andata a vedere Andrew Scott a teatro, l'ho aspettato più di un'ora al freddo e al vento insieme ad un folto gruppo di ragazze visibilmente più giovani di me. Abbiamo fatto una foto insieme e quando l'ho postata sulla pagina dell'official group, nel giro di 10 minuti avevo quasi 350 I Like. Potere dell'Hot Priest, e del culto che gli riserviamo. E io mi sono sentita finalmente compresa.
Mi chiedo spesso: come mai le persone amano così tanto questa seconda stagione?
Lasciando da parte le considerazioni ovvie, su quanto sia scritta e interpretata bene, sulla genialità della sceneggiatura, sulle battute meravigliose, penso che l'elemento che fa la differenza siano loro due. E' la loro storia d'amore. Molto banalmente, siamo tutti alla ricerca di qualcuno in grado di vederci per quello che siamo, al di là di ogni apparenza, di ogni sbaglio, di ogni difetto, dei casini che siamo capaci di generare, delle nostre meschinerie, delle piccolezze e delle nostre paure. E questi due si vedono, eccome se si vedono. 
Qualche volta mi chiedo anche: perché non posso vivere come fa tanta gente una vita normale, dove non c'è mai bisogno di andare al cinema, di vedere serie TV, di leggere dei libri? Vite che scorrono lungo i binari dei giorni, non per forza sempre uguali, ma ben ancorate alla realtà, al quotidiano, alle cose da fare, al cibo da cucinare. La risposta è che non lo so. Non lo so perché ho questo bisogno profondo di altro. Di uscire da me. Di adorare l'idea di vivere altre vite. Ma un paio di settimane fa ho visto il nuovo film di Woody Allen e ad un certo punto lui fa pronunciare una frase ad una delle protagoniste che a me è parsa fondamentale e che diceva più o meno così: La vita reale è per quelli che non sanno inventarsi niente di meglio.
Non ne sono sicurissima ma mi piace tantissimo pensarlo.
E se non sono riuscita a farvi venire voglia, dopo tutto questo sproloquio, di correre a vedere Fleabag, allora non sono servita proprio a niente.
E dunque mettetevi pure a guardare qualsiasi altra serie, fate come se niente fosse, io me ne torno dal mio nuovo gruppo di amici a sospirare sulla bellezza del collo di Andrew Scott, mentre parte in sottofondo un doveroso Kyrie Eleison.
Amen!

lunedì 6 giugno 2016

15 Anni di Six Feet Under

Il 3 Giugno 2001, sul canale americano HBO, andava in onda la prima puntata di una nuova serie dal suggestivo titolo SIX FEET UNDER (Sei piedi sotto terra).
Scritta da Alan Ball, lo sceneggiatore premio Oscar di American Beauty (1999), questa serie, anche se nessuno 15 anni fa poteva immaginarselo, sarebbe diventata la madre di tutte le serie televisive, sarebbe stata il punto di partenza di quell'onda immensa e inarrestabile che avrebbe travolto a breve le nostre vite.
Poi sarebbero arrivate The Wire, Breaking Bad, Game of Thrones, Mad Men, ma allora, 15 anni fa, tutto questo era impensabile, tutto questo, semplicemente, non esisteva.
Rimasto sconvolto dal tragico decesso della sorella quando aveva solo 13 anni (lei ne compiva 22 quel giorno, e Ball l'ha vista morire davanti ai suoi occhi mentre erano in macchina), lo sceneggiatore ha fatto della morte un tema omnipresente nella sua opera. 
In Six Feet Under (che in misure americane indica la profondità alla quale viene calata una bara nella terra) la morte è la protagonista assoluta.
Ogni singolo episodio inizia con un decesso, e i protagonisti della serie sono i membri della famiglia Fisher, che gestiscono un'impresa di pompe funebri a Los Angeles. C'è il padre (è lui il primo a morire nel primo episodio, ma continuerà ad essere visibile e a parlare agli altri Fisher), la madre, il figlio maggiore Nate, appena rientrato da Seattle dove ha cercato di creare un business alternativo senza riuscirci, il figlio di mezzo, Dave, che lavora nell'azienda di famiglia e da sempre è in conflitto con la propria omosessualità, e la figlia più piccola Claire, ribelle dal temperamento artistico:
Per cinque stagioni, dal 2001 al 2005, abbiamo seguito i destini di ogni Fisher e quello delle persone che a loro si legavano: fidanzati e fidanzate, mariti e mogli, figli, parenti vari, amici.
Era come avere un'altra famiglia, così facile da amare perché così delirante, disfunzionale, geniale, disperante, complicata, a volta insopportabile ma la maggior parte del tempo totalmente irresistibile.
Senza nemmeno rendercene conto, io e un folto gruppo di amici (e di gente sparsa in giro per il mondo), ci siamo messi a guardarli allo stesso momento, senza perderci un episodio, discutendo di ogni dettaglio, scambiandoci opinioni, creando un vero e proprio "movimento" di fans scatenati di Six Feet Under. Facebook e Twitter non c'erano ancora.
Era tutto artigianale, un po' ingenuo, ma molto sentito, molto speciale (era la prima volta, che lo provavamo).
E' andato tutto bene fino a quando non sono arrivati gli ultimi tre episodi dell'ultima stagione. La fine, insomma. E anche se lo sapevamo, anche se non potevamo nasconderci che un giorno questa cosa sarebbe arrivata, nessuno di noi era pronto all'impatto emotivo devastante che stava per travolgerci.
Nei miei ricordi, ho pianto ininterrottamente per giorni. 
La mattina arrivavo in ufficio con certi occhi gonfi che la gente pensava mi fosse capitata una disgrazia e, in un certo senso, mi era capitata per davvero. Perché Alan Ball, per metterci in ginocchio, aveva deciso (mi spiace, ma qui lo spoiler è nettamente superato a più di dieci anni dalla fine) di far morire Nate a tre puntate dalla fine, di dedicare il penultimo episodio al suo funerale, e infine, in una lunghissima, incredibile sequenza che rimarrà per sempre nel nostro immaginario collettivo, di farci vedere la morte di tutti i protagonisti della serie nell'ultima puntata.
La loro morte "futura", per così dire.
Insomma eravamo diventati all'improvviso tutti orfani. E non potevamo far altro che piangere e disperarci.
La prima volta che ho messo piede a Los Angeles, è stato nel 2008, ed ero lì per lavoro. 
Nel mio unico giorno libero, nonostante tutti mi dicessero di andare a vedere gli studios, io mi sono fatta portare da amici che avevano una macchina (io manco ho la patente) a vedere l'unico edificio che per me davvero contava in tutta la città: la casa al 2302 West 25th Street, la Fisher & Sons Funeral Home. Mi sono fatta fare questa servizio fotografico piantata lì davanti e ad un certo punto è arrivato un ragazzo con macchina fotografica in spalla. Ci ha fatto un cenno di saluto: Six Feet Under? - ha chiesto. Noi gli abbiamo fatto di sì con la testa. "Sono venuto apposta da Denver" - ha continuato.
"Noi da Parigi", ho risposto, con aria di sfida.
Ha fatto un gesto di resa con le mani, come a dire: avete vinto voi.
Zazie davanti alla casa dei Fisher - LA, Febbraio 2008
A tutti quelli che ancora non hanno visto questa serie, io non posso far altro che consigliare caldamente di guardarla. Anche sapendo il finale, anche avendo letto tutto quello che è stato scritto in questi anni di discussioni sulle serie TV e sulla loro sempre più grande influenza ed importanza sulle nostre vite. Perché non esiste, un'altra serie così. 
Ne sono state fatte di bellissime ed imperdibili, dopo, ci mancherebbe, ma i Fisher sono stati i precursori.
Sul cofanetto della serie completa, ovviamente a forma di bara, campeggia la scritta: 
Everything.
Everyone.
Everywhere.
Ends.
Di eterno, si sa, c'è solo il nostro amore per Six Feet Under.

domenica 21 settembre 2014

Mai più senza

In questi giorni i muri di Facebook sono invasi da lunghe liste di film, libri, album e serie Tv preferite. Anche a Zazie tanti amici hanno chiesto di compilare queste fatidiche top 10. 
Io però, finora, non ho risposto a nessuno invito (e mi scuso qui pubblicamente). 
La verità è che mai nella vita riuscirei a stilare la classifica dei miei 10 film preferiti (10? solo??!), e pure con i libri e gli album avrei delle serie difficoltà. Dovrei compiere scelte e rinunce con tale spargimento di sangue e tali spasmi di dolore, che preferisco evitare in partenza.
Però mi sono detta che in fondo, per le serie TV, forse ce la potevo fare. Sarà che sono un fenomeno relativamente recente, mi sembrava di avere meno cose tra cui scegliere.
Sarebbe bello potervi dire che ho visto tutte le serie TV che "contano", ma non è così. E, addirittura, non sono mai riuscita a vederne due che vengono considerate dal mondo intero capolavori assoluti: The Wire e Breaking Bad. Ci ho provato, ma non sono riuscita "ad entrarci", come si dice. Che volete farci, le serie TV sono una questione molto personale, la gioia scatta o non scatta, si entra nel tunnel o non si entra. La bravura e la bellezza non c'entrano. Mi dico che un giorno ci riproverò, e allora forse scatterà la scintilla. 
Ma per il momento, cari lettori, this is it!

10 - QUEER AS FOLK British Version (1999-2000)
Nel momento di massimo splendore del politically correct, nel periodo in cui i personaggi gay cominciavano timidamente ad apparire in film e telefilm ma, per carità, soprattutto che siano tanto carini e sensibili, ecco comparire sulla scena lui: Stuart Alan Jones. 
Bello, gay, strafottente, e soprattutto stronzo. Evviva.
9 - LES REVENANTS (2012 - )
Ebbene sì, i francesi non solo hanno inventato la baguette, lo champagne e la Nouvelle Vague, ma sono bravissimi anche a fare serie TV!
L'idea dei morti che tornano tra i vivi non da zombie ma da persone normali, uguali a quando erano scomparsi, è tanto semplice quanto potente. Tutto funziona, in questa serie: l'atmosfera, gli attori, le storie. Aspetto la seconda stagione con trepidazione ed impazienza. 
Che cosa succederà al nostro piccolo Victor?
8 - DOWNTON ABBEY (2010 - )
Lo so, dopo un paio di stagioni da urlo, tanti dicono che Downton Abbey sia diventata, col tempo, una soap opera di livello non proprio eccelso. Se ne può discutere, sono pure pronta a dare ragione ai detrattori su alcune cose, ma la verità è che poche cose al mondo mi hanno dato piacere come guardare questa moderna versione di Upstairs, Downstairs
God Save the Queen, ma soprattutto Maggie Smith!
7 - DEXTER (2006 - 2013)
E' vero, il finale è insulso, orribile ed imperdonabile, ma che ci volete fare?
Io a Dexter sono affezionata in maniera viscerale. Perché per le serie TV vale un po' quello che vale nella vita: a volte è ai personaggi più bizzarri che ci sentiamo più vicini.  
Per me la quinta stagione, quella di Lumen, ha significato molto: anche i serial killers, in fondo, hanno un'anima.
6 - THE OFFICE British version (2001 - 2003)
Non mi sono mai sentita tanto a disagio e non ho mai riso tanto come guardando The Office. Ricky Gervais ha il dono di mostrare il peggio dell'essere umano in maniera assolutamente irresistibile. Una pietra miliare della TV inglese. Imperdibile.
5 - TOP OF THE LAKE (2013)
Non c'è niente di più impressionante, per me, di qualcuno che riesce, attraverso le immagini, ad appiccicarti addosso una sensazione, un malessere, un disagio, una paura. Jane Campion ha saputo creare un universo, in Top of the Lake, che io non dimenticherò mai. Senza contare che le donne, come le fa vedere lei, non le fa vedere nessuno. Così vive, problematiche, paurose, potenti, assolute. In una parola: indimenticabili.
4 - LIFE ON MARS British version (2006 - 2007)
L'ho già scritto una volta, in questo blog: Life on Mars mi ha salvato la vita. E non è una frase ad effetto, credetemi. Mi sono buttata su questa serie TV come ci si butta su una scatola di psicofarmaci. E ha funzionato. La storia di un poliziotto di Manchester che fa un incidente e si ritrova nel 1973. Tutto qui. Semplice e geniale. La serie Tv giusta al momento giusto. Di medicine non ce n'è stato bisogno, love.
3 - IN TREATMENT (2008 - 2011)
Chi l'avrebbe mai detto: mezz'ora in cui l'unica cosa che si vede è uno psicologo e un paziente che si parlano, e una delle esperienze più coinvolgenti della mia vita. Non credo di essermi mai ripresa dall'annuncio che non ci sarebbe stata una quarta stagione. Perché quando il terapista è Gabriel Byrne, vi assicuro, poi diventa difficile farne a meno.
E non credo ci sia bisogno di scomodare Freud per spiegarvene la ragione.
2 - SIX FEET UNDER (2001 - 2005)
La madre di tutte le serie TV, per quanto mi riguarda. 
Mai avrei creduto possibile sviluppare un tale affetto per una famiglia di becchini di Los Angeles. Eppure. I Fisher hanno saputo parlare in maniera nuova, moderna e profonda a tantissime persone. Noi li abbiamo seguiti, li abbiamo capiti, li abbiamo amati. 
Se esiste un vero "Mai più senza", nella mia vita, è dedicato a loro.
1 - MAD MEN (2007 - )
Che volete che vi dica? C'è un prima e c'è un dopo. 
La serie TV di riferimento. La perfezione quasi assoluta. 
La magica ricostruzione di un mondo che diventa più concreto e moderno di quello vero, tracce di vita che diventano lo specchio della storia che cambia, dell'innocenza perduta, e la creazione di un personaggio, quello di Don Draper, che resta un mistero dall'inizio alla fine. Una serie TV che fa male, ma con una tale eleganza, un tale stile! 
La primavera 2015 ci regalerà l'ultima stagione: The End of an Era (potete scommetterci!).
Un Old Fashioned non avrà MAI più lo stesso sapore. 
Finché siamo ancora in tempo, meglio ordinarne due.

martedì 17 giugno 2014

The Crying Game

 
On Sunday night, while the rest of the nation where I live was looking at the first football match involving Les Bleus, I realized that Arté was showing Secret and Lies by Mike Leigh
I know this movie by heart: Leigh (my readers are well aware of this) is one of my favourite directors of all time and I consider Secrets and lies an absolute masterpiece.
I immediately wrote something on my Facebook page suggesting my French friends who were not interested in the World Cup to watch the movie, but I didn’t expect I would have watched it myself all over again for the 10th time. And I was even more surprised when, looking at my favourite scene, I started to cry… well, it would be more accurate to write I started sobbing.
Is this happening to you too? I mean: am I the only one who is capable of crying over and over again at a certain scene of a certain movie, no matter how many times I watched it?
Some movies touch a particular part of our soul, I guess, and there is nothing we could do about it. Usually people are ashamed to admit they cry in cinemas, but I am not. I proudly confess to weep very often watching a movie, and I decided to publicly confess Zazie's TOP 5 MOST EMOTIONAL MOVIES:


5 - My life without me by Isabel Coixet (2003)
I really love Isabel Coixet’s cinema and I think My life without me is an underestimated great movie of cinema history. Ann, a 23 years old wife and mother living in Vancouver, finds out to have an inoperable cancer. She decides not to tell her husband, her two young daughters and her mother, and she prefers to prepare them to the life “without her”. Of course, the subject would break anybody’s heart, but Coixet never takes advantage of its tearful potential. The film is simple, candid and full of life, and Sarah Polley is amazing in the role of Ann.
It it almost impossible, though, not to weep every now and then. 
I personally did it - non stop - for the last 45 minutes of the movie.

4 – Au revoir les Enfants by Louis Malle (1987)
Based on a real story that happened to Louis Malle when he was a young boy under the German occupation, this movie builds up, scene after scene, a degree of emotion difficult to handle. On the last scene, when the Gestapo embarks some students and the priest and you hear him saying: “Au revoir, les enfants!”, I defy any single human being not to burst into tears like a little baby. The most heart-breaking quote of cinema history.



3 - Secrets and Lies by Mike Leigh (1996)
I have cried at every Leigh’s film, but this wins hands down.
I guess I cry so much watching this movie partly because Leigh has a special way of showing people in their most fragile and human conditions, and partly because the actors play so amazingly well that I am shaken by their immense talent. In this scene, one of the most beautiful, compelling and moving of Leigh’s cinema (and of cinema tout court), Brenda Blethyn is able to pass from incredulity to bewilderment, from hilarity to desperation in a way that it’s simply impossible to forget. If you don’t cry watching her, your heart is made of stone, believe me:

2 - Breaking the Waves by Lars Von Trier (1996) 
This film is present in almost all my TOP 5 movies of no matter what category, and I guess you have to get used to it, because it was one of those films having an incredible impact on my life. As I already had the chance to write in this blog: the death of Bess McNeil is one of the saddest moments I have to endure at cinema. Until today, it is just impossible for me not to drop a tear if I hear the first notes of Life on Mars by David Bowie.

1 - Everyone’s Waiting - Final Episode of Six Feet Under by Alan Ball (2005)
I know, this is not a movie I saw in a cinema. This is not even a movie, but I can’t deny that my most epic desperate moment in front of a screen was the final scene of the final episode of Six Feet Under. Friends who watched it before me had warned me about it but nothing could have prepared me for this emotional turmoil. We are talking about a series of almost 10 years ago, so I don’t think it will be a spoiler for anybody if I write that Alan Ball showed us the death of every single character in the story. Not a real surprise, since the main theme of this series actually is death, but after 5 seasons I was so attached to the Fisher family, that I started to cry at the first death and I stopped many hours after the last one. I cried so much that next day, arriving at the office, all my colleagues asked what tragedy had occurred to me.
On the side cover of Six feet Under's box set (having the shape of a grave, ça va sans dire!) you can read these words: Everything. Everyone. Everywhere. Ends.
They were clearly underestimating my tears.

sabato 16 novembre 2013

Una Blogger Italiana a Parigi... e Tokyo!

A grande richiesta, ecco il testo integrale (+ immagini) della piccola conferenza che ho tenuto lunedì 28 Ottobre all'Istituto Italiano di Cultura di Tokyo (ancora grazie all'Istituto, al suo direttore Giorgio Amitrano e a tutti quelli che sono venuti a sentirmi!):

UNA BLOGGER ITALIANA A PARIGI
 
Breve introduzione fatta in Giapponese (che coraggio, eh!):
Buonasera,
Mi chiamo Francesca, ma tutti mi chiamano Zazie.
Mi dispiace di non poter tenere questa piccola conferenza in Giapponese, anche se amo moltissimo la vostra lingua e l’ho studiata quando ero giovane.
Grazie della comprensione!


Vorrei cominciare dall’inizio, a raccontare questa storia, dal mio primo ricordo cinematografico.
Sono nata e cresciuta in un piccolo paese in provincia di Milano, dove esistevano solo due cinema, quello parrocchiale e quello dove non si poteva andare, perché considerato scandaloso. E non perché ci proiettassero film vietati ai minori, ma semplicemente perché si proiettavano film di tutti i tipi, e non solo quelli considerati moralmente irreprensibili.
Purtroppo la mia famiglia era molto per bene, e quindi io potevo frequentare solo il cinema parrocchiale. Dovevo avere sì e no cinque anni quando i miei genitori mi hanno portato a vedere Little Women (Piccole Donne), il film del 1949 di Mervyn LeRoy.

E’ stata come una folgorazione. Già così piccola, avevo voglia di scappare lontano, e mi affascinavano mondi e lingue sconosciute, e l’idea di poter vedere sul grande schermo una storia che non aveva nulla a che vedere con la mia vita e quello che mi circondava, mi sembrava una cosa straordinaria.
Di quella prima visione, ricordo soprattutto di quanto mi stesse antipatica la piccola Elizabeth Taylor nel ruolo di Amy e di quanto amassi (un classico di tutte le bambine) June Allyson in quello di Jo.

Amy (Elizabeth Taylor) and Jo (June Allyson)
Per quella bambina che voleva scappare, crescendo, le cose non sono cambiate. Anzi, più diventavo grande e più voglia avevo di scoprire mondi esotici e lontani, e il cinema mi veniva sempre in aiuto.
Ovviamente, grazie al fatto di essere diventata grande, potevo frequentare tutti i cinema che volevo, soprattutto quelli d’arte e d’essai, di Milano. Ed è stato in un cinema di Milano che ho visto per la prima volta un film francese intitolato Hiroshima Mon Amour, di Alain Resnais, del 1959. Quelle immagini in bianco e nero, la storia d’amore tra un’attrice francese e un architetto giapponese, la città un tempo devastata dalla bomba atomica che ora faceva da sfondo ad un momento felice, pur intriso di ricordi legati alla guerra, mi hanno segnato per sempre. A poco a poco, ho iniziato ad interessarmi al vostro paese, alla sua cultura, alla sua letteratura, al suo cinema, alla sua storia, fino a decidere di studiare la vostra lingua. In un certo senso, se oggi mi trovo qui a fare questa piccola conferenza davanti a voi, lo devo proprio a questo magnifico film. 

Lei (Emmanuelle Riva) e Lui (Eiji Okada)
Con il passare degli anni, la mia passione per il cinema non solo non è diminuita, ma - se possibile - è addirittura aumentata. E mi sono resa conto di una cosa, che la gioia più grande per me era quella di raccontare e far scoprire a chi mi circondava i film che amavo.
Per questa ragione, più o meno quando avevo 30 anni, ho deciso di creare un piccolo cineclub. Domestico, per così dire, perché la sua sede era proprio il mio appartamento. All’epoca, vivevo in una città di mare del nord Italia, Genova, e non avevo certo una grande casa. E neppure un grande schermo, se per questo. Anzi, lo schermo della mia TV era piccolissimo. Eppure, per più di cinque anni, una volta al mese, un gruppo di amici si è ritrovato nel mio cineclub a vedere film a dir poco bizzarri. Prima della proiezione io facevo una breve presentazione della pellicola, e dopo il film seguiva un dibattito (a volte molto acceso). Negli anni, ho proiettato davvero di tutto: film francesi di 3 ore e 40 minuti, film italiani sconosciuti e dimenticati degli anni ‘50, film del Free Cinema inglese degli anni ‘60, e un anno, addirittura, tutta la prima stagione di una serie TV che mi faceva impazzire: Six Feet Under di Alan Ball.

I miei amici, con mia grande sorpresa, guardavano tutto senza battere ciglio.
Anzi, più il film era strano e difficile, più loro sembravano apprezzarlo.
L’idea del cineclub è stata una delle migliori idee che io abbia mai avuto, e mi ha definitivamente convinto di quanto fosse importante, per me, condividere con gli altri il mio amore per il cinema.
Al momento di sceglierne il nome, ho pensato ad un personaggio cinematografico (e prima ancora letterario) per il quale ho sempre provato una grande simpatia, quello della piccola Zazie di Zazie dans le métro. La pestifera ragazzina di campagna dai capelli corti e l’aria insolente che, arrivata a Parigi a trovare lo zio, sogna di fare un giro in metropolitana ma non ci riesce mai. Nata dalla penna di Raymond Queneau, Zazie e le sue avventure parigine sono state portate sullo schermo dal regista Louis Malle nel 1960. Un film un po’ surreale, pieno di vita e di colori, un’esplosione di gioia ed allegria a cui è difficile resistere. 

Dato che facevo le cose, anche se domestiche, in maniera molto seria, il mio Cinéclub de Zazie si preoccupava di mandare inviti ufficiali per le proiezioni.
Eccone alcuni esempi, che ho pensato potrebbero piacervi, e che vi possono dare un’idea dei film che programmavo: 

L’attività del Cinéclub de Zazie è terminata nel momento in cui ho lasciato l’Italia per andare a vivere all’estero, e, neanche a farlo apposta, proprio nella città di Zazie: Parigi. 
Lo ammetto: avevo sempre sognato di andare a vivere lì.
Per una persona che adora i film, Parigi è come per Pinocchio il Paese dei Balocchi. Ci sono più sale cinematografiche per metro quadro che in qualsiasi altro luogo del mondo, e si può vedere ogni tipo di film: prime visioni, vecchie pellicole, rassegne di ogni sorta, retrospettive complete di autori francesi e stranieri, incontri con i registi, insomma, Parigi è uno scrigno dai tesori infiniti. Posso dire con franchezza che i primi anni, e a volte ancora oggi, ho sofferto di una specie di stress da troppo cinema, ovvero: la scelta è talmente ampia che si fa fatica a stare dietro a tutto, ad approfittare di ogni occasione che la città offre.
Nell’entusiasmo dei miei primi tempi a Parigi, ho un po’ dimenticato l’attività di divulgazione che mi stava tanto a cuore: troppi film da vedere per trovare il tempo di fermarsi e ricreare uno spazio-cineclub, senza contare che la taglia di una città come Parigi non è certo la stessa di Genova. Gli spostamenti diventano più complicati, la vita delle persone ha ritmi più frenetici, e la scelta di visioni a disposizione è tale che certo non si sente la mancanza di una nuova sala. Peccato, però, perché mai come in quel momento avrei avuto così tante cose da raccontare e così tanti entusiasmi da condividere.
Un giorno che mi stavo lamentando di questa situazione con mio fratello, lui mi ha suggerito l’idea di scrivere un blog, uno spazio virtuale in cui annotare tutto il cinema che Parigi mi offriva. Detto fatto, il 21 Settembre 2009, ho scritto e messo in linea il mio primo post:

http://leblogdezazie.blogspot.fr/2009/09/intro_21.html
Quando mi sono messa a pensare ad un nome per il blog, mi è venuto spontaneo recuperare l’esperienza genovese e dedicarlo ancora una volta al personaggio di Zazie. E’ così che è nato Le Blog de Zazie, il cui sottotitolo, in francese, recita: Chroniques cinéphiles d’une Italienne à Paris (cronache cinefile di un’Italiana a Parigi). 
Dovendo scegliere, oltre che un nome, un’immagine con cui aprire la mia pagina, ho avuto l’idea di utilizzare un’illustrazione che un amico artista (il québecois Pascal Blanchet) aveva fatto qualche tempo prima. Pur non conoscendomi di persona, ma soltanto attraverso Facebook, Pascal un giorno aveva fatto un mio ritratto che aveva concepito – secondo le sue stesse parole - come un poster cinematografico. Ovviamente la cosa mi aveva reso particolarmente felice, e quando gli ho chiesto se potevo utilizzarla per il blog e lui mi ha dato l’ok, lo sono stata ancora di più. Eccola qui:
Oggi, a 4 anni di distanza da quel primo post, posso dire che scrivere un blog è stata e continua ad essere una delle esperienze più interessanti, stimolanti ed entusiasmanti della mia vita.
Ma che cosa vuol dire, esattamente, scrivere un blog? 

Quando si comincia, si ha davanti una pagina vuota da riempire, ed infinite possibilità. Ai miei inizi, l’unica cosa di cui ero certa era che il solo argomento di cui volevo scrivere fosse il cinema, ma allo stesso tempo, non volevo limitarmi a pubblicare semplici recensioni degli ultimi film visti. Dopo così tanti anni di amore per lo schermo e per il buio delle sale, il cinema è per me diventato molto più di un passatempo: è il prisma attraverso cui filtro la realtà che mi circonda, il codice segreto con cui la leggo e la interpreto. Ho quindi trovato il modo, scrivendo, di parlare di tutto quello che mi sta veramente a cuore: ho scritto di film che ho amato o odiato appassionatamente, di registi che mi sembravano troppo dimenticati, di film che giudicavo ingiustamente sottovalutati, di attori incontrati, di sale cinematografiche visitate in ogni parte del mondo, di scoperte che mi hanno riempito di entusiasmo, e di come avvenimenti comuni o quotidiani mi riportassero sempre a scene di film. Gran parte di quello che ho vissuto è passato attraverso il blog, e sono io la prima a stupirmi di quante cose abbia potuto raccontare nel corso di questi anni. 
Ad esempio, quando sono arrivata a Parigi, il cinema ha subito fatto capolino, anche nella scelta del posto in cui vivere. La mia zona preferita della città era Montmartre, ovviamente per ragioni cinematografiche: la tomba del mio regista preferito di tutti i tempi, François Truffaut, si trova nel cimitero di Montmartre:
e nella stessa zona, è stato ambientato un film che amo molto (e so che è molto amato anche in Giappone): Le Fabuleux Destin d’Amélie Poulain di Jean-Pierre Jeunet. Praticamente tutti i giorni, per tornare a casa, devo passare di fronte al Café des 2 Moulins, il caffè nel quale lavorara Amélie:
Ed ogni volta non posso fare a meno di pensare ad una storia molto divertente che aveva raccontato lo stesso regista: un giorno, si era dato appuntamento lì con l’attrice americana Jodie Foster che, entusiasta di Amélie, lo voleva incontrare di persona per parlare di una possibile collaborazione futura (l’attrice ha poi recitato nel film di Jeunet Un long dimanche de fiançailles/Una lunga domenica di passioni). All’uscita, si erano intrattenuti in conversazione ancora per qualche minuto sul marciapiede di fronte al caffè. Ed è stato lì che Jeunet si è accorto di alcuni turisti giapponesi che, lui credeva, volevano fare una fotografia a lui e Jodie Foster. Ha quindi fatto segno all’attrice di mettersi in posa, ma quando si sono trovati di fronte l’obiettivo, con grande sorpresa, hanno capito che i turisti stavano facendo loro segno di spostarsi. Non li avevano neppure riconosciuti, quello che loro stavano cercando di immortalare era il caffè di Amélie Poulain!
Parigi, in questo senso, è una vera miniera d’oro.
Ad ogni angolo di strada, può capitare di imbattersi nel “tournage” di un film. La più memorabile di queste avventure, a me, è successa un paio d’anni fa, quando Woody Allen stava girando in città il suo film Midnight in Paris.

Era un giovedì sera e stavo andando a cena a casa di amici dalle parti di Place Monge: avevo bisogno di acquistare una bottiglia di vino ma in zona non riuscivo a trovare nessun negozio aperto. Alla ricerca della bottiglia, mi sono imbattuta in un grosso camion che mi bloccava la strada. Una ragazza mi si è avvicinata: “Di qui non si può passare”, mi ha detto. Mi sono resa conto all’improvviso che tutt’intorno avevo grandi macchinari, cineprese, decine di tecnici, enormi luci. Stavano girando un film! Per cui mi sono messa ad osservare meglio: a pochi passi da me c’erano l’attore americano Owen Wilson e, di fianco a lui, Carla Bruni Sarkozy, in quel momento First Lady di Francia. Poco distante, trincerato dietro un monitor, se ne stava tranquillo e concentrato uno dei miei registi preferiti: Woody Allen. Con il suo berretto, i suoi occhiali, i suoi pantaloni di velluto, la sua camicia con il gilet. Insomma il Woody Allen che siamo abituati a vedere sui giornali, ora se ne stava lì davanti a me. Sono stata a lungo ad osservare il set, cercando di capire come lui girasse una scena, cercavo di indovinare le sue scelte, il suo stile, il suo modo di dirigere gli attori. Ero stupita dal grande silenzio che regnava sul posto. Tutti si muovevano in maniera circospetta e parlavano a bassa voce. Inutile dire che sono arrivata alla cena dei miei amici molto in ritardo... Però che scoop incredibile per il mio blog! 
Owen Wilson, Carla Bruni Sarkozy e Woody Allen
Woody Allen e Carla Bruni Sarzoky
L’unico grande dispiacere che ho avuto è stato quando, andando a vedere il film al cinema, mi sono resa conto che la scena che avevo visto girare era stata tagliata!
Ma immagino che non si possa avere tutto, dalla vita…
Ho una storia ancora più incredibile da raccontare, a questo proposito: un giorno di qualche anno fa, mi sono trovata nella casella della posta la lettera di una compagnia di produzione cinematografica nella quale si avvertivano gli abitanti della zona che di lì a poche settimane sarebbe iniziato il tournage di un film proprio nella nostra via. Si scusavano anticipatamente del disagio che questo avrebbe creato e raccontavano a sommi capi la trama della pellicola. Il film in questione si intitola La Rafle, della regista Rose Bosch, e parla di un episodio particolarmente drammatico della storia francese: la retata di Vel d’Hiv. All’alba del 16 Luglio 1942, nel periodo in cui Parigi era occupata dai nazisti, la polizia francese ha arrestato nelle loro case tredicimila ebrei, o presunti ebrei, di cui quattromila e cinquecento bambini, e li ha lasciati ammassati in condizioni disumane per qualche giorno nel Vélodrome d’Hiver per poi deportarli nel campo di sterminio di Auschwitz-Birkenau. Quasi nessuno di loro è sopravvissuto. La maggior parte degli ebrei parigini viveva a Montmartre, ed è per questa ragione, e per la bellezza della corte interna di un palazzo pochi numeri più in là del mio, che avevano deciso di girare il film proprio nella nostra via. La lettera era arrivata con largo anticipato, ed io mi ero quasi dimenticata di averla ricevuta, quando un giorno del Maggio 2009, rientrando dal lavoro, ho visto la strada in cui vivevo trasformata da semplice, comune via della mia vita quotidiana, in un set cinematografico. Come per magia, dal mattino alla sera, mi sono ritrovata in una strada degli anni ‘40. C’era un negozio che vendeva carbone, uno specializzato in pavimenti in linoleum, un ebanista, un atelier che riparava biciclette, un hotel, una rivendita di vini e liquori. Tutte cose che nella realtà non esistevano e che invece adesso erano lì sotto i miei occhi, più reali che mai. Come sul set di Woody Allen, anche qui c’erano grandi luci, macchinari e tanti tecnici tutt’intorno. Per un attimo, ho anche avuto paura di non riuscire a raggiungere il portone di casa. Ho dovuto spiegare a qualcuno della troupe che vivevo al numero 44 e allora mi hanno fatto passare. La mia casa era esattamente sul limitare del set cinematografico: avevano costruito una lunga parete in legno che divideva il set dal resto della strada, e a ridosso di questa parete avevano messo dei tavoli che servivano da piccola mensa. Giorno dopo giorno, ho iniziato a farci l’abitudine: le persone del film mi riconoscevano, e urlavano agli altri: Fate passare, la signora abita qui! Qualche volta trovavo soldati in uniforme che mangiavano una zuppa fuori dal mio portone, con i fucili a tracolla, e le svastiche sulla giacca, qualche volta c’erano macchine e autobus d’epoca che facevano manovra lungo la strada. Era bellissimo e speciale, e io ero talmente felice di vivere negli anni ’40 che alla fine mi sembrava la cosa più normale del mondo. Il giorno in cui, com’era iniziato, tutto questo è sparito, dal mattino alla sera, lo confesso, è stato un trauma. All’improvviso, la mia strada era tornata ad essere la solita, moderna strada. Niente più soldati, niente più hotel, o ebanista, niente più set, né finzione. Una tristezza immensa. Il cinema era sparito, la vita vera aveva preso il sopravvento. Per mesi, non so come, ha resistito una delle vecchie insegne: Bois et Charbon, Legno e Carbone, come se ce l’avessero lasciata in regalo, in ricordo di quei bellissimi momenti in cui la vita era un film!
Come non raccontare questa storia nel mio blog? 
Parigi comunque è la città perfetta non solo perché ci girano tanti film, ma anche perché nelle sue sale si possono fare delle grandiose scoperte cinematografiche, spesso grazie ai vari Festival che vi si organizzano. Prendete il Festival “Cinéma du Réel”, che si svolge ogni anno al Centre Pompidou e mostra la migliore produzione di documentari in circolazione. Tre anni fa, per caso, è stato proprio lì che ho scoperto una delle pellicole più interessanti degli ultimi anni: La Bocca del Lupo, del giovane regista casertano Pietro Marcello. 
Uno strano oggetto-filmico in bilico tra il documentario e il film di finzione, che racconta la storia d’amore tra un ex-carcerato e una transessuale, il tutto con inserti poetici, vecchie immagini di Genova, e momenti di grandissima emozione. Ecco: che bello avere un blog di cinema il giorno in cui si scopre una pellicola di questo tipo. La felicità che si prova nello scrivere con entusiasmo di una storia così particolare e preziosa, sperando che qualcuno la legga e abbia voglia a sua volta di andarla a scoprire, è fortissima, vi assicuro. Quel post mi ha portato molte cose belle (perché le vie dei blog – bisogna dirlo - sono infinite): amici comuni hanno parlato di quanto avevo scritto a Pietro, lui mi ha contattato e mi ha mandato il suo primo lavoro, altrettanto interessante: Il Passaggio della Linea, e poi un giorno a Roma ci siamo conosciuti. Un blog significa anche trovare nuovi amici, vi sembra poco?
Pietro Marcello (Il Regista) e Zazie (La Blogger)
 E un blog serve anche a ricordarli, gli amici. Quelli che non abbiamo mai conosciuto nella realtà, ma che abbiamo imparato ad amare grazie al cinema, dietro o davanti la macchina da presa. Purtroppo in questi ultimi anni ho perso molti di loro, e a ciascuno ho dedicato un ricordo, perché credo nell’importanza della memoria cinematografica ed umana. Ho quindi scritto di Eric Rohmer

Claude Chabrol 
Giuseppe Bertolucci
Nora Ephron 
Pete Postlethwaite 
e, molto recentemente, di Patrice Chéreau  
Ad ogni modo, e per fortuna, sono molto più frequenti i momenti esaltanti di cui si può raccontare, in un blog, perché a volte mi sono successe proprio delle cose incredibili, come quelle che accadono nei film. 
Un giorno ero a Los Angeles per l’inaugurazione di un museo progettato dallo studio di architettura per cui lavoro e avevo scoperto, nella lista degli invitati, il nome di un attore che amo molto, l’americano James Franco. Di solito, in questo genere di serate, è molto facile incontrare e parlare con le persone al momento dei cocktail. La gente si aggira per le stanze chiacchierando e sorseggiando champagne, in un’atmosfera rilassata e mondana, che invita a socializzare. Nel corso della cena, invece, tutto diventa più formale: i posti sono assegnati, ci si ritrova bloccati accanto a perfetti sconosciuti, costretti a fare conversazione su argomenti noiosi e ininteressanti. Dato che James Franco nel corso dell’aperitivo non si era visto, mi ero scherzosamente lamentata di questa mancanza con la collega del museo responsabile dell’avvenimento. Lei mi aveva detto: “Ti assicuro che arriverà, me lo ha confermato”. E io, di rimando: “Sì, ma sarà troppo tardi, perché una volta seduti al tavolo non si potrà più conoscere nessuno”. “Ti prometto che te lo porto al tavolo, se arriva”, erano state le sue ultime parole, che io però avevo interpretato come una sorta di scherzo.
Avevo già dimenticato il nostro dialogo quando, seduta al tavolo, ho visto arrivare la signora in questione seguita dal fotografo del museo e da qualcuno che non riuscivo a vedere. Quel qualcuno era proprio James Franco. Si è avvicinato a me (mentre io cercavo di mandare giù in un sol boccone il gamberetto che mi ero appena portata alla bocca) e dandomi la mano mi ha detto: “La ringrazio per questa foto che sta per fare con me!”. In effetti, sotto lo sguardo stupito degli altri commensali, abbiamo fatto una foto insieme e abbiamo anche chiacchierato per un po’: di arte, film, Los Angeles, Parigi, e ho persino avuto la faccia tosta di dargli il biglietto da visita del mio blog. Ancora oggi, non so cosa la mia collega del museo gli abbia detto per riuscire a convincerlo a farmi questo regalo, ma non importa, a volte i sogni si realizzano, e che si realizzino nella città dei sogni, tutto sommato, ha una sua logica. Ecco qui, a testimonianza dei fatti, la famosa foto in questione:

E se qualcuno vuole saperlo, la risposta è sì: James Franco dal vivo è proprio bello come appare sullo schermo!
L’altro avvenimento davvero straordinario a cui ho assistito, sempre grazie al mio lavoro, è stata la Notte degli Oscar 2013
, lo scorso Febbraio a Los Angeles. Inutile negarlo, per il mio blog è stato un piccolo trionfo, e ho cercato di sfruttare l’occasione fino in fondo. Ne sono usciti 5 lunghi post in cui racconto le mie avventure a Hollywood: dalla disastrosa pedicure del pre-avvenimento al viaggio per arrivare al teatro, dalle prime impressioni sul red-carpet allo svolgimento della cerimonia, sino ad arrivare al resoconto delle feste dopo-Oscar, il Governors Ball e il Vanity Fair Party:
 Lo ammetto, a volte è gratificante togliersi alcune soddisfazioni grazie al blog. In quanto appassionata di cinema, vedo una media di 80-85 film all’anno, in sala, e annoto scrupolosamente il titolo di ogni pellicola, con il nome del regista ed il paese di provenienza. A Gennaio, quando i rappresentanti dell’Academy of Motion Pictures, a Los Angeles, annunciano le loro candidature per i premi Oscar, io mi sono sempre sentita un po’ gelosa: perché loro possono dare questi premi e io no? Ecco che il blog mi è venuto in aiuto anche sotto questo punto di vista: da quando lo scrivo, ogni anno a Febbraio, prima degli Oscar ma dopo i Golden Globes, annuncio e metaforicamente “consegno” il mio premio personale, lo Zazie d’Or!


Le categorie sono più o meno le stesse, quelle classiche: miglior film, miglior regia, miglior sceneggiatura, miglior attore ed attrice e così via. Certo, i premiati di solito sono molto, molto diversi rispetto a quelli degli Oscar. E poi io ho una categoria speciale che loro non hanno, una marcia in più di Zazie, il JEREMY IRONS AWARD, detto anche Man of my Life Award. Mi spiego meglio: l’attore inglese Jeremy Irons è, da quando ho 15 anni, il mio attore preferito, ma soprattutto un uomo che a mio parere non è secondo a nessuno in quanto a fascino e bellezza. Quindi ogni anno scelgo un attore, per così dire “speciale”, a cui consegnare questo importantissimo riconoscimento. La caratteristica di questo premio è che il vincitore, in linea teorica, dovrebbe venire a ritirarlo direttamente a casa mia, e qui ammetto che la donna ha un po’ il sopravvento sulla blogger… ma state tranquilli, per il momento, con mio grande disappunto, nessuno dei vincitori è mai venuto a reclamare il suo trofeo. 
E tuttavia, poiché la vita delle bloggers è piena di sorprese, quest’anno ho potuto consegnare realmente uno dei miei Zazie D’Or, quello del miglior attore. A Febbraio, infatti, quando sono stata alla Notte degli Oscar, ho incrociato nei corridoi del teatro in cui si svolgeva la cerimonia l’attore danese Mads Mikkelsen, a cui avevo assegnato il premio per la sua interpretazione nel film Jagten/Il Sospetto di Thomas Vinterberg. Non chiedetemi come io abbia trovato il coraggio di fermarlo, parlargli del mio blog, e del premio, ma è proprio andata così. Alla sua domanda: “E in che cosa consiste questo Zazie d’Or?”, io, in un momento di (spero) momentanea follia, mi sono avvicinata a lui, l’ho abbracciato e l’ho baciato. Anche se stupito, lui è stato così simpatico da dirmi: “Grazie, il premio è molto carino”. E per sua fortuna non aveva preso il Man of Life Award, altrimenti non avrebbe avuto scampo, il poveretto!
Quando si scrive un blog, credo sia normale farsi continuamente delle domande sui nostri possibili lettori. Intanto, sembra già piuttosto incredibile di averne, di lettori. Persone che trovano il tempo, nelle loro giornate complicate e piene di impegni, di fermarsi a leggere quello che abbiamo scritto sul cinema. Se ci penso, mi sembra davvero la cosa più straordinaria di tutte. Che qualcuno mi legga, lo so per certo: grazie alle statistiche del blog, grazie al fatto che quando metto in linea un post e pubblico un link sulla mia pagina Facebook, vedo che ci sono persone che si collegano.
E’ interessante anche cercare di capire i gusti, dei miei lettori. La piattaforma del mio blog prevede una rubrica dove vengono indicati i cinque post più letti in assoluto, da quando ho creato il blog ad oggi. Con mia grande, grandissima sorpresa, il post più letto di tutti questi anni è un testo che io consideravo, diciamo così, “minore”. Su un tema che mi sta molto a cuore, questo è vero, ma che immaginavo un po’ irrilevante per tutti gli altri. Anni fa la Cinémathèque Française ha organizzato una mostra dal titolo: Brunes/Blondes, Bionde/Brune, dedicata alle attrici e alle loro chiome. 

La mostra era molto bella, ma io le avevo trovato un grande difetto: trovavo che le attrici con i capelli corti non fossero abbastanza rappresentate. Essendo io una donna dai capelli corti, sin dalla più tenera infanzia, la questione mi toccava davvero da vicino. Così ho scritto un post dal titolo: Le ragazze dai capelli corti, dove facevo diversi esempi di donne belle ed affascinanti della storia del cinema che sfoggiavano con grande classe ed eleganza una zazzera corta. E guarda un po’, i miei meravigliosi lettori, per ragioni che ancora oggi mi appaiono imponderabili, hanno premiato quel piccolo post grazie al loro entusiasmo, al punto che ne ho fatto seguire un successivo, intitolato: La rivincita delle ragazze dai capelli corti, con nuovi, entusiasmanti esempi di attrici dal taglio cortissimo. 
Che posso dire? I miei lettori sono addirittura più avanti di quanto avessi mai potuto sperare.
Da sinistra a destra e dall'alto al basso:
Jacqueline Bisset
Winona Ryder
Mia Wasikowska
Zazie
Isabella Rossellini
Emma Watson
Audrey Hepburn
Emma Thompson
Shirley MacLaine
Charlize Theron
Judy Dench
Audrey Tautou
Leslie Caron
Katherine Hepburn
Natalie Portman
E’ un po’ lo stesso stupore che provo quando mi accorgo che mi hanno lasciato dei commenti. Persone che oltre a leggere un post hanno anche la pazienza e l’amabilità di farti sapere che hanno apprezzato quello che hai scritto: questo è proprio il massimo. In assoluto, il commento che mi piace di più, è quando leggo: Mi hai fatto davvero venire voglia di andare a vedere questo film!
Ecco, se un giorno qualcuno dovesse chiedermi: perché hai scritto un blog? Perché hai passato serate intere, stanca dopo il lavoro, a metterti lì e pensare a cosa dire di un film e trovare le parole giuste per dirlo? La risposta sarebbe questa: per far venire voglia alla gente di uscire di casa ed andare a sedersi in una sala buia, insieme ad altre persone, ad aspettare che il film cominci. Per stare lì nell’attesa che lo schermo si riempia di immagini, di suoni, voci, musica, e di tutta quella magia di cui il cinema è capace. Non conosco sensazione più bella di questa, nella vita.
Che posso dirvi?
Le piccole donne crescono, ma forse non cambiano mai. 

Jean Seberg
Zazie, Tokyo - 28 Ottobre 2013
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