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venerdì 1 maggio 2020
domenica 28 maggio 2017
Cannes à Paris - Giorno 3
Terzo giorno della rassegna e primi segni di cedimento.
Avrei un biglietto per vedere L'Atelier di Laurent Cantet alle 11 ma preferisco dormire un pochino e iniziare a scrivere le recensioni per il blog (eh, sí, perché il tempo per scrivere bisogna pur trovarlo!).
La stessa cosa mi capiterà la sera, dopo le séances delle 17.30 e delle 19.30: dovrei fermarmi per la visione di Loveless di Andrey Zvyagintsev ma la stanchezza ha il sopravvento e, nonostante scopra che il film ha vinto il Prix du Jury e che tutti ne sono entusiasti, prenderò la via del ritorno a casa...
Ma nel frattempo ecco i due film della giornata, che non avrebbero potuto essere più diversi l'uno dall'altro (è il bello del cinema, ragazzi!):
Wonderstruck di Todd Haynes (US)
Che piacere ritrovare l'universo di un regista così particolare ed interessante come Todd Haynes, il quale torna al Festival di Cannes dopo il grandioso successo di Carol, presentato in competizione nel 2015.
Tratto dal libro di avventure per bambini di Brian Selznick (lo stesso che ha scritto Hugo Cabret, per intenderci), Wonderstruck racconta due storie parallele: una ambientata negli anni '70, il cui protagonista è Ben, un ragazzino di 12 anni che fugge a NY dal Minnesota alla ricerca di un padre che non ha mai conosciuto (e dopo che sua madre è morta improvvisamente in un incidente stradale) e l'altra ambientata alla fine degli anni '30, la cui protagonista è Rose, una ragazzina sordo-muta che fugge a NY dal New Jersey alla ricerca di un'attrice di film muti che lei adora (e si scoprirà poi perché).
Ah che allegria questa storia per bimbi che in realtà fa parecchio bene anche ai grandi.
Haynes è un ottimo affabulatore ed un ottimo regista, per cui è un vero piacere seguire le storie parallele, una girata a colori con la bellissima ricostruzione della NY sporca e cattiva degli anni '70, e l'altra invece filmata in un radioso bianco e nero che omaggia i film dell'epoca del muto e la NY magnifica ed elegantissima della fine degli anni '30.
Forse un pochino troppo lungo (soprattutto nella parte ambientata al Museo di Scienze Naturali dell'Upper West Side), Wonderstruck è un film dal cuore tenero dal quale è facile lasciarsi trasportare.
I passaggi da una storia all’altra sono fluidi ed intelligenti, senza contare che la ricostruzione delle due NY è davvero straordinaria (non so cosa darei per poter andare in quelle meravigliose sale cinematografiche che si intravedono nella parte ambientata negli anni ’30).
Aiutato da un cast di tutto rispetto, e dalla complicità di una delle sue attrici feticcio, Julianne Moore (già protagonista di Far From Heaven e Safe), Haynes ci regala due ore spensierate, nonostante i temi abbordati siano tutt’altro che leggeri.
Difficile restare indifferenti a questa grande dichiarazione d’amore a NY!
Aus dem nichts (In the fade) di Fatih Akin (Germany)
Altro regista che amo molto e tanta felicità all'idea di vedere il suo ultimo lavoro, che scopro essere criticatissimo dal punto di vista "morale", critica che a dire il vero mi lascia sempre un po' perplessa e mi fa già stare abbastanza simpatico il tutto.
In the fade racconta una storia molto dura: Katja e Nuri, tedesca lei, turco lui, sono sposati, hanno un bimbo di 7 anni, e vivono e lavorano ad Amburgo. Una sera, rientrando a casa, Katja scopre che c'è stato un attentato nel quale hanno perso la vita sia il marito che il figlio. Dopo un primo sospetto che si tratti di un regolamento di conti (Nuri in passato è stato in prigione per spaccio di stupefacenti), si fa presto strada la pista di un attentato a sfondo xenofobo da parte di neonazi. La polizia scopre i possibili colpevoli, che vengono processati. Quando però la giustizia fallisce, Katja decide di risolvere le cose a modo suo.
Diviso in tre parti: La Famiglia, La Giustizia e Il Mare, In the Fade è un film dalla struttura molto rigorosa e particolarmente efficace, soprattutto nella parte centrale, quella del processo alla coppia accusata dell'attentato. E' proprio in queste scene che Diane Kruger (scoprirò uscendo dal cinema che ha vinto il premio come miglior attrice) risulta eccezionale: devastata dal dolore ma decisa ad avere giustizia, accetta di avere davanti agli occhi gli assassini di suo marito e suo figlio e la loro freddezza scostante, la loro studiata indifferenza. Il momento in cui chiede di uscire dall'aula perché un perito sta ricostruendo il modo in cui è morto suo figlio e prima di uscire si scaglia contro la donna della coppia, è davvero sconvolgente. In molti hanno criticato il premio alla Kruger, e la cosa mi dà particolarmente fastidio, perché questa attrice da anni si sta costruendo un'ottima carriera, con scelte stilistiche sempre interessanti e mai scontate, recitando in almeno tre lingue diverse (è la prima volta che recita nella sua lingua made, ad esempio). Ma a quanto pare deve ancora scontare il fatto di essere una ex-modella e una donna dalla bellezza notevole, altrimenti non si capisce perché non si meriterebbe un premio per come ha recitato nel film di Akin. Il regista porta alla luce un fenomeno del quale personalmente non avevo mai sentito parlare: in Germani negli ultimi anni un gruppo di neonazi ha ucciso almeno 11 persone. Motivazione degli assassinii: si trattava di persone straniere. Insomma l'unica colpa di questi poveretti era quella di non essere tedeschi. E allora ben venga una storia che racconti un fatto tanto raccapricciante quanto insensato. E quanto alla presunta immoralità del finale, ho trovato particolarmente coraggioso che il regista abbia deciso di essere molto poco politically correct e di mostrare fino in fondo una storia che aveva concepito così.
Giusto o sbagliato che sia dal punto di vista morale.
In the fade è importante proprio per questo: non ti lascia indifferente, ti fa riflettere, ti fa discutere, ti scuote e ti fa mettere in dubbio parecchie cose.
E non mi sembra poco, per un film.
Avrei un biglietto per vedere L'Atelier di Laurent Cantet alle 11 ma preferisco dormire un pochino e iniziare a scrivere le recensioni per il blog (eh, sí, perché il tempo per scrivere bisogna pur trovarlo!).
La stessa cosa mi capiterà la sera, dopo le séances delle 17.30 e delle 19.30: dovrei fermarmi per la visione di Loveless di Andrey Zvyagintsev ma la stanchezza ha il sopravvento e, nonostante scopra che il film ha vinto il Prix du Jury e che tutti ne sono entusiasti, prenderò la via del ritorno a casa...
Ma nel frattempo ecco i due film della giornata, che non avrebbero potuto essere più diversi l'uno dall'altro (è il bello del cinema, ragazzi!):
Wonderstruck di Todd Haynes (US)
Che piacere ritrovare l'universo di un regista così particolare ed interessante come Todd Haynes, il quale torna al Festival di Cannes dopo il grandioso successo di Carol, presentato in competizione nel 2015.
Tratto dal libro di avventure per bambini di Brian Selznick (lo stesso che ha scritto Hugo Cabret, per intenderci), Wonderstruck racconta due storie parallele: una ambientata negli anni '70, il cui protagonista è Ben, un ragazzino di 12 anni che fugge a NY dal Minnesota alla ricerca di un padre che non ha mai conosciuto (e dopo che sua madre è morta improvvisamente in un incidente stradale) e l'altra ambientata alla fine degli anni '30, la cui protagonista è Rose, una ragazzina sordo-muta che fugge a NY dal New Jersey alla ricerca di un'attrice di film muti che lei adora (e si scoprirà poi perché).
Ah che allegria questa storia per bimbi che in realtà fa parecchio bene anche ai grandi.
Haynes è un ottimo affabulatore ed un ottimo regista, per cui è un vero piacere seguire le storie parallele, una girata a colori con la bellissima ricostruzione della NY sporca e cattiva degli anni '70, e l'altra invece filmata in un radioso bianco e nero che omaggia i film dell'epoca del muto e la NY magnifica ed elegantissima della fine degli anni '30.
Forse un pochino troppo lungo (soprattutto nella parte ambientata al Museo di Scienze Naturali dell'Upper West Side), Wonderstruck è un film dal cuore tenero dal quale è facile lasciarsi trasportare.
I passaggi da una storia all’altra sono fluidi ed intelligenti, senza contare che la ricostruzione delle due NY è davvero straordinaria (non so cosa darei per poter andare in quelle meravigliose sale cinematografiche che si intravedono nella parte ambientata negli anni ’30).
Aiutato da un cast di tutto rispetto, e dalla complicità di una delle sue attrici feticcio, Julianne Moore (già protagonista di Far From Heaven e Safe), Haynes ci regala due ore spensierate, nonostante i temi abbordati siano tutt’altro che leggeri.
Difficile restare indifferenti a questa grande dichiarazione d’amore a NY!
Aus dem nichts (In the fade) di Fatih Akin (Germany)
Altro regista che amo molto e tanta felicità all'idea di vedere il suo ultimo lavoro, che scopro essere criticatissimo dal punto di vista "morale", critica che a dire il vero mi lascia sempre un po' perplessa e mi fa già stare abbastanza simpatico il tutto.
In the fade racconta una storia molto dura: Katja e Nuri, tedesca lei, turco lui, sono sposati, hanno un bimbo di 7 anni, e vivono e lavorano ad Amburgo. Una sera, rientrando a casa, Katja scopre che c'è stato un attentato nel quale hanno perso la vita sia il marito che il figlio. Dopo un primo sospetto che si tratti di un regolamento di conti (Nuri in passato è stato in prigione per spaccio di stupefacenti), si fa presto strada la pista di un attentato a sfondo xenofobo da parte di neonazi. La polizia scopre i possibili colpevoli, che vengono processati. Quando però la giustizia fallisce, Katja decide di risolvere le cose a modo suo.
Diviso in tre parti: La Famiglia, La Giustizia e Il Mare, In the Fade è un film dalla struttura molto rigorosa e particolarmente efficace, soprattutto nella parte centrale, quella del processo alla coppia accusata dell'attentato. E' proprio in queste scene che Diane Kruger (scoprirò uscendo dal cinema che ha vinto il premio come miglior attrice) risulta eccezionale: devastata dal dolore ma decisa ad avere giustizia, accetta di avere davanti agli occhi gli assassini di suo marito e suo figlio e la loro freddezza scostante, la loro studiata indifferenza. Il momento in cui chiede di uscire dall'aula perché un perito sta ricostruendo il modo in cui è morto suo figlio e prima di uscire si scaglia contro la donna della coppia, è davvero sconvolgente. In molti hanno criticato il premio alla Kruger, e la cosa mi dà particolarmente fastidio, perché questa attrice da anni si sta costruendo un'ottima carriera, con scelte stilistiche sempre interessanti e mai scontate, recitando in almeno tre lingue diverse (è la prima volta che recita nella sua lingua made, ad esempio). Ma a quanto pare deve ancora scontare il fatto di essere una ex-modella e una donna dalla bellezza notevole, altrimenti non si capisce perché non si meriterebbe un premio per come ha recitato nel film di Akin. Il regista porta alla luce un fenomeno del quale personalmente non avevo mai sentito parlare: in Germani negli ultimi anni un gruppo di neonazi ha ucciso almeno 11 persone. Motivazione degli assassinii: si trattava di persone straniere. Insomma l'unica colpa di questi poveretti era quella di non essere tedeschi. E allora ben venga una storia che racconti un fatto tanto raccapricciante quanto insensato. E quanto alla presunta immoralità del finale, ho trovato particolarmente coraggioso che il regista abbia deciso di essere molto poco politically correct e di mostrare fino in fondo una storia che aveva concepito così.
Giusto o sbagliato che sia dal punto di vista morale.
In the fade è importante proprio per questo: non ti lascia indifferente, ti fa riflettere, ti fa discutere, ti scuote e ti fa mettere in dubbio parecchie cose.
E non mi sembra poco, per un film.
mercoledì 9 giugno 2010
The Underestimated - Chapter 1

If you don’t love them, well, you’re in trouble. I usually feel ashamed if I don’t appreciate them enough, but at the same time I can’t oblige myself to love “The Masterpiece” at every cost (I have this kind of problem with the so-considered Best Movie Ever, 2001: A Space Odyssey, that always bored me to death. I know, I’m sorry, I’m terribly sorry but... hey, what can I do about it??!). On the contrary, there are movies that are clearly not masterpieces, but nonetheless we happen to adore, no matter how critics have demolished them, explaining us why they are not working. Sometimes, actually, we love them because they are not working, because they are flawed. And sometimes, I just think that critics don’t get them and that those movies have been underestimated.This is why I decided to talk, once in a while, about my favourite dropout movies, hoping you will rediscover them and you will love them as much as I do.
Which movie should I start with? Real life gave me a little help. I was recently in London for my job and one evening, in a Soho restaurant, I bumped by chance into Ralph Fiennes. I managed to seat at a table almost in front of his table (but I’m sorry to say that apparently he didn’t notice the stunningly gorgeous cinema blogger who was looking at him non-stop during the whole dinner), and I immediately started to think about my favourite movie of his filmography: The End of the Affair, by Neil Jordan (1999), the perfect example of underestimated movie. Based upon a much autobiographic novel by British writer Graham Greene, The End of the Affair is set in London during the Second World War and it tells a story of love, jealousy and faith. Maurice Bendrix (Ralph Fiennes) is a writer having an affair with Sarah Miles (Julianne Moore), wife of a civil servant, Henry Miles (Stephen Rea). They are madly in love with each other but, after an air raid where Maurice fails to be killed, Sarah suddenly breaks up with him. Why Sarah did what she did? Maurice can’t find an explanation and he is devastated and tormented by doubts. When, a couple of years after their splitting up, Sarah’s husband (who’s a good friend of Maurice) confides him to suspect his wife to be unfaithful, Maurice, still jealous of Sarah, recruits a private detective, Mr. Parkis (Ian Hart), to investigate upon her. What the husband and the lover will find out, though, it is far from what they expected and the truth they have to face is about to change their lives for ever.
The greatness of The End of the Affair resides in this: it is much more than you think. This is not the typical romantic drama, even if all the ingredients are there. This is not the classic story where the lover is handsome, nice, and irresistible, and the husband is awful, rude and unbearable. As a matter of fact, it is almost the opposite. The lover is not that loveable, after all. Maurice is rather selfish, as a character, his extreme jealousy makes him heavy and sometimes boring, while Henry is a much nicer and wiser man. This movie is able to surprise because it is always taking unexpected directions. You have no clue that religion is going to be one of the central themes until a scene that is a turning point in the whole story. And the relationship between Maurice and Henry at the end of the movie is so rare and precious, an incredible thing to witness. The structure is very interesting as well. The movie starts from the end: one of the first scene relates the meeting between Maurice and Sarah two years after the couple has separated, and from that moment we follow two different stories, the past and the present, that will converge only in the final part. It is also a movie having a quite gloomy atmosphere: it rains a lot, in London. But there is something that shines all along this film: the actors’ performances. If you read my blog, you already know that British actors are my favourite. I love them because they are the kings of understatement: no need to scream, to overact, to roll the eyes. An undetectable movement of the eyebrow will be enough. An entire range of emotions will spread in front of you through a single whispered statement, or a simple step. Here, Stephen Rea (l’acteur-fétiche of Neil Jordan) is a dream of subtlety and perfection as the husband who’s not able to provide for the strong emotions and physical attraction his wife needs, while Fiennes and Moore allow us to seat in our armchairs and think that the world is actually a better place we thought it was. And can I forget to mention the most underestimated actor of all? Ian Hart, signore e signori, wins us with another of his brilliant performances. When the juries of the acting prizes will finally open their eyes and gives this actor what he deserves? Last, but not least, Neil Jordan guides us through the complexity and the difficulties of the human heart with the passion/compassion (and a magical fluidity of filming) simply perfect for this story.
The affair is maybe ended, but I hope that your love for this movie has just begun.
The affair is maybe ended, but I hope that your love for this movie has just begun.
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