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domenica 27 settembre 2015

Les Deux Amis

Più invecchio e più i film “carini” mi danno addosso. 
Quei film che non si può dire che siano brutti ma nemmeno che siano belli. Quei film che ti domandi perché mai un regista si dovrebbe sbattere per anni (perché fare cinema prende un sacco di tempo) per raccontare una storia così, una storia che in fin dei conti ti dimenticherai nei tre minuti netti che ci metterai a coprire la distanza tra la sedia su cui stai seduto e la porta di uscita del cinema.
Il più delle volte si tratta di cose già viste mille volte. 
Inquadrature che le vedi arrivare da lontano, con una minima quota di film in memoria. 
E non importa che ci siano poi delle cose interessanti, che gli attori siano bravi, o bravini, e che a volte si ride anche (perché commuoversi, no, quello mai, perché in film così l’emozione vera non esiste).
Ora, se sei un regista al tuo primo film, a me questa cosa sembra ancora più grave.
Perché uno nel primo film vuole buttare dentro tutto, sbranare, fare errori, sporcarsi: chissà se lo fa, infatti, il secondo film.
Forse il problema è che qui il regista sa di poterlo fare di sicuro, un altro film.
E lo sa perché di nome fa Louis e di cognome Garrel.

Attore bravo ma non eccelso, Garrel ha fatto fino ad ora una buona carriera, un po’ grazie ai film del padre Philippe, un po’ grazie a quelli di Valeria Bruni Tedeschi (che è stata sua compagna per diversi anni), ma soprattutto grazie a quelli di Christophe Honoré.
Dopo tre cortometraggi (ne ho visto solo uno e devo dire che non era male: Le Petit Tailleur), ha ora diretto il suo primo lungo, Les Deux Amis, presentato in una sezione collaterale all’ultimo Festival di Cannes e ora approdato sugli schermi parigini.
Scritto da lui e da Honoré, il film ha per protagonisti due amici: Abel e Vincent. Entrambi 30enni che lo sa il Signore come si mantengono, passano le loro giornate a cazzeggiare. Vincent un giorno si innamora di una ragazza che serve bibite e panini in un chioschetto della Gare du Nord. Disperato perché la ragazza, dopo un primo approccio positivo, non lo vuole più vedere, chiede consiglio all’amico, evidentemente più sgamato in fatto di donne e pure di cose del mondo in generale. Per convincere Mona a restare con Vincent, alla fine i tre si ritroveranno a passare del tempo tutti insieme. La ragazza nasconde un segreto che loro scopriranno solo alla fine del film (lo spettatore no, lo sa subito: Mona è in libertà vigilata e la sera deve rientrare in prigione, quindi sta facendo cazzate su cazzate a restare in giro con loro). Ovviamente: le cose si complicano, a Mona piace l'uomo sbagliato, l’equilibrio dello strano trio vacilla, l’amicizia tra i due uomini pure.

Ora, ditemi voi se questa storia, già solo io a scriverla e voi a leggerla, non vi sembra il più grande déjà-vu della storia del cinema. Ed è proprio questo, il problema: che ti immagini tutto, e che tutto si svolge esattamente come avevi immaginato. Senza sorprese, senza un briciolo di profondità sui personaggi, sulle loro vite, sulle loro ragioni. E il tocco, il tono che vorrebbe essere leggero, a me sembra solo superficiale. E non basta, vorrei dire al nostro caro Louis, mettere una citazione da Jules & Jim per salvarsi dal confronto: "Abel, questa no, Abel!"
Eh, appunto, questa proprio no, non ci voleva, Louis. E non basta mettere al centro di un caffé deserto una donna che balla (per quanto bella, sensuale e carismatica come Golshifteh Farahani) per ricreare la magia di Bande à Part, né fare un omaggio al babbo tuo facendo partecipare come comparse i tre protagonisti ad un film sul Maggio ’68 che sembra proprio essere Les Amants Reguliers (con un triplo carpiato, per altro, dato che il protagonista di quel film eri tu).
E non basta nemmeno farsi aiutare da Honoré a scrivere un film che sembra la brutta copia di un film di Honoré (che stia attento pure lui, che dopo quella stronzata galattica di Métamorphoses e la sceneggiatura di questo film ne ha parecchie, di cose da farsi perdonare) o dare la parte dell’amico a Vincent Macaigne, sapendo che si tratta di un bravo attore (sì, che però fa SEMPRE la parte dello svampitone simpatico e pacione e magari anche cambiare registro gli farebbe bene).
Tu, certo, niente da dire, Louis, con quella meravigliosa gueule de cinéma puoi stare sullo schermo all’infinito e noi non ci lamenteremmo mai, però pure tu uno sforzino per ampliare la tua palette di recitazione lo potresti fare.  

Louis Garrel nella scena finale di Les Amours Imaginaires di X. Dolan
Ma soprattutto, ed è questo che non ti perdono, non puoi pensare di fare un film à la Xavier Dolan. Perché lo so che non lo ammetteresti nemmento sotto tortura, ma era quello che stavi carcando disperatamente di fare. Senza riuscirci.
Il talento di Dolan ce l’hanno in pochissimi e, soprattutto, sono in pochissimi a fare dei film come i suoi, dove senti che quello che ha da dire o lo dice o muore, e per arrivarci non ha paura di niente: né di far scorrere fiumi di pellicola, né di essere sopra le righe, né di esagerare, né di buttarci sopra un quintale di trippe.
Che tu, evidentemente, non hai.
Ma provaci ancora, Louis, magari sarà proprio il secondo film a rivelare che un'anima, in fondo, ce l'hai anche tu.


lunedì 31 dicembre 2012

As time goes by

Here we are again: the last post of the year.
I have been to the movies 83 times in 2012 (yes, I know, it’s a sickness!) and I have seen many interesting things. I’ll let you know about the ones I liked most next February, as usual, at the time of the Zazie D’Or.
Many cinematographic things happened as well, from the glass of champagne with Meryl Streep in a fancy Paris restaurant, to the dinner in New York with Norah Ephron (few months before she sadly passed away), to the meetings with some great film-makers: the master class of Francis Ford Coppola at the Gaumont Parnasse, the meeting with Emanuele Crialese and Donatella Finocchiaro for the avant-première of Terraferma, the one with Thomas Vinterberg for the avant-première of his Jagten (both in one of my favourite cinema in town, Le Cinéma des Cinéastes). 
And it was nice to bump by chance into French film-maker Christophe Honoré outside a theatre in Abbesses where we just saw Hiroshima, Mon Amour (ah, serendipity!).
I hope 2013 will be plenty of great movies and great things for you all, dear readers.
Let’s wish that all our dreams come true… or, at least, that all our dreams come true… in a movie.  
Happy New Year!!!
Sincerely yours,
Zazie

domenica 2 settembre 2012

Lola

Vado PAZZA per Jacques Demy, questo ormai si sa.
Adoro i suoi film, il suo mondo e la sua idea di cinema. Adoro persino la sua famiglia: sua moglie Agnès Varda, suo figlio Mathieu. Non mi stancherò mai di trovare scuse per scrivere di lui in questo blog, anche se è morto nel 1990 (ma perché tutti i miei registi preferiti se ne sono andati troppo presto? qualcuno me lo spiega?). 
A fine Luglio qui in Francia è ri-uscito nelle sale il suo primo film, Lola (1961), in versione restaurata. Quale migliore occasione per approfittarne ed andare nel mio amatissimo Ciné Studio 28 (con quelle meravigliose lampade di Cocteau al'interno che sembra già di stare in una fiaba) a vederlo sul grande schermo? Lola è davvero la prova che il cinema migliore non invecchia mai e che, se un film è speciale, rimane speciale anche a 50 anni di distanza.
Demy sul set del film, alla Cigale di Nantes
Siamo a Nantes (la città natale di Demy), è l'estate del 1960, e Lola, una ballerina ritornata in città dopo una lunga assenza, si esibisce all'Eldorado. Madre single del piccolo Yvon, avuto sette anni prima dal grande amore della sua vita, Michel (poi fuggito in America), Lola si imbatte per caso in un vecchio amico di infanzia, Roland Cassard. L'incontro suscita in entrambi numerosi ricordi, e fa nascere in Roland un sentimento per la donna, purtroppo non corrisposto. Lola, che a volte esce con uomini di passaggio (come Frankie, un marinaio americano in permesso a Nantes), in realtà è sempre innamorata di Michel e spera in un suo ritorno. Roland, stanco e annoiato dalla vita, dopo il rifiuto di Lola decide di accettare una proposta di lavoro piuttosto equivoca (un traffico di diamanti) e vola in Sud Africa. Prima di partire, conosce per caso in una libreria una vedova e la sua giovane figlia, Cécile, che gli ricorda molto Lola da giovane. Cécile, a sua volta, conosce per caso Frankie, che diventerà il primo amore della sua vita. E proprio quando Lola decide di accettare un lavoro di due mesi a Marsiglia, ecco che una cadillac bianca sfreccia per le strade di Nantes... chi sarà alla sua guida?

Lola, opera prima (dedicata a Max Ophüls), possiede già tutte le caratteristiche tipiche del demy-monde e schiera quei collaboratori che diventeranno parte della famiglia cinematografica del regista (e della Nouvelle Vague) nel corso della sua carriera: i decori e i costumi sono del geniale Bernard Evein, le musiche di Michel Legrand, la fotografia di Raoul Coutard, la segretaria di produzione Suzanne Schiffman (la stessa di Truffaut) e le parole della canzone di Lola sono di Agnès Varda. I legami non appartengono solo al mondo reale, però. I film di Demy si parlano, si allacciano gli uni agli altri, in una girandola di citazioni, di personaggi che ritornano, di ammiccamenti ad altri registi. Roland Cassard, ad esempio, ritorna tale e quale in un film successivo di Demy, Les Parapluies de Cherbourg, e il tema musicale che lo accompagna in Lola, si trasforma nell'altro in una vera e propria canzone. Cassard, diventato importatore di diamanti (carriera che aveva iniziato a svolgere alla fine di Lola), cita nella strofa del suo pezzo: Autrefois j'ai aimé une femme, Elle ne m'aimait pas, On l'appelait Lola, Autrefois... (Un tempo ho amato una donna, lei non mi amava, la chiamavano Lola). Cassard è il personaggio dei film di Demy destinato agli amori non corrisposti: nei Parapluies de Cherbourg si innamorerà, non ricambiato, di Catherine Deneuve (anche se finirà con lo sposarla). E ancora: l'unico amico che Cassard dice di avere, in Lola, è un tale Poiccard che, stando alle sue parole: "E' andato a finire male, si è fatto ammazzare..." Poiccard è il nome di Jean-Paul Belmondo in A bout de Souffle, girato da Godard l'anno prima (questa cosa me l'ha fatta notare la mia amica Laura, che ringrazio!). 
La stessa Lola sarà la protagonista di una successiva pellicola di Demy: Model Shop, film del 1968, ambientato a Los Angeles. Una delle colleghe-danzatrici di Lola, invece, è Corinne Marchand, che sarà la protagonista di Cléo de 5 à 7  di Agnès Varda. Altra chicca: il figlio di Lola si chiama Yvon, come il fratello minore di Demy. Insomma, si potrebbe andare avanti all'infinito, anche perché a sua volta Demy continua ad essere citato dai giovani registi francesi. L'esempio più eclatante, ne ho già scritto in questo blog, è Christophe Honoré, il cui primo film ha per titolo 17 fois Cécile Cassard. Avrete certamente notato il cognome... il nome Cécile invece è il vero nome di... Lola! Ah, quanto adoro questo genere di cose! Mi fanno proprio sentire a casa.
Lola e Roland Cassard
Film fintamente leggero e spensierato, come qualsiasi altra opera di Demy, Lola parla della forza e dell'intensità del primo amore, con tutto quello di magnifico e terribile che lo può accompagnare: la sorpresa, l'estasi, la felicità improvvisa, ma anche l'attesa, la delusione, la consapevolezza che non sarà mai più la stessa cosa. Le immagini, m e r a v i g l i o s e, della giovane Cécile sulle giostre con il marinaio Frankie, ne sono un perfetto esempio. C'è la gioia incontenibile di quei pochi attimi di felicità assoluta e subito dopo l'arrivo, implacabile, della realtà: Frankie sta per tornare in America e lei è solo una ragazzina di 14 anni. Ma quell'attimo è fondamentale, quell'attimo potrebbe farle decidere, come era stato per Lola in passato, di aspettare fiduciosa il ritorno dell'amante tanto amato. Nel film, Michel ritorna a prendere Lola dopo 7 lunghi anni, nella vita vera questa ipotesi mi sembra davvero un po' improbabile, ma come dice giustamente una delle protagoniste del film: 
"C'est toujour plus beau, au cinéma!" (Al cinema, è sempre più bello!).
Parole sante.

La Chanson de Lola versione Demy:

La Chanson de Lola versione Honoré
(cantata da Roman Duris in 17 Fois Cécile Cassard - 2002):

La Chanson de Roland in Les Parapluies de Charbourg (1964):


NB Lola in Italia è stato distribuito con un titolo a dir poco infame: Donna di vita. Ecco, io spero che il povero stronzo che l'ha deciso abbia sofferto per tanti anni ed in maniera continuativa di prurito alle parti basse. Donna di vita sua zia!

domenica 22 aprile 2012

Honoré, Mon Amour!

Ieri sera sono stata al Théâtre aux Abbesses a vedere Hiroshima, Mon Amour di Marguerite Duras, diretto da Christine Letailleur.
Da questo testo, nel 1959, Alain Resnais ha tratto uno dei film più belli della storia del cinema, un'opera fondamentale della Nouvelle Vague, con due attori straordinari come Emmanuelle Riva e Eiji Okada. 
Personalmente, sono affezionata a questo film in maniera viscerale, perché mescola due delle grandi passioni della mia vita: il cinema e il Giappone. 
Hiroshima, Mon Amour racconta una notte d'amore tra un'attrice francese venuta a girare a Hiroshima un film sulla pace (a 14 anni dalla bomba atomica) e un architetto giapponese conosciuto per caso. La scrittura della Duras, lo sapete bene, è una scrittura molto particolare. Le frasi sono brevi, ripetute, le immagini nascono da una semplice descrizione, dalla fugace apparizione di un pensiero, di una sensazione, e vengono fermate per sempre dalla reiterazione di una parola, in una sorta di trance ossessiva.
La trasposizione di un testo del genere in spettacolo teatrale, diciamocelo, è compito assai arduo, ma devo dire che la Letailleur se l'è cavata piuttosto bene, aiutata anche dall'ottima interpretazione degli attori principali, Valérie Lang e Hiroshi Ota. In particolare, ho molto amato la prima, lunghissima scena, dove gli attori, completamenti nudi, stanno "sdraiati" su un letto nero ribaltato in senso verticale. E' un'idea semplice ma molto efficace, e crea la giusta atmosfera per trasportare gli spettatori nel vortice di sensazioni che il dialogo tra l'uomo e la donna crea a poco a poco.
Si tratta in effetti di uno spettacolo molto sobrio, molto fedele al testo, e nonostante la grandiosità del film sia inarrivabile, trovo che a teatro il testo della Duras trovi molto più spazio, come se le parole diventassero più importanti della messa in scena stessa.
Insomma, ero tutta contenta di averlo visto, e all'uscita stavo discutendo dello spettacolo con i miei amici Denis et Laura, quando a pochi passi di distanza mi è sembrato di riconoscere il volto di qualcuno. C'era un uomo barbuto che stava andando verso uno scooter parcheggiato davanti al teatro, e io mi dicevo che l'avevo già visto. Poi ho avuto un'illuminazione: quello era il regista francese Christophe Honoré
Ne ho già parlato più volte, in questo blog: per me Honoré è uno dei più interessanti registi contemporanei, e io lo considero niente-poco-di-meno che il Jacques Demy dell'era moderna (non so se ci rendiamo conto del complimento!). Ho esitato un po', poi, quando ho visto che era stato raggiunto da un amico e avevano già i loro caschi sulla testa, mi sono precipitata verso di lui: Siete Christophe Honoré? gli ho chiesto. Lui mi ha fatto un bel sorriso (ah, quanto mi piacciono gli uomini con la barba quando sorridono!): Sì, sì, sono io. Allora gli ho fatto un sacco di complimenti per i suoi film e poi gli ho chiesto se gli era piaciuto lo spettacolo (ho scoperto che più o meno la pensava come me). E poi niente, ho augurato a entrambi una buona serata, e loro sono partiti. Ogni volta che faccio queste cose mi dico che devo sembrare una pazza. Però, nonostante tutto, continuo a farle. Non è umanamente possibile, per me, incontrare un regista che apprezzo e non fargli una dichiarazione d'amore seduta stante. Non me lo perdonerei mai.
Per Honoré, avrei persino potuto usare le parole della Duras che fanno da leitmotiv a Hiroshima, Mon Amour: Tu me tues, tu me fais du bien! (Tu mi uccidi, tu mi fai del bene!). 
Ma soprattutto del bene.

giovedì 1 settembre 2011

On connaît (et on adore) la chanson!

Mi piacciono da morire.
Che cosa? I film francesi, in generale, e quelli in cui si canta in particolare. Negli ultimi giorni ne ho visti due che sono dei gioielli rari e preziosi. Che mi hanno incantata, emozionata, sconvolta, che mi hanno fatto ridere, piangere, mi hanno fatto capire cose, posto delle domande fondamentali, aiutato a soffrire con leggerezza, e trasportato in vite che non sono la mia ma avrebbero potuto essere. Sto parlando dell'ultimo film di Christophe Honoré: Les Bien-Aimés, e della seconda opera della giovane regista Valérie Donzelli: La Guerre est déclarée. Un uomo e una donna, dietro la macchina da presa, accomunati da una stessa sensibilità, dal desiderio di raccontare tragedie senza piangersi addosso ma anche senza aver paura di essere romantici, o fuori moda, o di fare film come se ne fanno tanti di questi tempi: senza cuore.
Les Bien-Aimés racconta la storia di una madre e di una figlia, tanto spensierata ed istintiva la prima quanto seria ed ossessiva la seconda, e dei loro amori. A volte ridicoli, a volte tragici, ma sempre totali e vissuti fino in fondo. Le loro vite vanno dagli anni '60 della madre ai 2000 della figlia, e Honoré ci passa attraverso con quello strano miscuglio tutto suo: uno stile a metà tra un film di Jacques Demy e una canzone di Morrissey, sempre al limite del kitsch ma troppo intelligente per cascarci in pieno. Nel film, ogni scusa è buona per mettersi a cantare (cosa che a Honoré riesce facile perché ha scelto come complice l'ottimo musicista Alex Beaupain, il suo personale "Michel Legrand"), per parlare dei suoi argomenti preferiti (l'innocenza della gioventù, la follia del sentimento amoroso specie quando non è corrisposto, l'essere gay e quello che ne consegue, sieropositività - a volte - compresa), e fare omaggi a pioggia alla Nouvelle Vague. Scegliere Catherine Deneuve per il ruolo della madre è già una dichiarazione di intenti: tra tutte le attrici, proprio quella che vendeva gli ombrelli a Cherbourg... ma guarda un po'! E "travestire" Louis Garrell da Jean-Pierre Léaud ogni volta che compare nei suoi film, pure. Ma sia ben chiaro: chi si lamenta? Honoré è uno di quei rari registi che ha saputo creare in poco tempo un universo particolare, tutto suo, un mondo che migliora, si rafforza e si fa più profondo ad ogni opera. Gli attori sono tutti strepitosi, le canzoni magnifiche, la storia coinvolgente ed originale, e la macchina da presa sa il fatto suo. Tocco di classe finale: il film è dedicato alla memoria di Marie-France Pisier, attrice truffautiana scomparsa di recente, che aveva recitato per Honoré nel suo bellissimo Dans Paris. Io personalmente quando esco dalla visione di uno dei suoi film rimango tramortita di tristezza per ore, ma spero sia un problema solo mio (per favore, lettori, ditemi se capita così anche a voi!).
La Guerre est déclarée, invece, è un film che parla di una storia vera. Quella realmente accaduta a Valérie Donzelli e al suo compagno (Jérémie Elkaïm, che nel film ha il ruolo del protagonista): belli, giovani e innamorati, hanno un figlio, Adam, ma dopo qualche mese si rendono conto che qualcosa non va. Il bambino non cammina, vomita senza una ragione apparente e lascia pendere la testa da un lato. Si rivolgono ad una pediatra di cui hanno fiducia, e questa si accorge che Adam ha una semi-paralisi facciale. Da lì, ha inizio il loro calvario: il bambino ha un tumore maligno al cervello, si può intervenire ma è gravissimo. L'operazione funziona, ma Roméo e Juliette (questi i loro nomi di finzione nel film) dovranno affrontare lunghi anni in cui il figlio sarà sottoposto a chemioterapia e cure di ogni genere prima di potersi considerare definitivamente guarito. La loro coppia non sopravvivverà, ma il loro amore verso Adam li terrà uniti fino in fondo. 
Valérie Donzelli riesce con questo film in un'operazione quasi inumana: rendere "leggero" il racconto di uno dei dolori più immensi che esistano. Non c'è mai posto, nemmeno in una singola scena, per piangersi addosso, ricattare moralmente lo spettatore, far leva sulla pietà o magnificare il proprio ruolo di genitori modello. La Donzelli dice le cose come stanno: ecco due esseri umani prostrati, confusi, storditi dagli eventi e da mille domande (perché noi? perché il nostro bambino?), sommersi dalla paura, eppure ancora vivi. Pronti a lottare fino allo stremo, con i pochi mezzi e le poche forze a disposizione, in nome del loro amore e di quello per il loro bambino. Irresistibile, ad esempio, la scena della notte prima dell'operazione al cervello al bambino, nella quale fanno l'elenco delle loro paure: ho paura che Adam diventi sordo, cieco, muto, frocio, nero, e che voti Fronte Nazionale! La Donzelli, per sdrammatizzare, ha un vero talento. Bravissima anche nella scelta degli attori: tutti sono perfetti (i medici, le infermiere, i genitori borghesi di lei, la madre lesbica di lui, gli amici), e in quella della musica, che in questo film ha un ruolo fondamentale. La regista ne fa un uso straripante, come se fosse uno dei protagonisti della storia, e in un momento drammaticissimo del film, c'è anche posto per una canzone (composta e cantata da lei e Elkaïm). Verrebbe quasi da pensare di essere in un film di Honoré, invece è semplicemente un altro film francese.
On connaît la chanson! E' vero. E non solo la conosciamo a memoria, ma la vorremmo cantare a squarciagola. 
Perché ci piace. Ci piace da morire.

domenica 8 maggio 2011

Remembering Colette

Quando si ama tantissimo un regista e si è cresciuti vedendo i suoi film, si ha la tendenza a considerare gli attori che hanno recitato per lui un po' come persone della propria famiglia.
O, almeno, a me succede così.
Dal momento che non c'è famiglia cinematografica che mi sia più cara di quella creata da François Truffaut, ogni volta che muore uno dei suoi attori, io mi sento malissimo. Qualche anno fa, ad esempio, sono andata con il cuore affranto al funerale di Claude Jade, un'attrice bravissima che era stata Christine Darbon, la moglie di Jean-Pierre Léaud nella serie Doinel. E' invece di questi giorni, purtroppo, la notizia della scomparsa di un'altra amatissima e truffautiana attrice francese, Marie-France Pisier, che è stata Colette, il primo (infelice) amore di Doinel, e che più volte ha fatto la sua apparizione nei capitoli della serie.
Nata in Vietnam nel 1944, la Pisier ha trascorso l'infanzia in Nuova Caledonia, dove il padre era all'epoca governatore coloniale (nel 1984 uscirà un suo romanzo ispirato a quel mondo, dal titolo "Le Bal du Gouverneur", dal quale qualche anno dopo trarrà anche un film come regista). Rientrata in Francia per gli studi, attrice di teatro, viene scelta da Truffaut per interpretare Colette e da quel momento la sua carriera decolla: la Pisier ha lavorato con registi del calibro di Jacques Rivette, André Téchiné, Alain Robbe-Grillet, Raoul Ruiz e Luis Bunuel. Donna di grande impegno civile, è stata tra le firmatarie del manifesto di Simone De Beauvoir (Manifeste des 343 salopes) in favore del diritto all'aborto nel 1971.
L'ultima volta che l'ho vista recitare, è stato in un film del 2006 di Christophe Honoré, Dans Paris, dove era la madre di Louis Garrel e Romain Duris (mentre il padre era interpretato da Guy Marchand). Honoré, uno che nella vita ha mangiato pane e Nouvelle Vague, stava probabilmente pensando a Truffaut scegliendo questi due attori come genitori dei suoi protagonisti, e che piacere guardarli rubare la scena ai giovani con la loro bravura e la loro naturale complicità.
Tuttavia, per me, Marie-France Pisier resterà per sempre Colette, la ventenne che spezza il cuore a Doinel con la sua aria superiore e noncurante: dopo averlo fatto entrare in casa, lo lascia come un idiota continuare la cena con i propri genitori mentre lei se ne va fuori con un altro ragazzo, il suo, dal nome assai improbabile Albert Tazzi (clin d'oeuil di Truffaut all'attore protagonista di L'Année dernière à Marienbad, dell'amico Alain Resnais). 
Sacrée Colette... ci mancherai!
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