Visualizzazione post con etichetta Hanif Kureishi. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta Hanif Kureishi. Mostra tutti i post
venerdì 20 marzo 2020
mercoledì 9 ottobre 2013
Patrice Chéreau, L'homme blessé
Quando leggo della morte di un regista, la mia prima reazione è quella di pensare alle immagini dei suoi film rimaste incise nella mia memoria.
E' una reazione incontrollabile, istintiva, una di quelle cose che non puoi farci niente: le immagini sono lì, sepolte ma vivissime, e riemergono in superficie al solo contatto della pronuncia di quel nome.
Quando lunedì sera un twitter qualsiasi mi ha annunciato la morte del regista francese Patrice Chéreau, io non ho potuto fare a meno di rivedere una stazione di notte, il sud della Francia, il caldo appiccicoso dell'estate, e dei corpi di uomini che si cercano, si picchiano, si baciano, e poi la faccia spaurita e impressionabile di un giovanissimo Jean-Hugues Anglade accanto a quella virile, sicura e perentoria, di Vittorio Mezzogiorno.
Dalle viscere del mio subconscio, intatte e perfette, sono riemerse con la stessa forza della prima volta che le ho viste le immagini di L'Homme Blessé.
Il film del 1983 scritto da Chéreau e Hervé Guibert, è una di quelle perle rare che ogni decennio per fortuna è in grado di produrre. Gli anni '80 (sempre siano lodati) erano anni in cui il concetto di politically correct ancora non esisteva, e uno come Chéreau si poteva permettere di impressionare e sconvolgere con la stessa naturalezza con cui respirava.
L'Homme Blessé è un film duro, di una crudezza nei modi, nei dialoghi, nelle sensazioni e nelle inquadrature, davvero impressionante, e allo stesso tempo aveva una forza, un'energia sovversiva vitale e spiazzante, che ti faceva pensare e capire tanti aspetti della vita che non erano spesso traducibili a parole. Chéreau era lontano dalle polemiche costruite a tavolino, era un uomo che ti sbatteva in faccia le sue ossessioni, le sue paure, le sue voglie, ma con un candore ed una sincerità tali che non potevi che crederci, immedesimarti, soffrire e poi rinascere con lui. Qui vorrei anche ricordare la bravura di un attore italiano, troppo spesso dimenticato, Vittorio Mezzogiorno, che altro che La Piovra! Mezzogiorno era un attore straordinario di cinema e teatro che recitava in perfetto inglese nel Mahabharata di Peter Brook e poi in perfetto francese in un film come questo, senza un attimo di esitazione, accettando una parte che, come minimo, il 98% dei suoi colleghi avrebbe rifiutato.
Onore al merito e alla memoria pure sua, allora.
E' una reazione incontrollabile, istintiva, una di quelle cose che non puoi farci niente: le immagini sono lì, sepolte ma vivissime, e riemergono in superficie al solo contatto della pronuncia di quel nome.
Quando lunedì sera un twitter qualsiasi mi ha annunciato la morte del regista francese Patrice Chéreau, io non ho potuto fare a meno di rivedere una stazione di notte, il sud della Francia, il caldo appiccicoso dell'estate, e dei corpi di uomini che si cercano, si picchiano, si baciano, e poi la faccia spaurita e impressionabile di un giovanissimo Jean-Hugues Anglade accanto a quella virile, sicura e perentoria, di Vittorio Mezzogiorno.
![]() |
Henri (Jean-Hugues Anglade) e Jean Lerman (Vittorio Mezzogiorno) |
Il film del 1983 scritto da Chéreau e Hervé Guibert, è una di quelle perle rare che ogni decennio per fortuna è in grado di produrre. Gli anni '80 (sempre siano lodati) erano anni in cui il concetto di politically correct ancora non esisteva, e uno come Chéreau si poteva permettere di impressionare e sconvolgere con la stessa naturalezza con cui respirava.
L'Homme Blessé è un film duro, di una crudezza nei modi, nei dialoghi, nelle sensazioni e nelle inquadrature, davvero impressionante, e allo stesso tempo aveva una forza, un'energia sovversiva vitale e spiazzante, che ti faceva pensare e capire tanti aspetti della vita che non erano spesso traducibili a parole. Chéreau era lontano dalle polemiche costruite a tavolino, era un uomo che ti sbatteva in faccia le sue ossessioni, le sue paure, le sue voglie, ma con un candore ed una sincerità tali che non potevi che crederci, immedesimarti, soffrire e poi rinascere con lui. Qui vorrei anche ricordare la bravura di un attore italiano, troppo spesso dimenticato, Vittorio Mezzogiorno, che altro che La Piovra! Mezzogiorno era un attore straordinario di cinema e teatro che recitava in perfetto inglese nel Mahabharata di Peter Brook e poi in perfetto francese in un film come questo, senza un attimo di esitazione, accettando una parte che, come minimo, il 98% dei suoi colleghi avrebbe rifiutato.
Onore al merito e alla memoria pure sua, allora.
L'altro film di Chéreau a cui non posso fare a meno di pensare è più recente: Intimacy, un film del 2001, basato sul romanzo dello scrittore anglo-pakistano Hanif Kureishi (santo subito pure lui, è lo sceneggiatore di My Beautiful Laundrette). Storia, anche in questo caso cruda e senza sconti, di un musicista di mezza età in crisi con la moglie e la vita di famiglia, che ogni settimana incontra una donna (di cui non sa nulla) per fare sesso.
![]() |
Claire (Kerry Fox) e Jay (Mark Rylance) |
Pochi hanno avuto la capacità, come Chéreau, di far vedere al cinema il sesso come qualcosa di così intimo, feroce, e necessario. Un veicolo vero ed infallibile per addentrarsi nella complessità e nella fragilità della natura umana. Chéreau filmava i corpi come se fossero dialoghi (certo era anche bravo a scegliersi i corpi, in questo caso quelli di Mark Rylance, attore inglese assolutamente eccezionale, e della fuoriclasse attrice australiana Kerry Fox), parlando una lingua che tutti possiamo capire, quella dei nostri bisogni più segreti ed estremi, e dunque più umani.
Chéreau era intenso, integro, brutale, e necessario. Ci mancherà, eccome se ci mancherà.
Questo è il post di Zazie n° 200, e sono molto felice di averlo dedicato a lui.
Adieu, Patrice!
mercoledì 14 ottobre 2009
Lascia perdere, Johnny!
Non ho mai MAI amato la politica.
Me ne sono sempre tenuta lontana, istintivamente. Non ci ho mai creduto. Soprattutto in un paese come l’Italia, non mi ha mai sfiorato il pensiero che potesse davvero cambiare qualcosa. Ammiro smisuratamente quegli amici che, nonostante tutto, continuano ad impegnarsi e a lottare per le giuste cause. Non so proprio come facciano.
Io ho sempre avuto un unico tema al quale negli anni non ho mai smesso di dedicare la mia attenzione: la causa, diciamo così, “omosessuale”. Il motivo è molto semplice: mi riguarda da vicino. L’unico fratello che ho è gay. La maggior parte dei miei amici, pure.
Se devo dirla tutta, mi ha sempre fatto strano dover “lottare” per una cosa del genere.
Dal mio punta di vista, infatti, non ci sarebbe nulla per cui lottare. Insomma, non ho mai capito dove sta il problema. Perché l’orientamento sessuale di qualcuno dovrebbe suscitare scandalo, o dibattito? E infatti non dovrebbe, ma a quanto pare viviamo in un paese il cui livello di civiltà non è abbastanza elevato per capirlo. E stiamo parlando degli anni 2000. Anni in cui, tanto per dirne una, persino nelle fictions nazional-popolari un gay dolce&gabbana-look-a-like non manca mai. E già qua inizia il primo inghippo: l’omosessuale può comparire, certo, ma è solo e soltanto di un certo tipo: è sensibile, simpatico, intelligente, spesso belloccio, ed è il perfetto amico delle donne. Altrimenti, come si fa ad accettarlo?
Io ho saputo che mio fratello era gay, perché lui me ne ha parlato chiaramente, quando avevo si e no 15 anni. E non erano gli anni 2000, no, signori e signore. Erano i primi anni ’80, e di gay nella TV italiana neanche l’ombra. La società tutta, la chiesa tutta, la stampa tutta, avevano un’unica cosa da dirmi sull’argomento: tuo fratello è SBAGLIATO, tuo fratello ha qualcosa che NON VA. Ed è GRAVE.
Io mi sentivo abbandonata a me stessa, e terrorizzata. Guardavo mio fratello e mi sembrava normale. Guardavo i miei amici e mi sembravano normali. Ma a quanto pare ero l’unica a vederli così.
E’ stato il cinema, ancora una volta, a venirmi incontro e a salvarmi.
Nel 1986, il regista inglese Stephen Frears ha portato sugli schermi un film scritto da un allora giovane e sconosciuto autore anglo-pakistano di nome Hanif Kureishi, dal divertente titolo My Beautiful Laundrette (letteralmente: La mia bella lavanderia).
Io mi sono precipitata al cinema a vederlo per due motivi: la trama, che mi pareva fantascientifica date le circostanze (due ragazzi gay, uno inglese e l’altro pakistano, decidono di aprire una lavanderia a gettoni a Brixton, quartiere malfamato di Londra) e l’attore protagonista, Daniel Day Lewis. Ci tengo a precisare che, all’epoca, nessuno, e sottolineo nessuno, sapeva chi fosse Daniel Day Lewis. Io ero uscita pazza a vederlo recitare la parte dell’irresistibile snob Cecil Vyse in A room with a view (Camera con Vista) di James Ivory, e avevo deciso seduta stante che quello era il più grande attore della sua generazione (due premi oscar e 20 anni di strepitosa carriera dopo, posso dire che sono stata lungimirante?).
Eppure non avevo idea che quel film mi avrebbe cambiato la vita. Già, perché non solo in questo film mi stavano dicendo che mio fratello non aveva nessun problema, ma mi stavano addirittura facendo capire che mio fratello era super cool. E sapete cosa? Daniel Day Lewis, che nel film si chiama Johnny, non è un tipo particolarmente dolce e sensibile. No, è un ex-punk, ex-naziskin, con i capelli colorati metà scuri e metà biondi, che se ne strabatte di stare con un pakistano (e sullo schermo i due ragazzi si baciano e fanno sesso proprio come due etero qualsiasi), che spaccia droga per riuscire a trovare i primi soldi con cui aprire la lavanderia (che non a caso viene chiamata Powders, “polverine”...). Narra la leggenda che Stephen Frears non ne volesse sapere di far recitare Daniel Day Lewis. Figlio del poet laureate (quello che scrive le poesie per la Regina, tanto per intenderci) anglo-irlandese Cecil Day Lewis, nipote del produttore Sir Michael Balcon (quello degli Ealing Studios), Day Lewis trasudava troppa classe alta per Frears. Ma un bel giorno il nostro Daniel si è prentato all’audizione sfoggiando un perfetto slang dei bassifondi, e minacciando Frears che certi suoi amici non proprio raccomandabili gli avrebbero spaccato la faccia se non avesse avuto la parte. E deve averlo convinto.
My Beautiful Laundrette è il film più “vivo” che io abbia mai visto. Ho cercato a lungo un altro aggettivo, non l’ho trovato. Sprizza energia da tutti i pori della pellicola: è un film contro la Tatcher, contro il razzismo verso i pakistani (e allo stesso tempo contro alcune stupide tradizioni pakistane), contro la mentalità naziskin tipica di certa Inghilterra povera e ignorante, e contro le differenze di classe. E’ uno dei film più politically incorrect che abbia mai visto, talmente oltre da saltare a pié pari il “problema” dell’omosessualità di entrambi i protagonisti (problema? quale problema?). E’ una tale boccata d’aria, che ti si riempiono i polmoni di ossigeno in una sola immagine. E’ irriverente e spensierato. L’ultima scena, in cui Johnny e Omar si spruzzano con l’acqua di un lavandino ridendo come due bambini, con in sottofondo il glu glu glu di una lavatrice, ben rappresenta la vitalità e l’allegria con la quale si esce dalla sala dopo aver visto il film.
Leggendo questa mattina i giornali italiani e scorrendo le perle di saggezza uscite dalla bocca della Binetti e di Castelli sul tema dell’omosessualità, ho ripensato a Johnny.
L’ho rivisto che tira fuori la ingua per baciare il collo di Omar mentre dà un’occhiata complice alla macchina da presa. Ho pensato: Lascia perdere, Johnny, questi non ti capiranno mai.
E sai cosa? Non importa, vorrà dire che verremo tutti nella tua lavanderia a lavare i nostri panni sporchi. Loro, immagino, non ne avranno bisogno.
Io ho sempre avuto un unico tema al quale negli anni non ho mai smesso di dedicare la mia attenzione: la causa, diciamo così, “omosessuale”. Il motivo è molto semplice: mi riguarda da vicino. L’unico fratello che ho è gay. La maggior parte dei miei amici, pure.
Se devo dirla tutta, mi ha sempre fatto strano dover “lottare” per una cosa del genere.
Dal mio punta di vista, infatti, non ci sarebbe nulla per cui lottare. Insomma, non ho mai capito dove sta il problema. Perché l’orientamento sessuale di qualcuno dovrebbe suscitare scandalo, o dibattito? E infatti non dovrebbe, ma a quanto pare viviamo in un paese il cui livello di civiltà non è abbastanza elevato per capirlo. E stiamo parlando degli anni 2000. Anni in cui, tanto per dirne una, persino nelle fictions nazional-popolari un gay dolce&gabbana-look-a-like non manca mai. E già qua inizia il primo inghippo: l’omosessuale può comparire, certo, ma è solo e soltanto di un certo tipo: è sensibile, simpatico, intelligente, spesso belloccio, ed è il perfetto amico delle donne. Altrimenti, come si fa ad accettarlo?
Io ho saputo che mio fratello era gay, perché lui me ne ha parlato chiaramente, quando avevo si e no 15 anni. E non erano gli anni 2000, no, signori e signore. Erano i primi anni ’80, e di gay nella TV italiana neanche l’ombra. La società tutta, la chiesa tutta, la stampa tutta, avevano un’unica cosa da dirmi sull’argomento: tuo fratello è SBAGLIATO, tuo fratello ha qualcosa che NON VA. Ed è GRAVE.
Io mi sentivo abbandonata a me stessa, e terrorizzata. Guardavo mio fratello e mi sembrava normale. Guardavo i miei amici e mi sembravano normali. Ma a quanto pare ero l’unica a vederli così.
E’ stato il cinema, ancora una volta, a venirmi incontro e a salvarmi.
Nel 1986, il regista inglese Stephen Frears ha portato sugli schermi un film scritto da un allora giovane e sconosciuto autore anglo-pakistano di nome Hanif Kureishi, dal divertente titolo My Beautiful Laundrette (letteralmente: La mia bella lavanderia).
![]() |
Hanif Kureishi e Stephen Frears |
Eppure non avevo idea che quel film mi avrebbe cambiato la vita. Già, perché non solo in questo film mi stavano dicendo che mio fratello non aveva nessun problema, ma mi stavano addirittura facendo capire che mio fratello era super cool. E sapete cosa? Daniel Day Lewis, che nel film si chiama Johnny, non è un tipo particolarmente dolce e sensibile. No, è un ex-punk, ex-naziskin, con i capelli colorati metà scuri e metà biondi, che se ne strabatte di stare con un pakistano (e sullo schermo i due ragazzi si baciano e fanno sesso proprio come due etero qualsiasi), che spaccia droga per riuscire a trovare i primi soldi con cui aprire la lavanderia (che non a caso viene chiamata Powders, “polverine”...). Narra la leggenda che Stephen Frears non ne volesse sapere di far recitare Daniel Day Lewis. Figlio del poet laureate (quello che scrive le poesie per la Regina, tanto per intenderci) anglo-irlandese Cecil Day Lewis, nipote del produttore Sir Michael Balcon (quello degli Ealing Studios), Day Lewis trasudava troppa classe alta per Frears. Ma un bel giorno il nostro Daniel si è prentato all’audizione sfoggiando un perfetto slang dei bassifondi, e minacciando Frears che certi suoi amici non proprio raccomandabili gli avrebbero spaccato la faccia se non avesse avuto la parte. E deve averlo convinto.
My Beautiful Laundrette è il film più “vivo” che io abbia mai visto. Ho cercato a lungo un altro aggettivo, non l’ho trovato. Sprizza energia da tutti i pori della pellicola: è un film contro la Tatcher, contro il razzismo verso i pakistani (e allo stesso tempo contro alcune stupide tradizioni pakistane), contro la mentalità naziskin tipica di certa Inghilterra povera e ignorante, e contro le differenze di classe. E’ uno dei film più politically incorrect che abbia mai visto, talmente oltre da saltare a pié pari il “problema” dell’omosessualità di entrambi i protagonisti (problema? quale problema?). E’ una tale boccata d’aria, che ti si riempiono i polmoni di ossigeno in una sola immagine. E’ irriverente e spensierato. L’ultima scena, in cui Johnny e Omar si spruzzano con l’acqua di un lavandino ridendo come due bambini, con in sottofondo il glu glu glu di una lavatrice, ben rappresenta la vitalità e l’allegria con la quale si esce dalla sala dopo aver visto il film.
Leggendo questa mattina i giornali italiani e scorrendo le perle di saggezza uscite dalla bocca della Binetti e di Castelli sul tema dell’omosessualità, ho ripensato a Johnny.
L’ho rivisto che tira fuori la ingua per baciare il collo di Omar mentre dà un’occhiata complice alla macchina da presa. Ho pensato: Lascia perdere, Johnny, questi non ti capiranno mai.
E sai cosa? Non importa, vorrà dire che verremo tutti nella tua lavanderia a lavare i nostri panni sporchi. Loro, immagino, non ne avranno bisogno.
Ce li avranno immacolati.
Iscriviti a:
Post (Atom)