domenica 28 maggio 2017

Cannes à Paris - Giorno 3

Terzo giorno della rassegna e primi segni di cedimento.
Avrei un biglietto per vedere L'Atelier di Laurent Cantet alle 11 ma preferisco dormire un pochino e iniziare a scrivere le recensioni per il blog (eh, sí, perché il tempo per scrivere bisogna pur trovarlo!).
La stessa cosa mi capiterà la sera, dopo le séances delle 17.30 e delle 19.30: dovrei fermarmi per la visione di Loveless di Andrey Zvyagintsev ma la stanchezza ha il sopravvento e, nonostante scopra che il film ha vinto il Prix du Jury e che tutti ne sono entusiasti, prenderò la via del ritorno a casa...
Ma nel frattempo ecco i due film della giornata, che non avrebbero potuto essere più diversi l'uno dall'altro (è il bello del cinema, ragazzi!): 
Wonderstruck di Todd Haynes (US)
Che piacere ritrovare l'universo di un regista così particolare ed interessante come Todd Haynes, il quale torna al Festival di Cannes dopo il grandioso successo di Carol, presentato in competizione nel 2015.
Tratto dal libro di avventure per bambini di Brian Selznick (lo stesso che ha scritto Hugo Cabret, per intenderci), Wonderstruck racconta due storie parallele: una ambientata negli anni '70, il cui protagonista è Ben, un ragazzino di 12 anni che fugge a NY dal Minnesota alla ricerca di un padre che non ha mai conosciuto (e dopo che sua madre è morta improvvisamente in un incidente stradale) e l'altra ambientata alla fine degli anni '30, la cui protagonista è Rose, una ragazzina sordo-muta che fugge a NY dal New Jersey alla ricerca di un'attrice di film muti che lei adora (e si scoprirà poi perché). 
Ah che allegria questa storia per bimbi che in realtà fa parecchio bene anche ai grandi.
Haynes è un ottimo affabulatore ed un ottimo regista, per cui è un vero piacere seguire le storie parallele, una girata a colori con la bellissima ricostruzione della NY sporca e cattiva degli anni '70, e l'altra invece filmata in un radioso bianco e nero che omaggia i film dell'epoca del muto e la NY magnifica ed elegantissima della fine degli anni '30.
Forse un pochino troppo lungo (soprattutto nella parte ambientata al Museo di Scienze Naturali dell'Upper West Side), Wonderstruck è un film dal cuore tenero dal quale è facile lasciarsi trasportare.
I passaggi da una storia all’altra sono fluidi ed intelligenti, senza contare che la ricostruzione delle due NY è davvero straordinaria (non so cosa darei per poter andare in quelle meravigliose sale cinematografiche che si intravedono nella parte ambientata negli anni ’30).
Aiutato da un cast di tutto rispetto, e dalla complicità di una delle sue attrici feticcio, Julianne Moore (già protagonista di Far From Heaven e Safe), Haynes ci regala due ore spensierate, nonostante i temi abbordati siano tutt’altro che leggeri. 

Difficile restare indifferenti a questa grande dichiarazione d’amore a NY!

Aus dem nichts (In the fade) di Fatih Akin (Germany)
Altro regista che amo molto e tanta felicità all'idea di vedere il suo ultimo lavoro, che scopro essere criticatissimo dal punto di vista "morale", critica che a dire il vero mi lascia sempre un po' perplessa e mi fa già stare abbastanza simpatico il tutto.
In the fade racconta una storia molto dura: Katja e Nuri, tedesca lei, turco lui, sono sposati, hanno un bimbo di 7 anni, e vivono e lavorano ad Amburgo. Una sera, rientrando a casa, Katja scopre che c'è stato un attentato nel quale hanno perso la vita sia il marito che il figlio. Dopo un primo sospetto che si tratti di un regolamento di conti (Nuri in passato è stato in prigione per spaccio di stupefacenti), si fa presto strada la pista di un attentato a sfondo xenofobo da parte di neonazi. La polizia scopre i possibili colpevoli, che vengono processati. Quando però la giustizia fallisce, Katja decide di risolvere le cose a modo suo.
Diviso in tre parti: La Famiglia, La Giustizia e Il Mare, In the Fade è un film dalla struttura molto rigorosa e particolarmente efficace, soprattutto nella parte centrale, quella del processo alla coppia accusata dell'attentato. E' proprio in queste scene che Diane Kruger (scoprirò uscendo dal cinema che ha vinto il premio come miglior attrice) risulta eccezionale: devastata dal dolore ma decisa ad avere giustizia, accetta di avere davanti agli occhi gli assassini di suo marito e suo figlio e la loro freddezza scostante, la loro studiata indifferenza. Il momento in cui chiede di uscire dall'aula perché un perito sta ricostruendo il modo in cui è morto suo figlio e prima di uscire si scaglia contro la donna della coppia, è davvero sconvolgente. In molti hanno criticato il premio alla Kruger, e la cosa mi dà particolarmente fastidio, perché questa attrice da anni si sta costruendo un'ottima carriera, con scelte stilistiche sempre interessanti e mai scontate, recitando in almeno tre lingue diverse (è la prima volta che recita nella sua lingua made, ad esempio). Ma a quanto pare deve ancora scontare il fatto di essere una ex-modella e una donna dalla bellezza notevole, altrimenti non si capisce perché non si meriterebbe un premio per come ha recitato nel film di Akin. Il regista porta alla luce un fenomeno del quale personalmente non avevo mai sentito parlare: in Germani negli ultimi anni un gruppo di neonazi ha ucciso almeno 11 persone. Motivazione degli assassinii: si trattava di persone straniere. Insomma l'unica colpa di questi poveretti era quella di non essere tedeschi. E allora ben venga una storia che racconti un fatto tanto raccapricciante quanto insensato. E quanto alla presunta immoralità del finale, ho trovato particolarmente coraggioso che il regista abbia deciso di essere molto poco politically correct e di mostrare fino in fondo una storia che aveva concepito così. 
Giusto o sbagliato che sia dal punto di vista morale. 
In the fade è importante proprio per questo: non ti lascia indifferente, ti fa riflettere, ti fa discutere, ti scuote e ti fa mettere in dubbio parecchie cose.
E non mi sembra poco, per un film.

sabato 27 maggio 2017

Cannes a Paris - Giorno 2

Secondo giorno ed altri 3 film in programma per la vostra impavida blogger divoratrice di pellicola.  
A questo punto, la Sala 1 del Gaumont Pathé di Boulevard des Capucines è diventata una seconda casa, e ci si riconosce un po' tutti, anche se non si socializza, perché siamo a Parigi e di socializzare nessuno ha la minima intenzione. E vabbè... 
E dunque oggi ho visto:
Hikari di Naomi Kawase (Giappone)

Regista giapponese spesso presente al Festival di Cannes, Naomi Kawase è stata invitata in competizione anche quest’anno con Hikari (Luce). Storia dell’incontro tra un fotografo che ha perso quasi totalmente la vista e una ragazza che sta traducendo in parole un film per un pubblico di non vedenti. 
Ero felicissima di questa visione sia perché avevo trovato delizioso l’ultimo film della Kawase (An - Le ricette della Signora Toku), sia perché – come è noto – basta la parola Giappone ad illuminarmi la giornata.
Hikari, purtroppo, è un’opera non riuscita, a causa di una sceneggiatura zoppicante e troppo altalenante. Momenti davvero bellissimi ed intensi si alternano infatti a scene pericolosamente sentimentali, e sotto questo aspetto l'onnipresente musica di Ibrahim Maalouf spesso peggiora anziché migliorare le cose.
Peccato, perché Hikari è una riflessione molto interessante sul potere delle immagini e delle parole, sul senso stesso del cinema e sul suo valore nelle nostre vite.
La Kawase ha la straordinaria capacità di catturare la luce del sole, farla entrare in una scena e rendere quel momento prezioso e magico, e anche di far leggere come una mappa i volti dei suoi attori, che filma da vicinissimo, come a volerne cogliere l’essenza (ritroviamo qui il bravissimo Masatoshi Nagase, già protagonista di An, nonché poeta vagamente beat in Paterson di Jim Jarmusch).
Insomma un vero peccato.
Ad un certo punto qualcuno dice, nel film: Non c’è niente di più bello di quello che abbiamo davanti agli occhi e che è destinato a sparire.
Ditemi voi se il cinema non è proprio questa cosa qui!

Happy End di Michael Haneke (France)
Dite la verità: la vostra blogger di riferimento riesce sempre a stupirvi.
Ma come? Da anni scrive peste e corna sul cinema di Michael Haneke e poi va addirittura a vedere un suo film in anteprima? Ebbene sì, ma c’era una ragione ben precisa: il desiderio di poterne parlare male senza ritegno.
A questo giro, però, il nostro Haneke non ci dà neppure troppa soddisfazione.
Tanto ha fatto e tanto ha detto che con Happy End (apprezzate l’ironia del titolo) si è dato la zappa sui piedi da solo: questo film non è piaciuto a nessuno, talmente era trito e ritrito. 

Di grandi novità, in effetti, non ce n’erano. Trattasi del solito film in cui Haneke ci spiega che l’umanità fa schifo, la vita è orrenda e le famiglie sono il covo delle peggiori nefandezze. Qui non si salva proprio nessuno: dai 13 agli 85 anni, allegria e felicità distribuita in parti uguali (i più contenti non vedono l’ora di suicidarsi, per dire). Unico tocco in più: l’aggiunta di alcune figure di immigranti. Forse Haneke voleva stare al passo con i tempi, ma la cosa è talmente posticcia da risultare ridicola.
Il film è sopportabile solo ed esclusivamente per la presenza di Jean-Louis Trintignant (ah, quella voce!) e di Mathieu Kassovitz (dite quello che volete ma Kassovitz negli ultimi anni sta diventando sempre più bravo). 
A Isabelle Huppert invece vorrei fare un appello personale: Basta, la prego! Dica no al prossimo ruolo da antipatica-anaffettiva-ricca-stronza che le propongono. Dica sì ad una bella commedia di quelle stupide dall’incasso facile dove l’unica sfida sarà quella di fare un bel sorriso amabile e sincero davanti alla telecamera. 
Lo so, una prova durissima, ma lei è talmente brava che - ne sono certa - riuscirà a stupirci!

120 Battements par minute di Robin Campillo (France)
Uno dei film più attesi sulla Croisette e anche qui a Parigi (i biglietti sono andati esauriti in un attimo). Il nuovo lavoro di Campillo, il regista di Eastern Boys, racconta le lotte dell’associazione Act Up Paris nel corso degli anni ’90 per sensibilizzare l’opinione pubblica e il governo sull’epidemia dell’AIDS, che all’epoca stava facendo migliaia di morti. Famosi per i loro blitz contro le case farmaceutiche con spargimento di (finto) sangue infetto e per alcune dimostrazioni plateali nelle piazze e nelle scuole, il film segue un gruppo di attivisti (gay, lesbiche ma anche una mamma con un figlio emofiliaco diventato sieropositivo a causa di una trasfusione) nelle loro vite quotidiane. Gli incontri dell’associazione per stabilire nuove strategie e nuovi obiettivi, la preparazione e l’attuazione dei famosi blitz ma anche la nascita di amicizie e amori, di conflitti, momenti allegri (la discoteca, il gay pride), momenti super intensi (le scene di sesso sono stupende) e momenti terribili, quelli in cui la malattia prende il sopravvento e non dà scampo ad alcuni di loro.
Film così se ne vedono pochi: 120 Battements par minute (sono i battiti della musica disco) è compatto, asciutto, con bellissime idee di regia, una resa perfetta di ambienti e di personaggi, mostrati con tutte le loro contraddizioni e nella loro assoluta umanità. Ma è soprattutto un film che ti fa capire la forza e il coraggio con cui questo gruppo di giovani ha urlato forte contro tutto e tutti il loro desiderio di non voler morire. Il cast è notevolissimo: degli attori le cui facce ci farebbe piacere rivedere presto, con menzione speciale per il franco-argentino Nahuel Pérez Biscayart.
Alla fine della proiezione, in sala è scoppiato un applauso sincero e carico di emozione.
Uno di quei momenti in cui capisci la differenza fondamentale che esiste tra il guardare un film seduto sul divano di casa tua piuttosto che seduto al cinema, in mezzo ad altri essere umani che, come te, hanno appena smesso di piangere su Smalltown Boy dei Bronsky Beat.

Avevo una gran voglia di filmare la scena e mandarla ad Haneke: guarda che forse, per gli esseri umani, c'è ancora speranza.

venerdì 26 maggio 2017

Cannes a Paris - Giorno 1

Da qualche anno a questa parte, in concomitanza con gli ultimi tre giorni del Festival di Cannes, sbarcano a Parigi un buon numero di film provenienti dalla Croisette, sia in competizione che presenti nelle altre sezioni.
E così, magicamente, il Gaumont Opéra di Boulevard des Capucines diventa una specie di succursale del Festival, con lunghe file di gente in attesa di poter entrare alle proiezioni.
14 film in 3 giorni. Un vero tour de force al quale i cinéphiles parigini non si fanno certo trovare impreparati (e non vi dico lo stress per trovare i biglietti. Quest'anno, complice un bug informatico, mi sono personalmente déplacée al cinema per comprarli direttamente alla cassa!).
Ammetto di non riuscire a vederli tutti, non so se esistano persone capaci di stare chiuse in un cinema dalle 11 del mattino a mezzanotte (forse sì!), ma sto cercando di avere una media di 3 al giorno, e ovviamente mi diverto moltissimo e mi pare di vivere in un mondo parallelo, dove tutto quello che si può fare tra un film e l'altro è cercare di mangiare un panino in fretta e furia (un grazie speciale al mio amico Nico che mi ha accompagnato in questa maratona).
Il primo giorno, venerdì 26 Maggio, sono riuscita a vedere tutti e tre i film proiettati.
Ecco le mie impressioni, a caldo (nel vero senso della parola, viste le temperature parigine di questi giorni...):
The Killing of a sacred deer di Yorgos Lanthimos (US)
Era il film della competizione che aspettavo più di ogni altro, avendo adorato The Lobster, la precedente opera di Lanthimos (Prix du Jury al Festival di Cannes del 2015).
Somma delusione.
Dopo un inizio piuttosto interessante: atmosfera che si fa più opprimente ad ogni scena, recitazione allucinata degli attori, figura di adolescente disturbato e super inquietante (la cosa più bella del film, questo giovane attore straordinario che si chiama Barry Keoghan), il film diventa una specie di film di Haneke venuto male (e calcolando che a me Haneke piace pochissimo, immaginatevi la contentezza). Non ho davvero capito dove Lanthimos volesse andare a parare, con la storia di questo chirurgo americano dalla famiglia perfetta che subisce la vendetta del figlio di un uomo morto nel corso di una sua operazione. 
Il mito di Ifigenia in chiave moderna? Una qualche metafora sulla società attuale? L'apoteosi del senso di colpa insito in ogni uomo? Mah, chi può dirlo? Io no di sicuro.
A parte qualche sprazzo di ironia e di genialità qua e là, un film del quale sento che la mia vita non aveva alcun bisogno. Che di Haneke ce ne basta (e pure ce ne avanza) uno solo.
Quel dommage!

Nos Années Folles di André Téchiné (France)
Ho sempre amato il cinema di André Téchiné: un regista bravo e privo di fronzoli a cui il Festival di quest'anno ha regalato una séance spéciale per presentare il suo nuovo film.
Storia piuttosto incredibile, ma vera, di Paul e Louise Grappe. Paul, disertore durante la prima guerra mondiale, si nasconde a casa della moglie Louise travestendosi da donna e facendosi passare per Suzanne, una sua amica. La trasformazione in donna apre a Paul il mondo sino ad allora sconosciuto della vita notturna al Bois de Boulogne. Quando, dopo l'amnistia, l'uomo potrebbe tranquillamente riprendere la sua vita normale, si rende conto di non voler più rinunciare a Suzanne, con conseguenze tragiche. 
Film dalla solida fattura, Nos Années Folles è una bella riflessione sulla forza dei desideri umani (anche quelli più folli, giustamente) e sull'identità reale di ciascuno di noi, sostenuto dalla bravura di due attori che per me sono tra i migliori in assoluto qui in Francia: Pierre Deladonchamps (era il ragazzo testimone dell'omicidio in L'inconnu du Lac) nel ruolo di Paul e la mitica Céline Sallette in quello di Louise.

Le redoutable di Michel Hazanavicius (France)
Non avendo molta simpatia per Jean-Luc Godard, trovavo piuttosto bizzarra (e anche piuttosto coraggiosa, essendo Godard ancora alive and kicking) l'idea di Hazanavicius di farci sopra un film. Ma avevo molto amato il libro a cui il film si ispira, Un an après di Anne Wiazemsky, ed ero quindi particolarmente incuriosita dal risultato. 
Sorpresa, sorpresa: ho trovato questo film un'assoluta delizia. 
Con uno spirito totalmente Nouvelle Vague, Hazanavicious fa un ritratto veritiero, pieno di ironia e tenerezza, di questo mostro sacro del cinema contemporaneo. Godard è mostrato nel pieno delirio della "rivoluzione maoista": il '68 parigino è alle porte, lui ha appena girato La Chinoise (la cui protagonista è proprio sua moglie, Anne Wiazemsky) e sogna di rivoluzionare totalmente il suo modo (ma anche quello degli altri) di fare cinema e di vivere.
Hazanavicious, con una leggerezza degna dei suoi migliori OSS, ci fa divertire mostrandoci Godard in tutte le sue contraddizioni: vorrebbe vivere come un operaio ma vive comodo in un bell'appartamento del 6° arrondissement, vorrebbe fare la rivoluzione per le strade ma ha scarpe troppo scomode per correre e perde e rompe continuamente i suoi occhiali, invoca la parità uomo-donna ma tratta sua moglie come il peggiore dei conservatori di cui ha tanto orrore. Rubando idee di regia allo stesso Godard, con uno stile yé-yé davvero adorabile, il regista ci regala un film sorprendente proprio perché privo di qualsiasi pretenziosità su un regista considerato inattaccabile. Louis Garrel nel ruolo di Godard fa meraviglie: e chi meglio di lui, nato e cresciuto nell'ambiente Nouvelle Vague (il suo padrino è Jean-Pierre Léaud, per dire!), poteva divertirsi a "fare" Godard? E Garrel lo fa talmente insopportabile che alla fine risulta simpatico. Peccato per l'attrice Stacy Martin (la "ninfomane" del film di Lars Von Trier), che ha il fisico giusto alla Chantal Goya ma pochissimo carisma (è lei il grande difetto del film, insieme alle scene italiane, che per i miei gusti fanno un po' troppo "macchietta"), mentre è sempre un piacere vedere sullo schermo Bérénice Bejo e Grégory Gadebois (la scena in macchina mentre ritornano dal Festival di Cannes del '68 è da morire dal ridere!).
Ho cercato di leggere il meno possibile sui film di Cannes per non lasciarmi influenzare ma mi dicono che i critici hanno massacrato Le Redoutable (a me piace tantissimo anche il titolo!). Proprio non riesco a crederci, e vi invito ad andare a verificare di persona (io che difendo un film su Godard, davvero abbiamo visto tutto a questo mondo).
Tra l'altro, il regista ci regala anche un full frontal di Garrel, fosse anche solo per questo... vi assicuro che vale la pena di darci un'occhiata!
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