lunedì 30 settembre 2013

Della (grande) bellezza del Cinema Francese

A volte i miei amici italiani si chiedono perché io ami così tanto il cinema francese.
Intuisco che per molti, dopo fenomeni come la Nouvelle Vague e registi come Renoir e Bresson, il cinema francese sia diventato sinonimo di film snob e verbosissimi, dove gente bella e ricca con appartamenti di lusso passa il tempo seduta ai tavoli dei caffé della Rive Gauche a disquisire sulla sua vita sentimentale e sessuale.
Sarà che in Italia arrivano pochi film francesi, e forse non sempre i migliori, sarà che dall’Italia è anche un po’ impossibile capire le differenze sostanziali tra l’industria cinematografica di un paese rispetto ad un altro, resta il fatto che no, i migliori film fatti da queste parti in Italia NON si vedono, non circolano, e la motivazione mi è sconosciuta. 

In Europa, non c'è dubbio, quelli che producono più film all’anno sono proprio i Francesi. E la differenza rispetto agli altri paesi non è piccolina, tutt’altro.
Il fatto è che qui la gente va al cinema, tanto, che è poi anche il motivo per cui è più facile trovare soldi per produrre film. In Francia esiste un mercato per qualsiasi tipo di pellicola. Certo, anche qui gli Americani la fanno da padroni, però spesso e volentieri i film di maggiore incasso sono proprio quelli nostrani. E non sto parlando solo di film-fenomeno tipo Bienvenue chez les Ch'tis (Giù al Nord) o Intouchables (Quasi Amici). Un paio d’anni fa il campione d’incassi assoluto è stato il film di Guillaume Canet Les Petits Mouchoirs (Piccole Bugie tra Amici), che era un film di ottima qualità, con attori strepitosi, una solida sceneggiatura, insomma proprio un bel prodotto.
Però il problema rimane: se non c'è un attore o un attrice famosa (le solite Catherine Deneuve e Isabelle Huppert di turno), se non c'è un regista che attiri le folle, i film francesi davvero belli in Italia non arrivano quasi mai.
Nina (Céline Sallette) e Frédi (Grégory Gadebois)
Ci ho pensato ieri sera vedendo un gioiellino come il film Mon âme par toi guérie di François Dupeyron. Piccolo film certo con qualche difetto (troppa musica!) e qualche incertezza, ma con un fondo davvero sentito nel raccontare una storia e metterci "le trippe", e con una vena poetica di immagini e di contenuto che si fa strada e si installa nella testa. C'è un pizzico dell'ultimo film di Audiard, in questa storia di anime perse nel Sud della Francia, e anche se qui stiamo su un altro livello (che di Audiard ce n'è uno solo, ben inteso!), è bello constatare che ci sono registi che ci credono e si buttano. Certo, si buttano anche perché hanno tra le mani degli attori di una bravura eccezionale. Di quelli che ti viene voglia di applaudire ogni 5 minuti. Nello specifico, qui ci sono Grégory Gadebois e Céline Sallette, che per i fans italiani della serie TV Les Revenants (pure di questa, ne vogliamo parlare? ma quanto è bella??!), trattasi rispettivamente del gestore del bar e della ragazza lesbica che "adotta" il piccolo Victor. La Sallette in particolare, nella parte non facile di una donna alcolizzata (e si sa, è un attimo cadere nello stereotipo, nel già visto e nella caricatura, in questo genere di interpretazioni), fa davvero meraviglie.
E dal momento che stiamo parlando di grandi attrici ed ottime interpretazioni, come non citare quella recentissima di Emmanuelle Devos nel film Le Temps de l'Aventure di Jérôme Bonnell? Semplicemente strepitosa.
Ho paura che anche questa pellicola non arriverà mai in Italia, ed è un vero peccato, perché tutto suona giusto in questa storia d'amore che si consuma nel giro di un solo giorno (il 21 Giugno) tra due perfetti sconosciuti, una donna francese di 40 anni e un uomo inglese di 60... e quando lui è Gabriel Byrne, chi MAI si farebbe un problema della differenza d'età? Anche in questo caso, sceneggiatura che non fa una grinza e dialoghi perfetti, un passaggio sempre fluido tra momenti intensi ed altri francamente comici, con due o tre scene davvero d'antologia. Basti pensare a quella in cui la Devos, che nel film fa la parte di un'attrice, rifà due volte di seguito lo stesso provino cambiando completamente registro. Un piano sequenza da urlo dove non si può far altro che stare lì ad ammirare la sua bravura e nel frattempo ridere a crepapelle.
Alix (Emmanuelle Devos)
Doug (Gabriel Byrne)
Tutto questo per dire che non mi stanco mai di scoprire la cinematografia francese, e di godere della varietà di stili, storie, ed emozioni, di cui - stando qui sul posto - è facile bearsi. Ma si sa, io non faccio molto testo, io è da sempre che voglio vivere in un film in bianco e nero ambientato tra le strade di Parigi. E più i protagonisti stanno seduti ai tavoli dei caffé della Rive Gauche a disquisire, più io - lo ammetto - sono felice. 

martedì 24 settembre 2013

Blue Jasmine

Black screen. Jazz music. Windsor font opening credits.
I have lived this same scene seated in a cinema every year of my life since I was 15, I reckon. A certainty more than a simple vision, a steady point in an ever changing world: a Woody Allen’s movie. 

There are days when I hope this is going to last until the end of world, or at least of mine (and since Woody’s parents are still alive, I count on his genes for that!). 
Not every vision has been the same, of course: sometimes it was enlightening, sometimes depressing, sometimes sidesplitting, sometimes inspiring and sometimes disappointing.
You can’t have it all, I guess.
After a circumnavigation that brought him around the world: London, Barcelona, Paris and Rome (I have to admit I refused to look at this last episode, because I understood it would have been part of the disappointing-almost unbearable ones!), Woody went back home, even if in San Francisco instead of the usual Manhattan, to deliver us this thing called Blue Jasmine

Jasmine (Cate Blanchett) 
Jasmine is a woman in her 40s whose privileged existence is turned upside down by the sudden bankruptcy of her husband. For her, used to fancy apartments, expensive gifts, glamorous parties, jet-set friends and a commitments-free life, this is the end of the world. Penniless, and with just a couple of souvenirs from her previous life (a Hermès bag, a Chanel dress and a pair of Roger Vivier shoes), Jasmine is obliged to join the only family she has left: a sister living in San Francisco. Both adopted, Jasmine and Ginger can’t be more different than they are: sophisticated and delicate the first, ordinary and messy the second. Their life together is not exactly idyllic, and for Jasmine is almost impossible to cope with a bad apartment, a new job, her sister’s two wild sons and gross boy-friends. Will she be able to survive to all that and find her way through a new life? Who knows… 

Dwight (Peter Sarsgaard) and Jasmine (Cate Blanchett) 
If there is one thing Allen is always been great at, it is to choose the right cast.
Even the worst of his movies could count on astonishing performances, and this has been especially true for actresses. I think the reason is simple: Allen adores women, he is able to understand them, to write about them, to let them be what they genuinely are. I mean, Diane Keaton in Annie Hall didn’t become an icon of her generation by chance. Not to mention some of the magnificent roles Allen wrote for Mia Farrow or Dianne Wiest. 

To play Jasmine, an extremely complex character, a woman perpetually on the verge of a nervous breakdown, Allen made the best possible choice: Australian actress Cate Blanchett. The movie is literally shaped on her: on her silhouette, on the way she talks, she looks, she wears, she drinks, she suffers and she swings between hope and despair. The subtlety of her performance is a never ending surprise: the actress gave herself completely to Jasmine, touching almost unbearable moments of truth. The rest of the cast is there to serve her but nevertheless extremely good, with a special mention for Leigh-esque Sally Hawkins as her sister and Bobby Cannavale as Ginger’s rude and simple-minded boyfriend. 
Jasmine (Blanchett), Eddie (Max Casella), Chili (Bobby Cannavale) and Ginger (Sally Hawkins)
How fake is the life we are living? Is our existence based upon real facts or based upon a fictional world we have invented for our own sake? Jasmine goes through her life always pretending: pretending Jasmine is her real name, pretending she’s always been rich, pretending her husband is not cheating on her and pretending her poor sister doesn’t almost exist. And then, when this house of cards collapses, giving her a real chance of changing things, she keeps making the same stupid mistake, pretending again. 
The older he gets the somber he becomes, Allen, following a Bergmanian path that he traced patiently film by film. In this one, there is no hope left.
As you sow you shall reap… not much in this case, I’m afraid.

mercoledì 18 settembre 2013

Il senso di Bertolucci per la Nouvelle Vague

Bernardo Bertolucci e Claudia Cardinale (sotto lo sguardo di Costa Gavras)
Lunedì sera alla Cinémathèque Française c'era Bernardo Bertolucci
Dall'11 Settembre al 13 Ottobre danno qui una retrospettiva completa della sua opera e, come spesso accade, il regista viene invitato a partecipare a diversi eventi, tra cui la presentazione dei suoi film. 
Nel caso specifico, Bertolucci presenziava all'anteprima di Io e te, la sua ultima opera (in tutti i cinema francesi a partire da oggi).
Nonostante la sedia a rotelle sulla quale è ormai costretto a spostarsi, il regista appariva di ottimo umore e pure piuttosto in forma. Indossava delle calze a strisce colorate molto buffe, e aveva un bel sorriso che elargiva a tutti quanti con gran facilità.
Poco prima della proiezione nella sala Langlois, stracolma di gente, e dopo i discorsi ufficiali di Costa Gavras (Presidente) e Serge Toubiana (Direttore Generale), all'ingresso di Bertolucci il pubblico si è alzato in piedi e gli ha fatto una standing ovation di quelle che non se ne vedono tutti i giorni.
Bertolucci era commosso, io pure (ma io non faccio testo, mi commuovo anche quando vedo premiare gli atleti alla TV, nella piena consapevolezza del mio totale disinteressamento nei confronti di qualsiasi sport, per cui...). Ed anche se commosso, lui ha poi fatto un bel discorso: semplice, spiritoso, molto leggero, e breve, il che non era male.
Bertolucci con Costa Gavras e Serge Toubiana
Bertolucci non fa parte, lo dichiaro con gran sincerità, dei miei registi preferiti.
Ho molto amato alcuni suoi film, altri li ho considerati non interessanti ed alcuni li ho trovati profondamente irritanti. Però c'è una cosa di lui che mi ha sempre affascinato, e che me lo ha sempre fatto sentire vicino: il suo amore incondizionato, totale, per il cinema francese. Lo ha ripetuto anche lunedì sera: la Nouvelle Vague gli ha fatto venire voglia di fare film, lo ha ispirato, lo ha guidato, e il cinema francese gli piace così tanto che sarebbe tentato di parlare in francese agli attori e alla troupe anche quando gira un film italiano in Italia.
L'uomo che, per sua stessa ammissione, si mette a piangere di fronte ai piani sequenza di Godard, per me ha un po' un lasciapassare speciale.
Anche se (valle a capire, a volte, le bloggers), proprio il film in cui Bertolucci ha espresso in maniera più esplicita questa sua passione, The Dreamers, io non l'ho sopportato. Ma in questo caso, temo ci sia di mezzo un po' di gelosia (in piena proiezione, avrei voluto alzarmi dalla sedia e urlare: "No, le MIE prime parole sono state New York Herald Tribune!, cara Eva Green, non le tue!").
Louis Garrel, Eva Green e Michael Pitt: The Dreamers
Io e te (dedicato al fratello Giuseppe, di recente scomparso) è un film piacevole: la storia è interessante, l'atmosfera particolare, e c'è tra i due attori principali (entrambi alla loro prima esperienza cinematografica) una bella chimica. Non è un capolavoro, ma lo si vede volentieri.
Solo che come niente, proprio prima dei titoli di coda (attenzione: mega spoiler!), Bertolucci mi ha buttato lì una cosa che mi ha fatto subito venire un groppo in gola:
Antoine - Les 400 Coups
Lorenzo - Io e Te
Uno di quei gesti che fanno luce sul significato di appartenenza, una memoria visiva che è insieme ricordo, riconoscenza (in entrambe le eccezioni del significato), mondo privato, universo cinema che sta dentro ma pure un po' fuori di te, perfetta madeleine truffautiana.      
E allora altro che premiazione sportiva, c'è da sperare che la gente intorno non si accorga che stai piangendo perché Bertolucci ha appena detto ti amo a Truffaut.
Jean-Pierre Léaud in un'intervista un giorno ha dichiarato: "Per esistere, ho bisogno della cinepresa. Nella vita non c'è cinepresa, e io divento noioso. La macchina da presa è il mio unico punto di riferimento".
Eh, benvenuto al club!

domenica 15 settembre 2013

In de bioscoop

Non sopporto leggere delle interviste in cui si dice che molto presto, a causa delle nuove tecnologie, la gente non andrà più al cinema.
Non lo sopporto semplicemente perché non è vero.
La stessa cosa vale per quelli che preannunciano ad ogni piè sospinto la morte dei libri. 
Ovvio, quando non esisteva altro mezzo per vedere un film se non andare al cinema, la gente ci andava in massa. E quando non esisteva altro mezzo per leggere un libro, la gente si portava dietro dei tomi pesantissimi. Oggi è meravigliosa l'idea di poter vedere ogni volta che si vuole un film che si ama in DVD o Blue Ray, così come è tanto comodo leggersi un libro di 300 pagine su un tablet. Come si può negarlo? E del resto io faccio entrambe le cose, quindi non potrei sostenere altra tesi.
Ma da qui al dire che il cinema e i libri sono morti ce ne corre.
E non perché faccia parte di una élite culturale che se la tira e si considera detentrice di tutta la sapienza del mondo, no, lo affermo semplicemente perché là fuori ci sono un sacco di persone, come me, per cui il fatto di andare al cinema è un'esigenza concreta. Necessaria.
E il fatto di tenere in mano un libro, sfogliare le pagine e sentirne l'odore, ha a che fare con un piacere fisico (oltre che culturale).
Quando non vado al cinema per un po' di tempo mi sembra che mi manchi qualcosa.
Durante le vacanze spesso è una tortura l'idea di essere in un posto dove non ci sia un cinema nei dintorni, anche se, come in tutte le forme d'amore, il fatto di ritrovarsi dopo un po' di tempo accresce il desiderio e fa capire l'importanza del rapporto.
Niente e nessuno mi distaccheranno mai da quella gioia un po' insensata e inconsapevole di entrare in un cinema, sedersi in mezzo a sconosciuti che però sono anche un po' fratelli, e aspettare che il film abbia inizio. E dato che non sono la sola a pensarla così, chiunque dica che il cinema è morto non sa veramente di che cosa stia parlando.
Qualche giorno fa sono andata a trovare degli amici ad Amsterdam.
Mentre eravamo seduti ad aspettare l'autobus, mi sono messa a fissare la locandina di un film che stava dentro un pannello pubblicitario. Il film era olandese: Borgman di Alex van Warmerdam, un attore/regista di cui non ho mai visto nulla, ahimé (c'è sempre da scoprire nuovi mondi, per fortuna!). Incuriosita dalla scritta sopra la locandina, In de Bioscoop, ho chiesto all'amica che era con me cosa significasse. E lei mi ha risposto: Al Cinema.
Non so spiegarvi perché questa cosa mi sia piaciuta da morire. Forse perché sono abituata che tutte le parole che hanno a che fare con il cinema ed i film si somigliano un po' in tutte le lingue che conosco. Insomma mi è perso che questo bioscoop fosse una specie di nuovo mondo parallelo e perfetto, una biosfera filmica, un luogo speciale fatto di immagini e sogni e ricordi incredibli. 
Il bioscoop, insomma, quella cosa meravigliosa che esisterà sempre.
Quella cosa dove passo la vita.

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