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giovedì 16 aprile 2020
martedì 10 maggio 2016
Palme d'Honneur !
Ci sono notizie che non ti aspetti e che arrivano così, in mezzo ad una giornata in cui fai fatica a stare dietro a tutto perché hai passato due settimane dall’altra parte del mondo ma il mondo che avevi di qua non si è fermato.
Al Festival di Cannes 2016, che aprirà i battenti domani, il 22 Maggio consegneranno la Palme d’Honneur all’attore francese Jean-Pierre Léaud.
Per me, è come se questo premio lo prendesse uno di famiglia.
Perché con Antoine Doinel ci sono cresciuta.
Con Antoine Doinel mi sembra di aver passato la vita a prendere dei Pastis al bancone dei caffé della Rive Gauche, quelli piazzati di fianco a qualche cinema d’essai (perché così “si può passare a controllare l’orario”, come diceva Léaud in un altro fim di Truffaut, La Nuit Américaine).
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Il mitico monologo dello specchio: Antoine Doinel in Baisers Volés (F. Truffaut) |
Léaud è stato il volto e l’attore simbolo di tutta la Nouvelle Vague, ha lavorato con i più grandi registi dell’epoca: François Truffaut, Jean-Luc Godard, Jacques Rivette, Jean Eustache, e poi con quelli che adoravano quegli stessi registi: Bernardo Bertolucci, Olivier Assayas, Aki Kaurismäki, Tsai Ming-Liang, Philippe Garrel, in un corto circuito di cinefilia totale.
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Henri (Léaud) e Vic (Serge Reggiani) - I hired a contract killer (A. Kaurismäki) |
L’amicizia tra Truffaut e Godard si è rotta praticamente a causa sua: Truffaut, che considerava Léaud come un figlio, non sopportava il modo in cui Godard lo trattava. E Léaud, che considerava Truffaut come un padre, alla sua morte ha passato anni bui in bilico su un baratro dal quale si è salvato solo per miracolo.
Oggi, lontano dallo sguardo sbarazzino del piccolo Doinel, lontano dalla spavalderia di quel film-fiume capolavoro assoluto che era La maman e la putain, Léaud resta comunque Léaud.
Con le sue ferite di guerra tutte intatte, e la certezza di far parte della storia del cinema, con o senza Palme d’Honneur.
Non sarà facile prenderlo sulle spalle e portarlo in giro per Cannes tutto trionfante come aveva fatto Jean Cocteau all’epoca dei 400 Coups (Léaud aveva allora 12 anni), ma se qualcuno avesse il coraggio di farlo, sono sicura che lui non batterebbe ciglio.
Perché Doinel, sera toujours Doinel!
mercoledì 18 settembre 2013
Il senso di Bertolucci per la Nouvelle Vague
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Bernardo Bertolucci e Claudia Cardinale (sotto lo sguardo di Costa Gavras) |
Dall'11 Settembre al 13 Ottobre danno qui una retrospettiva completa della sua opera e, come spesso accade, il regista viene invitato a partecipare a diversi eventi, tra cui la presentazione dei suoi film.
Nel caso specifico, Bertolucci presenziava all'anteprima di Io e te, la sua ultima opera (in tutti i cinema francesi a partire da oggi).
Nonostante la sedia a rotelle sulla quale è ormai costretto a spostarsi, il regista appariva di ottimo umore e pure piuttosto in forma. Indossava delle calze a strisce colorate molto buffe, e aveva un bel sorriso che elargiva a tutti quanti con gran facilità.
Poco prima della proiezione nella sala Langlois, stracolma di gente, e dopo i discorsi ufficiali di Costa Gavras (Presidente) e Serge Toubiana (Direttore Generale), all'ingresso di Bertolucci il pubblico si è alzato in piedi e gli ha fatto una standing ovation di quelle che non se ne vedono tutti i giorni.
Bertolucci era commosso, io pure (ma io non faccio testo, mi commuovo anche quando vedo premiare gli atleti alla TV, nella piena consapevolezza del mio totale disinteressamento nei confronti di qualsiasi sport, per cui...). Ed anche se commosso, lui ha poi fatto un bel discorso: semplice, spiritoso, molto leggero, e breve, il che non era male.
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Bertolucci con Costa Gavras e Serge Toubiana |
Ho molto amato alcuni suoi film, altri li ho considerati non interessanti ed alcuni li ho trovati profondamente irritanti. Però c'è una cosa di lui che mi ha sempre affascinato, e che me lo ha sempre fatto sentire vicino: il suo amore incondizionato, totale, per il cinema francese. Lo ha ripetuto anche lunedì sera: la Nouvelle Vague gli ha fatto venire voglia di fare film, lo ha ispirato, lo ha guidato, e il cinema francese gli piace così tanto che sarebbe tentato di parlare in francese agli attori e alla troupe anche quando gira un film italiano in Italia.
L'uomo che, per sua stessa ammissione, si mette a piangere di fronte ai piani sequenza di Godard, per me ha un po' un lasciapassare speciale.
Anche se (valle a capire, a volte, le bloggers), proprio il film in cui Bertolucci ha espresso in maniera più esplicita questa sua passione, The Dreamers, io non l'ho sopportato. Ma in questo caso, temo ci sia di mezzo un po' di gelosia (in piena proiezione, avrei voluto alzarmi dalla sedia e urlare: "No, le MIE prime parole sono state New York Herald Tribune!, cara Eva Green, non le tue!").
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Louis Garrel, Eva Green e Michael Pitt: The Dreamers |
Solo che come niente, proprio prima dei titoli di coda (attenzione: mega spoiler!), Bertolucci mi ha buttato lì una cosa che mi ha fatto subito venire un groppo in gola:
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Antoine - Les 400 Coups |
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Lorenzo - Io e Te |
E allora altro che premiazione sportiva, c'è da sperare che la gente intorno non si accorga che stai piangendo perché Bertolucci ha appena detto ti amo a Truffaut.
Jean-Pierre Léaud in un'intervista un giorno ha dichiarato: "Per esistere, ho bisogno della cinepresa. Nella vita non c'è cinepresa, e io divento noioso. La macchina da presa è il mio unico punto di riferimento".
Eh, benvenuto al club!
lunedì 15 luglio 2013
Frances Ha
I am crazy about movies quoting other movies.
Because I feel the joy of having found soul mates, people who go through their lives constantly thinking about cinema, talking about cinema, making cinema referring to other cinema. Basically, cinema freaks like me, who can’t conceive life without the filter of movies.
When I watch films made by people like this, I feel like they’re telling me: Hey you, welcome home!
It doesn’t happen every day, but it does happen.
It is something I have constantly felt looking at the last Noah Baumbach’s movie, Frances Ha, written by him and by the main actress of the film, Greta Gerwig.
... and, of course, during her short trip to Paris,
somebody wants to invite Frances to a party where there is a guy "Who
looks like Jean-Pierre Léaud!"
Thus said, Frances Ha is not a good movie because of its hommages to the Nouvelle Vague universe. You can (of course!) see the movie completely unaware of them and enjoy it immensely. Frances character is super interesting: captured in one of those weird moments of life where adulthood should be installed but in fact is not already there, this young woman invades the screen with her clumsy gestures, her free-flowing monologues, her disarming need to be loved and to find her place in the world. Slightly irritating at first, gripping while struggling to survive among many difficulties, absolutely charming in her candid attempts to assert herself. The moment where, completely drunk, she explains what a relationship should be for her, is a little masterpiece, and Gerwig is astonishing in this made-to-measure role.
But be careful: this is not a rom com or a chick flick, this is a modern movie about a young woman whose first need is not to find a man but to find herself.
Undatable, as her friend Benji keeps describing her?
Maybe, but also very irresistible!
Because I feel the joy of having found soul mates, people who go through their lives constantly thinking about cinema, talking about cinema, making cinema referring to other cinema. Basically, cinema freaks like me, who can’t conceive life without the filter of movies.
When I watch films made by people like this, I feel like they’re telling me: Hey you, welcome home!
It doesn’t happen every day, but it does happen.
It is something I have constantly felt looking at the last Noah Baumbach’s movie, Frances Ha, written by him and by the main actress of the film, Greta Gerwig.
The two, who already worked together in the previous Baumbach's movie,
Greenberg,
are now a couple à la ville.![]() |
Sophie (Mickey Sumner) and Frances (Greta Gerwig) |
Frances Ha tells the story of Frances, a 27 years old girl who lives in Brooklyn together with her best friend, Sophie. While Sophie works for a publishing house, Frances has a precarious job: she is an apprentice dancer who dreams to integrate a dancing company but always fails at it. When Sophie announces to her that she is moving to Manhattan with another friend, Frances's world starts progressively to collapse. She looses the apartment, the job and, after a monumental fight, also her best friend. It will take time, to Frances, to put together all the pieces that will bring her to become Frances Ha.
New York filmed in black and white: it is so Manhattanesque that you almost believe to have heard a Gershwin music somewhere, but instead, quite surprisingly, what you really hear is a piece called “L’école Buissonière” by Jean Constantin, taken from Les 400 Coups by François Truffaut. The whole music, as a matter of fact, is taken from Nouvelle Vague films, with a prominent presence of Georges Delerue and a hint of Antoine Duhamel.
I have prevented you: this is home.
It is home to the point that, when Frances starts walking/dancing on the streets of New York on Modern Love by David Bowie, the image of Denis Lavant in Mauvais Sang by Leos Carax naturally arises, overlapping the one on the screen.
And
how is it possible not to think about Samy Frey, Claude Brasseur and
Anna Karina in Bande à Part by Jean-Luc Godard when Frances is sharing
the apartment together with Lev and Benji? Nobody
will be surprised if these three would start running together in the
corridors of the MET…
I have prevented you: this is home.
It is home to the point that, when Frances starts walking/dancing on the streets of New York on Modern Love by David Bowie, the image of Denis Lavant in Mauvais Sang by Leos Carax naturally arises, overlapping the one on the screen.
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Modern Love - Baumbach Version |
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Modern Love - Carax Version |
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Bande à part - Baumbach Version |
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Bande à part - Godard Version |
Thus said, Frances Ha is not a good movie because of its hommages to the Nouvelle Vague universe. You can (of course!) see the movie completely unaware of them and enjoy it immensely. Frances character is super interesting: captured in one of those weird moments of life where adulthood should be installed but in fact is not already there, this young woman invades the screen with her clumsy gestures, her free-flowing monologues, her disarming need to be loved and to find her place in the world. Slightly irritating at first, gripping while struggling to survive among many difficulties, absolutely charming in her candid attempts to assert herself. The moment where, completely drunk, she explains what a relationship should be for her, is a little masterpiece, and Gerwig is astonishing in this made-to-measure role.
But be careful: this is not a rom com or a chick flick, this is a modern movie about a young woman whose first need is not to find a man but to find herself.
Undatable, as her friend Benji keeps describing her?
Maybe, but also very irresistible!
venerdì 16 dicembre 2011
Le Havre
Una sola frase, un solo volto, una sola inquadratura, e vi saprò riconoscere con assoluta certezza un film a caso del regista Finlandese Aki Kaurismäki.
Kaurismäki io lo amo in maniera totale, non solo per quello che gira e come lo gira, ma anche per le interviste che rilascia, per il festival di cinema che organizza ogni anno a metà Giugno in Lapponia, per la sua cinefilia spinta e senza confini, per il suo essere volutamente vintage e completamente al di fuori della società contemporanea (dei suoi credo, dei suoi ritmi e delle sue inutili cazzate). Lui è uno di quei meravigliosi registi che nel corso di una carriera hanno creato un vero e proprio universo parallelo, una famiglia cinematografica circoscritta e fedele, un'oasi di pace e felicità a cui potersi rivolgere in caso di bisogno.
Che i suoi film siano ambientati a Helskinki, Londra, Parigi o Le Havre, poco importa. Tutte le città sono uguali, tutte le case sono identiche, in Kaurismäki Land. Il sole splende appena. Di solito fuori è buio, piove e fa freddo. Tutti sono poveri, con rarissime eccezioni (e se sono ricchi, allora sono cattivi). Nessuno corre. La gente cammina lenta, e parla (quando lo fa) altrettanto lentamente. Nessuno ha il cellulare. I telefoni hanno ancora le tastiere a disco. I mobili, i vasi, gli orologi, i vestiti, sono anni '50. Le macchine, delle vecchie trabant di origine russa con porta-termos incorporato. I taxi hanno le tendine di pizzo sul vetro in fondo. Si fuma e si beve molto, questo sì. Ci sono sempre bar con un vecchio bancone di zinco, un jukebox, e delle facce da galera (che poi si rivelano buonissime) appoggiate al suddetto. La musica è puro rock & roll. I musicisti hanno capelli lunghi con bananone sulla fronte, scarpe a punta, look che neanche Elvis nei giorni peggiori. E se non è rock, allora è un tango finlandese o un improbabile pezzo melodico giapponese. Sempre ascoltati attraverso una vecchia radio o uno stereo, s'intende. Gli amici sono veri amici che non si tradiranno mai, pronti a qualsiasi cosa gli uni per gli altri. Gli amori sono totali, iniziano con un semplice sguardo e durano tutta la vita. Il sesso non esiste, non è contemplato. I baci sono rari e castissimi. Anche di violenza ce n'è poca. Ogni tanto la gente viene picchiata, ma sembra un po' una scena da ridolini. I personaggi hanno una dignità, una gentilezza, un'ironia, da lasciare incantati. Non piangono mai, e se provano un dolore insensato, si limitano a guardare nel vuoto con aria perduta. Gli attori, è ovvio, sono sempre gli stessi: come la mitica Kati Outinen, attrice eccezionale e protagonista assoluta della filmografia kaurismakiana. E quando gli attori non ci sono più (come nel caso del suo alter ego, il compianto e mai dimenticato Matti Pellonpää), allora lui li fa vedere da bambini in una foto, e li trasforma nei figli perduti della coppia protagonista di un film, oppure fa appendere il loro dagherrotipo a una parete del Moskova Baari (un bar di Helsinki proprietà dei fratelli Kaurismäki, dove leggenda narra che accanto al bancone stia appeso un cartello: Facciamo credito solo a Lenin, gli altri devono pagare in contanti).
Da buon fanatico della Nouvelle Vague, il regista è stato anche capace di ridare vita ad una leggenda come quella di Jean-Pierre Léaud, al quale Kaurismäki ha affidato, dopo 15 anni di inattività e silenzio seguiti alla morte di Truffaut, il ruolo da protagonista in Ho affittato un killer (1990). Nei suoi film si ritrovano spesso, del resto, artisti francesi che lui ha amato, come Serge Reggiani e, proprio in Le Havre, il regista Pierre Etaix. Altra presenza fondamentale e costante: Laika, la sua cagnetta. In questo mondo sopra le righe, anche i titoli delle sue opere sono spesso molto buffi: Total Balalaika Show, Calamari Union, I Leningrad Cowboys incontrano Mosé, Amleto si mette in affari, Tieni il tuo foulard, Tatjana. Non sono adorabili?
Le Havre è la continuazione a colori, 20 anni dopo, di Vita da Bohème, un film in bianco e nero che Kaurismäki aveva girato a Parigi. Il tempo è passato ma i protagonisi sono rimasti esattamente gli stessi, e vivono poveri ma dignitosi in un quartieraccio della città portuale. Quando Marcel Marx (omaggio a chi, questo nome? Groucho? Karl? Entrambi?), che si guadagna da vivere come lustrascarpe (!!?) incontra per caso un piccolo clandestino africano, non ha un attimo di esitazione ad accoglierlo in casa, nutrirlo e cercare di aiutarlo a realizzare il suo sogno, quello di raggiungere la madre che vive in Inghilterra. Nonostante una moglie, Arletty (a proposito di omaggi...), all'ospedale e in fin di vita, e un poliziotto esistenzialista che gli sta alle calcagna, Marcel si farà in quattro per trovare i soldi che riusciranno a regalare a Idrissa un passaggio su un'imbarcazione che fa Le Havre-Londra. Grazie al denaro raccolto con un concerto benefico di Litte Bob (ma dov'è andato a recuperarlo Aki questo Roberto Piazza, improbabilissimo Little Tony ante litteram??!), il sogno può diventare realtà, ma non sarà l'unica sorpresa in serbo per i protagonisti del film.
Con il consueto stile: essenziale, ironico ed efficace, inquadrature semplicissime ma di una bellezza sconcertante (ah, quel genio di Timo Salminen, il direttore della fotografia di TUTTI i suoi film!), e dialoghi inverosimili, Kaurismäki sforna l'ennesimo capolavoro di grazia e lucidità. Su un tema, quello dell'immigrazione, da molti considerato troppo spinoso e difficile da affrontare. Ma Aki non ha paura di niente, ci mette dello humour finlandese (André Wilms che si spaccia per il fratello albino del padre di Idrissa), un tocco alla Frank Capra, un omaggio truffautiano (Léaud, again) e un messaggio chiaro su come risolvere il problema. Che sta tutto in una parola sola: solidarietà.
L'ho sempre pensato, io: se la gente fosse come nei film di Kaurismäki, questo mondo sarebbe il migliore dei mondi possibili.
domenica 13 novembre 2011
Cinéma Confort!
Persino quando arrivo per la prima volta in una città sconosciuta, e quindi sensatamente dovrei essere in giro a visitare le bellezze della suddetta, finisce, non si sa bene come, che io mi ritrovi tempo zero in un cinema. Così è puntualmente successo venerdì scorso: dopo nemmeno tre ore che ero arrivata a Bruxelles, città nella quale non avevo mai messo piede in vita mia, già stavo seduta nel mitico cinéma confort (!!!) L'Aventure. Certo, la colpa è anche un po' dei miei amici, che conoscono le mie perversioni e le assecondano (vero, Nicola?). Devo ammettere, questa sala valeva veramente la pena: collocata nel bel mezzo di una galleria improbabile che non avrebbe sfigurato in un qualsiasi film di Mike Leigh, il décor dell'Aventure è rimasto intatto dagli anni '70 ad oggi e segna il trionfo del colore viola. Tutte le pareti, le comodissime poltrone, anche un po' la faccia di quello che vende i biglietti (per altro molto simpatico e gentile): l'apoteosi del monocolore più inquietante che ci sia.
Il cinema contiene ben tre sale cinematografiche, e noi ci siamo ritrovati in quella più piccola, dove a fianco dello schermo troneggiava una lampada degna di Saturday Night Fever dall'effetto ipnotico assicurato.
Tra l'altro, eravamo gli unici spettatori. Il film prescelto, perché certo non potevamo andare a vedere l'ultimo blockbuster in 3D, all'Aventure, era un film colombiano di qualche anno fa, per cui forse era prevedibile che non ci fosse tutta questa gran folla.
Che bello, comunque, stare da soli in una sala cinematografica. Ci si sente dei produttori degli anni '30 a Los Angeles che si fanno proiettare i film nella sala adibita a cinema della loro casa tutta vetri sulla collina di Hollywood. Un vero lusso!
L'effetto del cinema, quando si è in una città sconosciuta, può essere sorprendente: anche se non ci ero mai stata, a Bruxelles, arrivando in macchina in una piazza della città, ho avuto un preciso déjà-vu. Io lì ci avevo già messo piede, io riconoscevo quei luoghi. E' stato dopo un attimo di riflessione che mi sono resa conto di averli visti qualche settimana fa in un film del 1967 di Jerzy Skolimowski, Le Départ, con Jean-Pierre Léaud (e la meravigliosa musica di Krzysztof Komeda). Forse il ricordo è stato ancora più nitido perché si trattava di un film in cui Léaud cerca disperatamente una macchina per partecipare ad un rally (cosa che non riuscirà mai a fare) e noi stavamo passando da quella piazza su una Lancia Fulvia del 1969, una vecchia macchina che sembrava uscita tale e quale dal film, e che azzerava in un attimo la distanza di oltre 40 anni dalle immagini della pellicola.
Tutto questo, ancora una volta (temo), per ribadire il concetto che la vita mi sembra molto più interessante se vissuta attraverso il filtro di uno schermo cinematografico.
Gli eventi sono gli stessi, certo, ma volete mettere il confort?
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