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venerdì 6 novembre 2015

Saul Fia (Il Figlio di Saul)

Esiste qualcosa che non possa essere rappresentato al cinema? 
Qualcosa che non si possa mostrare su uno schermo perché troppo “near the bone” (vicino all'osso), come dicono gli inglesi?
Il dibattito è acceso e di lunga data, soprattutto su un aspetto terribile della nostra storia recente: l’Olocausto. Più o meno tutti i registi che se ne sono occupati hanno dovuto fare i conti con polemiche accesissime e dibattiti infiniti. E’ successo a Spielberg con Schindler’s List e a Benigni con La vita è bella, tra gli altri.
All’ultimo Festival di Cannes, c’era un film che ha avuto il riconoscimento più importante dopo la Palme D’Or, il Grand Prix du Jury, che parlava proprio di questo: Saul Fia (Il Figlio di Saul) di László Nemes. E, incredibile ma vero, questo giovane uomo di 38 anni al suo primo lungometraggio, sembra avere messo tutti d’accordo. E, dopo aver visto il film, si capisce benissimo perché.
Il regista ungherese László Nemes
Ottobre 1944, Campo di sterminio di Auschwitz
Saul, ebreo ungherese, fa parte di un sonderkommando, ovvero un gruppo di lavoro creato dalle SS e composto da ebrei che al loro arrivo nei lager vengono scelti (essenzialmente per la loro robusta costituzione) per fare il lavoro “sporco” e avere così risparmiata la vita per qualche mese. Il lavoro consiste nell’accompagnare i nuovi arrivati verso le camere a gas (facendo loro credere che si tratti di docce), rimuovere i loro corpi (i “pezzi”, come li chiamano i loro aguzzini), trasportare i cadaveri verso i forni crematori e poi disperdere la loro cenere. Un giorno, Saul assiste alla scena di un ragazzino che viene ritrovato ancora vivo dopo la camera a gas (e che viene ucciso subito dopo). Dentro Saul scatta qualcosa, forse l'ultimo spiraglio di umanità: non avrà pace sino a quando non avrà dato una degna sepoltura a questo ragazzo. La sua spasmodica ricerca di un rabbino si intreccia con il tentativo, da parte del sonderkommando, di fare un attentato contro le SS per cercare la libertà.
Film di potenza mistica, oggetto contundente in grado di straziare il cuore, Saul Fia è lo sguardo sull'orrore allo stato puro, è la visione ininterrotta e insopportabile dell'abisso, del buio assoluto.
Il regista fa una scelta stilistica semplicissima: attacca la cinepresa sulle spalle del protagonista, come se fosse l'ennesimo fardello che lui debba portarsi appresso, come se ci fosse ancora spazio per un solo, infinitesimo dolore nella vita-non-vita di Saul e delle altre ombre intorno a lui. E sono ombre tanto più che tutto il resto, a parte il volto o le spalle di Saul, rimangono sfuocati, semplicemente perché non sarebbe possibile mettere a fuoco quello che c'è da vedere, perché andrebbe oltre l'umana sopportazione. Nemes ci fa sentire solo le voci, e quelle bastano e avanzano: prima quelle grondanti falsità delle SS che spingono i prigionieri dentro le docce (fate presto, la zuppa si raffredda, mi raccomando ricordatevi il numero di appendino sul quale avete lasciato i vestiti) e poi le urla di donne, uomini e bambini che vengono uccisi. 
Saul, il volto scarno, lo sguardo cocciuto e disperato (lo interpreta l'attore miracolo Géza Röhrig, al suo primo film!!!), si aggira per il campo senza fermarsi mai. La sua ricerca di un rabbino come ultima risorsa per dare un senso a quello che, non c'è logica o religione che tenga, un senso non ce l'ha.
E’ solo alla fine del film, quando scorrono i titoli di coda, che ci si rende conto di non aver respirato per due ore. Di essere rimasti in apnea, di aver sospeso ogni funzione vitale. Ed è solo a quel punto che le emozioni vengono a galla, tutte insieme, una specie di dolore sordo misto a lacrime interne, che si traduce all’esterno in un’espressione stravolta ed attonita.
Come sempre, in questi casi, mi sorge spontanea un’unica domanda: ma come è stato possibile che degli essere umani abbiano fatto questo ad altri esseri umani?
E mi torna in mente quella battuta, agghiacciante quanto efficace, sentita in un film di Woody Allen (credo fosse Deconstructing Harry/Harry a pezzi ma non ne sono certa). 

La sorella molto credente ed osservante del protagonista, interpretato da Allen stesso, lo rimprovera:
- Tu sarai uno di quelli che finiranno con il negare l’Olocausto!
E lui; di rimando:
- Ti sbagli, sorella, non solo so che hanno ammazzato 6 milioni di noi ebrei, ma so anche che i record sono fatti per essere battuti.
Ecco, in questo caso, speriamo proprio di no.

domenica 24 giugno 2012

Bertolucci, Ti voglio bene!

Una settimana fa è morto il regista Giuseppe Bertolucci.
Fratello minore di Bernardo e secondogenito del poeta Attilio, è stato forse il Bertolucci meno conosciuto ma non per questo meno interessante. 
Ci sono registi a cui a volte ci si affeziona anche solo per un film, e per me con Bertolucci è stato così. Non ho visto tutte le sue opere, non conosco bene la sua produzione, ma lui è il regista e lo sceneggiatore (insieme a Benigni) di Berlinguer Ti voglio bene, e tanto mi basta. 
Ho visto questo film moltissimi anni dopo la sua uscita, grazie ad un caro amico fiorentino, e non a caso. Berlinguer Ti voglio bene è un vero e proprio caso di film culto, in Toscana. Tutti lo conoscono, tutti lo hanno visto, e in tanti citano le sue battute a memoria, come fosse una sorta di Rocky Horror Picture Show nostrano.  
Film del 1977, Berlinguer Ti voglio bene è stato girato in soli 28 giorni nella zona di Prato e dintorni, e quando è uscito è stato un vero e proprio fiasco (in parte dovuto al fatto che fosse vietato ai minori di 18 anni). Protagonista assoluto della pellicola è il giovane Cioni Mario, interpretato dallo stesso Benigni (all'epoca 25enne): giovane operaio che vive con la madre in un casolare isolato, Cioni passa il suo tempo con gli amici al bar, a vedere film porno al cinema, ad andare con prostitute, o a vagare per la campagna toscana facendo a voce alta ragionamenti sconclusionatissimi sulla vita, l'amore, le donne.  
Cioni Mario, un mito
Classico esempio di film troppo avanti rispetto al suo tempo, Berlinguer Ti voglio bene fa parte di una piccola nicchia di film italiani dalla comicità surreale, intelligente, provocatoria, dissacrante e al tempo stesso poetica, di cui si sente sempre più la mancanza. 
Bertolucci e Benigni, scrivendolo, e poi girandolo, non hanno avuto paura di niente, né dal punto di vista dei contenuti, né dal punto di vista dello stile. In questo senso, la scena più indimenticabile del film è un lungo piano sequenza di Cioni Mario che alla notizia (in realtà una bufala) della morte della madre, si mette a vagare per la campagna recitando un monologo infarcito di scurrilità, parole incomprensibili e parolacce. E' una scena potentissima che lascia assolutamente sconvolti. Ho letto da qualche parte che Bernardo Bertolucci si commuoveva di fronte ai piani sequenza di Godard, ma vorrei dirgli che anche quelli di suo fratello non erano niente male! Guardate qua:


Il film è anche irresistibile perché riesce ad ironizzare su quelle cose tipiche degli anni '70, come i dibattiti politici e culturali all'epoca tanto in voga, facendosi beffe di quei discorsi che oggi verrebbero considerati parte del politically correct e che all'epoca facevano capolino forse per la prima volta. Anche in questo caso, guardate che gioiello è la scena della tombola alla quale fa seguito un dibattito culturale sulla parità uomo - donna (la mitica frase:  "Sospensione di ricreativo, principia avviare il culturale" è una delle cose che mi hanno fatto più ridere al cinema in tutta la mia vita):

Il film è sorprendente anche nelle scelte del cast: a parte una serie di attori locali e altri non -professionisti, nel ruolo della madre di Cioni troviamo un'inedita Alida Valli. Attrice bravissima e coraggiosa, qui ci regala una prova lontana anni luce dai film di Visconti in cui eravamo abituati a vederla. Grandiosa:

Berlinguer Ti voglio bene è un film bellissimo perché totalmente libero. E' ribelle nel senso più nobile del termine, perché si fa beffe di tutto: religione, politica, convenzioni sociali, ma lo fa in maniera sincera, spontanea, quasi infantile. C'è una gioia incontenibile e una punta di tristezza profonda che ne fanno un oggetto-film davvero bizzarro ma assolutamente irresistibile. Insomma, lo avrete capito, io questo film lo amo.
Qualche anno fa, mi è capitato di incontrare Giuseppe Bertolucci dietro le quinte di uno spettacolo di Benigni: eravamo nella stessa stanza ma non ho avuto il coraggio di dirgli niente. Stranamente, non ho seguito una delle regole d'oro della mia vita, ovverosia: quando incontri qualcuno che fa delle cose che ami, diglielo, perché potrebbe non esserci più un'altra occasione. Non so come me la sono lasciata sfuggire, quel giorno, l'occasione.  Di dirgli quanto mi fosse piaciuto il suo film, di quanto lo considerassi speciale. Allora lo faccio oggi, grazie al mio blog, sperando che da qualche parte il mio messaggio gli arrivi: Bertolucci, Ti voglio bene!

Questo post lo dedico ad Andrea Parigi, l'amico grullo che mi ha fatto conoscere il film! 
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