mercoledì 30 novembre 2011

Tutto in una notte

Che il cinema sia una forma artistica di altissimo livello, io l’ho sempre pensato, ma è vero che esistono dei film, rari, rarissimi, in grado di esprimere molto meglio e più di ogni altro tutta la grandezza, la straordinarietà, la profondità e la potenza del mezzo cinematografico. Stiamo parlando di film che si vedono, nei migliori dei casi, una o due volte l’anno. Tre al massimo.
Di recente, mi è capitata proprio questa fortuna.
Il film in questione è Once upon a time in Anatolia (C'era una volta in Anatolia) del regista turco Nuri Bilge Ceylan, la cui visione è paragonabile, per intensità e stravolgimento, alla lettura di un romanzo di Dostoïevski, alla contemplazione di un quadro di Bacon o all’ascolto di una sinfonia di Beethoven.
Ceylan (nato ad Istanbul nel 1959) è considerato il più grande regista turco contemporaneo e i suoi film, presentati nei festival cinematografici di mezzo mondo, sono spesso ricoperti di premi, in particolare al Festival di Cannes: Uzak (2002) ha ricevuto il Grand Prix du Jury e il premio per il Miglior Attore, Three Monkeys (2008) quello per la Miglior Regia, e la sua ultima opera, di nuovo, il Grand Prix du Jury (ma la Palma d’Oro, no? Ah, no, la Palma d’Oro l’hanno data a Tree of Life. Ah, ecco: bravi, complimenti).
Nuri Bilge Ceylan
Once upon a time in Anatolia è un’esperienza psico-fisica di rara portata: il film è lentissimo, dura due ore e trentacinque minuti, non succede praticamente niente, e la prima ora abbondante di film è girata quasi esclusivamente al buio, nelle deserte steppe dell’Anatolia. E sì, lo so cosa state pensando, state pensando che mi è dato di volta il cervello a consigliarvi un film di questo tipo. Certo, non vi sto dicendo che sarà un’impresa facile, ma vi assicuro che poi sarete felici, e ricompensati, perché questo film vi entra nella pelle come un virus pericoloso, e non vi molla più (io l’ho visto quasi dieci giorni fa e di notte ancora mi vengono in mente stralci di dialogo e immagini nitide e fortissime). Se si è abbastanza pazienti da entrare nel film, e lasciarsi trasportare da questo spazio-tempo parallelo, alla fine avrete l'impressione di non essere solo stati al cinema, ma di aver passato la notte intera insieme ai protagonisti del film. Perché è notte fonda, in una sperduta landa dell'Anatolia, e tre macchine viaggiano lentamente una dietro l'altra. In questo convoglio si trovano due uomini accusati di un omicidio, il commissario e i poliziotti che indagano sul caso, il giudice che dovrà processare gli assassini e il medico che dovrà constatare il decesso del cadavere che stanno cercando. I due uomini non ricordano più il luogo esatto in cui lo hanno sepolto, e questa terra desolata sembra tutta uguale, e poi è buio, fa freddo, hanno fame e sono stanchi. Le ore passano lentissime, in questo vagare che sembra insensato. Quando tutti sono allo stremo, il capo di un villaggio li accoglie in casa e dà loro da mangiare. Dopo la sosta, ormai è quasi mattina, finalmente il cadavere viene trovato. Possono tutti ritornare in città, dove il medico procederà all'autopsia che chiarirà le cause della morte e metterà fine a questa lunga, terribile notte.
Once upon a time in Anatolia è un trip metafisico nei più oscuri meandri dell'animo umano, dal quale si esce, catarticamente, più lucidi e consapevoli che mai. 
Ceylan costruisce con pazienza, scena dopo scena, un mondo dove niente è come appare a prima vista, dove sul paesaggio e sui personaggi si sono stratificati anni di solitudine, di dolore, di domande lasciate senza risposta, ma anche di momenti di felicità improvvisa, insieme ad altri completamenti assurdi e divertenti. I dialoghi fanno parte del piano. Sembrano fatti di niente, eppure alla fine del film si capisce che scavano a fondo, che stanno dicendo cose fondamentali.
Ci sono due scene per me indimenticabili: la prima è il momento in cui, dopo la cena, la figlia del capo del villaggio entra nella stanza e si avvicina ad ogni uomo per portare una tazza di té. Sul vassoio che porta in mano c'è una lampada ad olio che illumina uno dopo l'altro i loro volti distrutti. E questa presenza femminile, la sua giovinezza, la sua innocenza, la sua bellezza, sembra davvero rappresentare la sola luce e il solo conforto (tra l'altro personalizzato: l'idea geniale di dare ad uno degli assassini, anziché il té, una lattina di coca-cola come aveva inopportunamente richiesto durante il pasto) alle loro vite oscure e senza speranza. 
L'altra è quella, semplicissima e straordinaria, in cui il medico, arrivato al mattino nel suo studio, finalmente solo, con un movimento lento alza gli occhi e si mette a guardare dritto davanti a sé. In realtà, si sta guardando allo specchio. Ma noi non lo sappiamo, ancora, e per un lungo, meraviglioso istante, pensiamo semplicemente che quell'uomo stia guardando noi, noi spettatori. I suoi occhi sono puntati nei nostri occhi e come per osmosi la sua storia diventa la nostra, e quella di ciascuno di noi la sua. Perché, in fondo, non importa da che epoca, storia, ceto sociale, razza, religione, o paese proveniamo, siamo tutti, inesorabilmente, inevitabilmente, imperfetti esseri umani destinati a morire.
Persino Tarkovskij, io credo, non avrebbe saputo esprimerlo meglio.

mercoledì 23 novembre 2011

Shame

If there was a movie I was dying to see this year, it was Shame, by British director Steve McQueen
For two main reasons: because I thought his first movie, Hunger, was a masterpiece, and because I am convinced that Michael Fassbender, who played in both McQueen’s movies, is THE best actor around (and that’s been the case for the last 3 years). When I found out, a couple of weeks ago, that the cinema MK2 Bibliothèque was hosting the French avant-première of the movie and that the director and the actor would have been present in flesh and blood, I basically lost my mind. I think I have been the first one in Paris to buy the ticket (literally two seconds after the tweet announcing the sale) and, well, I was right: the screening went sold out in few days. Yesterday night was the big night and I was lucky enough to find a seat in the first row (actually, I was amazed by how fast I could run to grab a place on my high heels!). The cast joined us at the end of the movie: Steve McQueen, Michael Fassbender and young actress Nicole Beharie talked briefly to the audience.
McQueen, Beharie, Fassbender - Paris, November 23 - Photo by Zazie
McQueen, Beharie, Fassbender - Paris, November 23 - Photo by Zazie
It was very quick and I was still under the movie’s spell, so everything seemed a bit dreamy to me. The public couldn’t ask any question, and maybe it was better like that, because the only question I could have placed under the circumstances to Mr. Fassbender would have not been of the highest quality: Are you photoshopped???!!! Or, alternatively, the one I have prepared but I didn't have the guts to ask:
Zazie, the blogger with NO Shame - Photo by Spissetta
Shame relates the story of a descent into hell, the story of an addiction that brings Brandon, a 30something living in New York, onto the abyss of self-destruction. We are not talking about drugs or alcohol, here, but we are talking about sex. Brandon’s days and nights are built around this. He literally spends his time fucking around, seeing porno movies, making porno chats, or wanking at every hour, both at home or in his office’s toilets (because, yes, he manages to have a normal job). The unexpected arrival in his apartment of his sister Sissy, a musician without a place to live and some evident issues to solve (the film remains very vague on the subject, but it is clear that in the family something went quite wrong), breaks the fragile equilibrium and the routine of Brandon’s existence. The consequences, for both of them, will be very heavy and Brandon will be obliged to face the desperation that’s eating his life from the inside. 
At his second movie, Steve McQueen can already be admitted to the court of the grand. A first picture is sometimes a concourse of lucky circumstances and good events, a second one, no. McQueen has a personal, special style (every scene is necessary, there is no place for redundant shots in his cinema), important screenplays and no fear whatsoever to dig into the deepest, scariest, most unsettling parts of the human being. In fact, his cinema is a cinema of the extreme. But for one thing, yes, he has been very lucky: in finding an actor willing and daring to follow him on this path. For Hunger, Fassbender starved himself and lost 30 kgs (at the end of the movie you can literally count the bones on his chest), for Shame, he has been ready to deliver himself completely. He shows on screen the most intimate parts of his body, and the most intimate gestures. Nothing has been spared to the poor guy: the actor is pissing, masturbating, fucking, saying and doing the most outrageous things in front of the camera. And the camera is always onto him, the camera is almost possessing him. No surprises he won for this role the prize for Best Actor at the last Venice Film Festival. This is a one-of-a-lifetime performance that deserves an Oscar (but I doubt that our friends in Hollywood will be bold enough to give it to him. Don't worry, the Zazie d'Or is on its way!). Even Carey Mulligan, who plays his sister, an actress that I have always found mediocre until now, proved to be a great actress if in the right hands. 
Shame is an insanely intense movie, full of unforgettable moments.
From the saddest version of New York, New York ever heard, to the sudden lightness and innocence of a real, normal (and unique) date, till the obsessive orgy scene where Brandon’s face is transfigured by a grimace of desperation instead of being blessed by an expression of pleasure. This movie is tough, gripping, compelling, intelligent and brave.
I assure you, the only shame here, would be NOT to see it!

domenica 20 novembre 2011

Vivement Trintignant!

L'altra mattina mi stavo preparando per andare al lavoro e, come al solito, avevo in sottofondo la mia radio preferita, che trasmette musica jazz 24 ore su 24.
La stavo ascoltando distrattamente, ma ad un certo punto lo speaker ha fatto un nome che ha attirato la mia attenzione, quello di Jean-Louis Trintignant, un attore che adoro. Subito dopo, la sua voce ha fatto irruzione nel mio bagno. Trintignant stava leggendo una poesia di Boris Vian, Je voudrais pas crever (Non vorrei morire), ritmata dal suono di un violoncello. E allora nel mio bagno ha fatto irruzione anche il sublime. Senza neanche rendermene conto, avevo chiuso l'acqua e stavo con lo spazzolino a mezz'aria. La verità è che una non se lo aspetta di provare emozioni simili alle otto del mattino mentre si sta lavando i denti. Come faccio a spiegarvi quello che ho provato? Nello spazio di due minuti Trintignant mi ha fatto capire quanto la poesia sia un'arte fondamentale, perché arriva a toccare mondi interiori che praticamente non sapevamo di avere, e mi ha dimostrato che un grande attore nemmeno ha bisogno di uno schermo per rapirti e portarti via. Basta la voce.
Quello stesso giorno, cercando il testo della poesia, mi sono resa conto che Trintignant sta portando in giro per la Francia uno spettacolo in cui recita, giustappunto, poesie di Boris Vian, Jacques Prévert e Robert Desnos, accompagnato da un violoncello e un accordéon, e che questo week-end lo spettacolo era a Parigi, al teatro dell'Odéon. Detto fatto, ieri sera mi sono ritrovata con un gruppo di amici seduta (in prima fila! miracoli dell'entusiasmo) in questo bellissimo teatro parigino. Sul palco, assolutamente spoglio, tre sedie: due per i musicisti e una per l'attore. Trintignant, 81 anni il mese prossimo, tutto vestito di nero, nascondeva nello sguardo qualcosa di infantile e lanciava sorrisi che erano lampi estremi di giovinezza. Per un'ora e trenta minuti (ma per me come per tutti sarebbe potuto andare avanti pure per altre tre ore comode) ci ha letteralmente incantati con la sua voce. Quei due minuti di emozione assoluta che avevo provato ascoltandolo per radio, si sono moltiplicati per novanta. Trintignant sul palco emana la pace di un uomo che non ha niente da dimostrare. Cosa ci può essere di più semplice ed essenziale di un attore seduto su una sedia che dice poesie? Eppure si percepiva tra le righe, nelle pause, dietro gli occhi, tutta la complessità della vita umana, della sua come della nostra, e della sofferenza, mista a felicità, che la compongono, il tutto velato da quel sottile senso di ironia che è sempre stato uno dei suoi tratti caratteristici. Ho ripensato a quando Truffaut lo aveva cercato per recitare in Vivement Dimanche! e lui gli aveva detto: Sapevo che prima o poi mi avreste chiamato. Ho pensato spesso, vedendo i vostri film, che avrei potuto recitare alcuni dei vostri personaggi. E Truffaut incuriosito gli aveva chiesto: Ah, sì, e quali? E Trintignant: Tutti quelli che avete interpretato voi! Del resto, narra la leggenda che Spielberg volesse proprio lui per la parte dello scienziato francese di Close encounters of the third kind e che, a causa degli impegni di Trintignant, avesse poi ripiegato su Truffaut.  
Trintignant ha recitato in film bellissimi, sarebbe impossibile citarli tutti qui, ma quelli in cui io l'ho amato di più, Vivement Dimanche! a parte, sono stati Ma Nuit Chez Maud di Eric Rohmer e Film Rosso di Krzysztof Kieslowski. C'era qualcosa di veramente speciale, in quei personaggi, come se l'attore stesse rivelando una parte intima di se stesso. Timido nel primo, burbero nel secondo, ma entrambi di un'umanità disarmante, di una qualità superiore, sottile ma potentissima. E poi quella voce! Quando ieri sera, durante lo spettacolo, ha letto la lettera che Desnos ha scritto alla moglie prima di morire, le lacrime hanno iniziato a scorrere a fiumi. Almeno le mie. E quando si è alzato alla fine per ricevere gli applausi (lunghissima standing ovation da parte di tutto il teatro, ça va sans dire!) quell'uomo piccolo e vecchio vestito di nero sembrava occupare da solo tutto lo spazio di quell'enorme palcoscenico.
Ai grandi attori, succede così.
  

domenica 13 novembre 2011

Cinéma Confort!

Sappiatelo: ho sempre talmente tanta voglia di andare al cinema, che non importa dove io mi trovi, basta che ci sia una sala cinematografica nei dintorni dove mi possa rifugiare in qualsiasi momento.
Persino quando arrivo per la prima volta in una città sconosciuta, e quindi sensatamente dovrei essere in giro a visitare le bellezze della suddetta, finisce, non si sa bene come, che io mi ritrovi tempo zero in un cinema. Così è puntualmente successo venerdì scorso: dopo nemmeno tre ore che ero arrivata a Bruxelles, città nella quale non avevo mai messo piede in vita mia, già stavo seduta nel mitico cinéma confort (!!!) L'Aventure. Certo, la colpa è anche un po' dei miei amici, che conoscono le mie perversioni e le assecondano (vero, Nicola?). Devo ammettere, questa sala valeva veramente la pena: collocata nel bel mezzo di una galleria improbabile che non avrebbe sfigurato in un qualsiasi film di Mike Leigh, il décor dell'Aventure è rimasto intatto dagli anni '70 ad oggi e segna il trionfo del colore viola. Tutte le pareti, le comodissime poltrone, anche un po' la faccia di quello che vende i biglietti (per altro molto simpatico e gentile): l'apoteosi del monocolore più inquietante che ci sia. 
Il cinema contiene ben tre sale cinematografiche, e noi ci siamo ritrovati in quella più piccola, dove a fianco dello schermo troneggiava una lampada degna di Saturday Night Fever dall'effetto ipnotico assicurato. 
Tra l'altro, eravamo gli unici spettatori. Il film prescelto, perché certo non potevamo andare a vedere l'ultimo blockbuster in 3D, all'Aventure, era un film colombiano di qualche anno fa, per cui forse era prevedibile che non ci fosse tutta questa gran folla. 
Che bello, comunque, stare da soli in una sala cinematografica. Ci si sente dei produttori degli anni '30 a Los Angeles che si fanno proiettare i film nella sala adibita a cinema della loro casa tutta vetri sulla collina di Hollywood. Un vero lusso!
L'effetto del cinema, quando si è in una città sconosciuta, può essere sorprendente: anche se non ci ero mai stata, a Bruxelles, arrivando in macchina in una piazza della città, ho avuto un preciso déjà-vu. Io lì ci avevo già messo piede, io riconoscevo quei luoghi. E' stato dopo un attimo di riflessione che mi sono resa conto di averli visti qualche settimana fa in un film del 1967 di Jerzy Skolimowski, Le Départ, con Jean-Pierre Léaud (e la meravigliosa musica di Krzysztof Komeda). Forse il ricordo è stato ancora più nitido perché si trattava di un film in cui Léaud cerca disperatamente una macchina per partecipare ad un rally (cosa che non riuscirà mai a fare) e noi stavamo passando da quella piazza su una Lancia Fulvia del 1969, una vecchia macchina che sembrava uscita tale e quale dal film, e che azzerava in un attimo la distanza di oltre 40 anni dalle immagini della pellicola.
Tutto questo, ancora una volta (temo), per ribadire il concetto che la vita mi sembra molto più interessante se vissuta attraverso il filtro di uno schermo cinematografico.
Gli eventi sono gli stessi, certo, ma volete mettere il confort?
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