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venerdì 7 luglio 2017

The Nile Hilton Incident (Le Caire Confidentiel)

Che bello quando si va al cinema senza sapere un granché né del film né del regista e ci si ritrova con un piccolo gioiello tra le mani. Se poi non si era entrati in un cinema da un po’ di tempo (due settimane, che per i miei standard sono un’eternità prossima alla disperazione), lo è ancora di più.
Insomma è capitato che sono andata a vedere questo film egiziano di cui non conoscevo nulla semplicemente attratta dal poster (guardate lì sopra, non è bellissimo?) e dal titolo francese, Le Caire Confidentiel.
Se state pensando che vi ricorda qualcosa, ebbene sì: nonostante le aree geografiche siano molto distanti, siamo dalle parti di LA Confidential.
The Nile Hilton Incident rientra a pieno titolo nella categoria film noir, solo che invece della pioggia battente di LA e del fedora di Humphrey Bogart, qui c’è il sole del Cairo e il giubbotto di pelle di Fares Fares.
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Siamo al Cairo nel 2011, alla vigilia della rivoluzione araba.
Noredin è un ispettore di polizia a cui viene affidato un caso piuttosto scottante: una cantante di varietà viene trovata uccisa in una stanza del Nile Hilton Hotel. Con chi era quella notte? E chi può aver voluto la sua morte? I sospetti di Noredin si rivolgono quasi immediatamente verso un politico molto influente, vicino al Presidente Moubarak, e quindi intoccabile. Tutt’altro che un poliziotto integerrimo, Noredin, complice l’incontro con due donne: Salwa, una donna delle pulizie africana e unica testimone del delitto, e Gina, un’amica della vittima, deciderà di andare fino in fondo all'inchiesta pur di assicurare il colpevole alla giustizia.
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Ambientato al Cairo ma girato per motivi di sicurezza a Casablanca, The Nile Hilton incident ha tutti gli elementi classici del noir: una città tentacolare, un poliziotto alla Raymond Chandler (quel misto di romanticismo e cinismo che rende personaggi di questo tipo irresistibili, anche perché nella vita reale chi li ha mai incontrati), un delitto, una femme fatale, un colpevole difficile da mettere in galera perché troppo immanicato, e la sete di giustizia più forte di qualsiasi paura o corruzione.
Il fascino qui sta proprio nell’inusuale cornice.
La città è protagonista assoluta: le sue strade sporche, il calore, la povertà, il brutto ovunque, e quel serpeggiare appena accennato della rivoluzione che sta per scoppiare e che cova sottopelle per tutto il film, sino all’inevitabile esplosione.
E poi c’è Noredin, personaggio davvero bellissimo: lontano dall’essere un eroe, anzi all’inizio un tipo piuttosto miserevole ed abbietto, che si trasforma a poco a poco, quasi suo malgrado, in giustiziere della notte, stanco e nauseato dalla corruzione dilagante ed imperante, pronto a rinunciare a tutto (quel poco che ha), compreso il grado di capitano che si è guadagnato nel corso dell’inchiesta, pur di sbattere in galera chi ha fatto del male.
In questo totalmente al passo con i tempi e, quasi senza volerlo, vicino a quei ragazzi che si stanno ribellando e che presto invaderanno le strade.
Gli presta il volto un attore che non conoscevo e che si candida a scoperta dell’anno: Fares Fares, sorta di Charles Denner de noantri egiziani (ma se possibile ancora più alto e dinoccolato, e con un naso ancor più pronunciato). Con la sua giacchetta di pelle e la sua aria malinconica e sbadata, è bravissimo a tenere il film sulle sue spalle e a portarci in giro per la città con il suo stupore e la sua rassegnazione che presto diventa voglia di ribellarsi.
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Il regista Tarik Saleh (classe 1972), egiziano di origine ma svedese di adozione, è un artista dal percorso interessante: uno dei graffitari (!) più famosi di Svezia, si è fatto le ossa dirigendo video di Lykke Li ed è qui alla sua terza regia. 
Ispirandosi per questo film ad un fatto reale (l'uccisione avvenuta nel 2008 a Dubai di una cantante egiziana da parte di un personaggio pubblico vicino al Presidente Moubarak), Saleh ha fatto incazzare parecchio i dirigenti del suo paese, per il quale a quanto sembra è diventato persona non grata
A volte fare cinema è più pericoloso di quanto si creda!

lunedì 21 novembre 2016

Dans Paris

Nonostante viva a Parigi da oltre 10 anni, continuo a rimanere impressionata dalle possibilità cinematografiche che questa città offre.
E non una volta ogni tanto, ma tutti i giorni.
Avendone il tempo, da lunedì a domenica, dal mattino fino a sera inoltrata, un appassionato di cinema potrebbe vedere anteprime di ogni tipo, incontrare registi, attori, seguire retrospettive (di autori contemporanei o del passato), partecipare a dibattiti, insomma vivere quotidianamente di film. 

Senza farsi mancare niente.
Avendo un lavoro ed una vita sociale piuttosto intensi, faccio quello che posso per riuscire ad approfittare di alcune di queste meraviglie, e di sicuro non c’è da rimanere mai delusi.

Un paio di settimane fa, ad esempio, il mitico cinema Mac Mahon (quello in cui Jean Seberg e Jean-Paul Belmondo vanno a vedere un film in À bout de souffle, per intenderci), ha dato “carta bianca” ad Antoine Sire, scrittore e uomo di comunicazione, del quale è appena stato pubblicato un super libro: Hollywood, La Cité des Femmes, Histoires des Actrices de l’age d’or de Hollywood, 1933-1955. Un tomo di oltre 1200 pagine tutto dedicato a circa 100 attrici che hanno segnato, oltre che la storia del cinema, l’immaginario collettivo di uomini e donne dagli anni ’30 e fino ai giorni nostri:
 
I film scelti da Sire erano tutti bellissimi, ovviamente, dei super classici dell’epoca d’oro di Hollywood:
Ma uno in particolare mi ha subito fatto venire voglia di andare al cinema: Double Indemnity (La Fiamma del Peccato) di Billy Wilder (1944). Considerato il film noir per eccellenza, osannato da tutti i critici cinematografici e adorato da moltissimi registi (primo fra tutti Martin Scorsese), che non ha ancora smesso di influenzare e ispirare a più di 70 anni di distanza:
E se state pensando che volevo andarlo a vedere perché me l’ero sempre perso, beh, ovviamente vi state sbagliando: non solo l’ho già visto diverse volte, ma ho anche il DVD, di questo film, però non l’avevo mai visto al cinema, e questa mi sembrava una mancanza a cui rimediare quanto prima! 
Tanto più che la “séance” che avevo scelto era alle 14 di domenica. Ora, ditemi voi se esiste al mondo qualcosa di più bello dell'andare al cinema la mattina o nel primo pomeriggio di una domenica d'autunno (sempre escludendo l'improbabile alternativa di avere Michael Fassbender che vi gira per casa, ça va sans dire...)
Ambientato a Los Angeles, Double Indemnity racconta la storia di Walter Neff, un assicuratore di provata esperienza, e del suo incontro con la bellissima e pericolosissima Phyllis Deitrichson. Sposata ad un ricco imprenditore, la donna ha intenzione di sbarazzarsi del marito ed intascare i soldi di una polizza sulla vita per stipulare la quale, ovviamente, ha bisogno dell’aiuto di Neff. L’uomo, avendo perso la testa per lei, accetta di aiutarla. Insieme organizzano nei minimi dettagli l’assassinio del marito, dopo avergli fatto firmare con un sotterfugio la famosa polizza (la Double Indemnity del titolo), facendolo passare per un incidente. Ma un collega di Neff, dal fiuto infallibile, capisce cosa c’è sotto e comincia a dare la caccia agli amanti assassini. 
Non si fa molta fatica a credere che questo sia considerato il film noir perfetto.
Ogni elemento di quest’opera sembra gridare al capolavoro: la regia è di Billy Wilder, la sceneggiatura di Wilder e Raymond Chandler (!), basata su un romanzo di James M. Cain (l’autore di Mildred Pierce e Il postino suona sempre due volte, per dire!), i costumi (i vestiti di Phyllis resusciterebbero i morti) sono di quel genio di Edith Head, e il cast è assolutamente favoloso: Barbara Stanwyck nel ruolo della femme fatale sprigiona un fascino mostruoso senza quasi battere ciglio, Fred MacMurray è impeccabile nell’incarnare questo’uomo e il suo percorso di perdizione, e Edward G. Robinson spacca nel ruolo di burbero e finto cinico dal cuore tenero.
E infine, ammettiamolo: il bianco e nero dei film degli anni ’40 e ’50 è di una bellezza così sconvolgente che persino la storia più insulsa risulterebbe una strabiliante meraviglia (in questo caso, tra l'altro, di insulso non c'è proprio niente!)
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Prima della proiezione, Sire ha intrattenuto il pubblico del Mac Mahon con una appassionatissima introduzione (la cui lunghezza ha visibilmente preoccupato il gestore del cinema), nella quale ha raccontato diversi anedotti. Ad esempio il fatto che Barbara Stanwyck, una mora naturale, avesse dovuto indossare una parrucchia bionda per volere del regista o, ancora, dei sotterfugi che Wilder e Chandler avevano utilizzato per evitare di incorrere nella censura del codice Hays. In particolare, l’uso dei flashbacks aveva permesso di poter filmare delle scene vagamente sensuali o comunque allusive (lei che si aggiusta la camicetta, lui che si accende con evidente piacere una sigaretta post-coito), ma è stato soprattutto nei dialoghi che i due autori si sono scatenati, dando vita ad alcuni dei più brillanti duetti ricchi di doppi sensi della storia del cinema (rimasto storico quello del limite di velocità).

Il giorno dopo aver visto il film, ho fatto una scoperta piuttosto buffa: Antoine Sire, da piccolo, è stato un attore. Solo di un film, ma che film! A 5 anni, ha infatti interpretato il figlio di Jean-Louis Trintignant in Un Homme et une femme di Claude Lelouch. Era il 1966: 
A proposito, la pellicola è appena stata restaurata in occasione del suo 50° anniversario ed ora la potete vedere, manco a dirlo... nei cinema di Parigi!



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