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giovedì 18 febbraio 2016

Winter Movies


Si sa, è inverno: piove, fa freddo, e non si ha nessuna voglia di stare in giro. 
Nemmeno per le strade di una città bella come Parigi.
Ma niente paura, una soluzione c’è: potete rifugiarvi al cinema.
Tra Gennaio e metà Febbraio, si è riversato nelle sale parigine un numero infinito di nuovi film: alcuni già usciti nel resto del mondo ma non qui, come Carol di Todd Haynes, The Hateful Eight di Quentin Tarantino e The Danish Girl di Tom Hooper (evitate l’ultimo e buttatevi sui primi due, se ancora non li avete visti), e tanti altri ancora per i quali diventa difficile fare una scelta. La vostra Zazie vi dà una mano. Ve ne consiglia caldamente 4, ve ne sconsiglia altrettanto caldamente 1 e su un altro ancora rimane un po’ perplessa.
Les voilà!

Spotlight - Tom McCarthy (US)
Che meraviglia i film solidi. Quei film con una storia talmente forte e una sceneggiatura talmente ben scritta da non aver bisogno di molto altro per essere totalmente appassionanti. O forse solo di qualche bravo attore. Nel caso di Spotlight, c’è tutto questo e in abbondanza, e il cast è davvero eccezionale (menzione speciale per Mark Ruffalo, ça va sans dire). Basato su una storia vera, il film racconta dei giornalisti di Spotlight, unità “investigativa” di reporters del Boston Globe, che nei primi anni 2000, grazie ad un lungo e paziente lavoro di inchiesta, sono riusciti a far emergere lo scandalo dei preti pedofili di Boston. Vincendo anche il Premio Pulitzer. Praticamente, un concentrato di  Tutti gli uomini del Presidente (il film di Alan J. Pakula del 1976 sullo scandalo Watergate) in versione moderna.

 
Anomalisa - Charlie Kaufman & Duke Johnson (US) 
Sceneggiatore geniale e bizzarro, Charlie Kaufman è l’uomo-ombra di film come Being John Malkovich, Eternal Sunshine of the Spotless Mind and Adaptation. E’ passato dietro la macchina da presa solo tre volte: per Synecdoche NY (con il compianto Philip Seymour Hoffman), per un film TV e ora per questo nuovo, stranissimo lavoro. Anomalisa è la storia di Michael Stone, un autore specializzato in libri di “assistenza alla clientela”, che in piena crisi esistenziale e durante una trasferta a Cincinnati, ha una storia extra-coniugale con una ragazza incontrata in albergo, Lisa. Niente di particolarmente originale, direte voi, se non che il film è di animazione (fatto utilizzando la tecnica stop-motion), e che tutti i protagonisti – tranne Michael e Lisa - hanno la stessa voce. L’effetto straniante creato dall’uniformità delle voci e dalla tecnica visiva, rivela in maniera ancora più straziante la solitudine del protagonista e la sua ricerca di autenticità, piacere e – possibilmente – felicità nel feroce mondo contemporaneo. Le voci straordinarie sono quelle di David Thewlis per Michael, Jennifer Jason Leigh per Lisa e Tom Noonan per... tutte le altre.
La Leigh canta una versione di Girls just want to have fun di Cindy Lauper veramente da urlo!

Les Innocentes - Anne Fontaine (France)      
Sceneggiatrice e regista piuttosto interessante, Anne Fontaine è una di quelle poche autrici in grado di firmare commedie e opere più drammatiche in egual misura e con lo stesso entusiasmo. Personalmente, la considero più dotata per i registri brillanti, ma Les Innocentes arriva a smentirmi, e rappresenta per me il suo film migliore.
In uno sperduto villaggio polacco alla fine della seconda guerra mondiale (la storia è ispirata a fatti reali), la crocerossina francese Mathilde viene chiamata ad aiutare una partoriente in difficoltà. La sorpresa è grande nello scoprire che la donna è una suora in un convento di clausura. Mathilde capirà presto l’orrore di quello che è accaduto: i soldati russi hanno fatto irruzione pochi mesi prima e hanno violentato quasi tutte le suore e 7 di loro aspettano dei figli. Sarà un vero “incontro” quello tra la moderna e laica ragazza francese e questo gruppo di donne polacche spaventate, chiuse al mondo e oppresse dall’idea di colpa e peccato.
Le attrici sono tutte bravissime, ma Agata Kulesza (già ammirata in Ida) nella parte della Madre Superiora e Lou De Laâge in quella di Mathilde sono straordinarie.


45 Years - Andrew Haigh (UK)

Il mio preferito di questa lista, con due attori talmente bravi che si resta davvero senza parole.
Kate e Geoff Mercer sono una coppia di pensionati che stanno per festeggiare il loro 45° anniversario di matrimonio. Senza figli, vivono in una bella casa nella campagna inglese del Norfolk. Una mattina, Geoff riceve una lettera dalla Svizzera: gli viene annunciato il ritrovamento di un cadavere rimasto intatto nel ghiaccio a distanza di quasi 50 anni. E’ quello della donna che Geoff ha amato in gioventù, morta per una caduta in montagna. Questa storia, che Kate credeva appartenesse al passato, un episodio lontano del quale sino a quel momento il marito aveva fatto solo qualche accenno all’inizio della loro relazione, irrompe nel loro quotidiano con una forza dirompente. Chi è questa donna che il marito ha amato? Perché lui è così sconvolto dalla notizia? Perché non si è mai resa conto dell’importanza di questa figura nella vita del marito?
Film dalla struttura semplicissima, dalla costruzione lineare, 45 Years indaga e scava nel profondo là dove fa più male. Senza fermarsi di fronte al dolore, senza giudizi morali, accompagnando i protagonisti nel loro smarrimento, nelle loro paure. Film crudele ma “caldo”, empatico. Charlotte Rampling nella parte di Kate e Tom Courtenay (ah, quanto è bravo questo attore, che da giovane è stato un’icona degli Angry Young Men del Free Cinema, interprete di Billy Liar e The Loneliness of the Long Distance Runner) in quella di Geoff sono – semplicemente – meravigliosi.


Steve Jobs - Danny Boyle (US)

Che io abbia voglia di uscire dal cinema mentre sto guardando un film con protagonista Michael Fassbender la dice lunga su quello che penso del film in questione. Eppure è quello che ho avuto voglia di fare e a più riprese guardando Steve Jobs. L’idea alla base del fim è ottima: anziché fare il solito biopic noioso, qui si parla del personaggio “fotografandolo” in tre momenti chiave della sua vita, che corrispondono ad altrettante presentazioni al mondo di prodotti creati da Jobs. Ecco, il problema è che la sceneggiatura è stata affidata ad Aaron Sorkin, la cui verbosità virtuosistica a me personalmente ha sempre dato addosso e ha sempre fatto venire un sonno micidiale. Tanto più in questo caso dove non si capisce quasi nulla di quello di cui stanno parlando (problema mio, lo ammetto, ma sulla tecnologia il mio cervello fa blocco quasi subito). E soprattutto non si capisce perché affidare la regia di un film di questo tipo ad uno come Danny Boyle. Può piacere o non piacere ma quello che caratterizza di solito i suoi film è un senso spettacolare della ripresa, un ritmo vertiginoso, un salire e scendere della macchina da presa. Qui Boyle sembra come anestetizzato, forse anche lui stordito dalla quantità di dialoghi fiume con cui lo sommerge Sorkin. Insomma una regia “essenziale” fatta da Boyle? Mah... Fassebender è bravissimo come sempre, peccato che l’antipatia di Jobs non aiuti. L’unica veramente irresistibile qui è Kate Winslet nella parte della super intelligente, ironica e paziente assistente di Jobs. Non è un caso che la stiano letteralmente sommergendo di premi.

Alaska - Claudio Cupellini (Italia/Francia)

Io, lo giuro, lo vorrei tanto aiutare il cinema Italiano. E infatti, quando posso, lo faccio.
E’ che poi a una blogger cadono le braccia di fronte all’ennesimo esempio di film italiano che ci si chiede come dei produttori abbiano voluto metterci dei soldi per portarlo sullo schermo.
Trama (poi ditemi voi se uno già a leggere la sinossi non se la darebbe a gambe levate): Fausto, Italiano che fa il cameriere a Parigi nel ristorante di un grande albergo, conosce per caso Nadine, bellissima ragazza francese che è nell’hotel per fare un provino come modella. Volendo impressionare la ragazza, Fausto le fa visitare la suite (ideona). Peccato che l’ospite della stanza torni prima del previsto e li becchi a fare i cretini. Ne segue una scenata con scazzottata che fanno andare Fausto in prigione per qualche anno. All’uscita, lei (che nel frattempo è diventata una quasi-famosa modella a Milano, chevelodicoafare) è lì che lo aspetta (ma che davero davero?). Folle passione: i due innamorati se ne vanno a vivere insieme a Milano. Solo che lui non ha voglia di fare dei lavori da sfigato (eh, perché con un’intelligenza come la sua può ambire a ben altro, no?) e così, anche se non ha il becco di un quattrino, ruba quei quattro soldi che si era messa da parte la fidanzata e apre con un personaggio che definire pirla (dato che siamo a Milano, milanesizziamoci) sarebbe poco, un locale per quelli a cui manca la Milano da bere che si chiama Alaska (finalmente capiamo il titolo alternativo). Un giorno che si stanno scazzando in macchina, Fausto & Nadine hanno un incidente e lei rimane mezza sciancata. Non vado avanti perché non voglio essere responsabile di vostri eventuali malori. No ma, dico io? Come cazzo si fa nel 2016 a scrivere una storia di questo tipo (trita e ritrita, ma pure di più), con dialoghi al limite della demenza e dei personaggi che prenderesti a sberle dall’inizio alla fine? Perché, parliamoci chiaro, questa è la storia di due cretini, e io non so come si possa avere voglia di raccontarla. Com'è che due attori oggettivamente bravi come Elio Germano e Astrid Bergès-Frisbey si sono lasciati coinvolgere in questa bruttura? (se eravate a corto di spicci vi perdono ragazzi, altrimenti no). Pare che il regista avesse fatto un buon film, prima. 

Peccato che a questo punto a me non venga nessuna voglia di vederlo.

martedì 22 febbraio 2011

127 Hours

I already wrote in this blog about the nice side effects of my real job (that has nothing to do with cinema, to tell you the truth). My favorite one, by far, is that I regularly receive the invitations to all the avant-premières held by Pathé in Paris. When they sent me (thanks, Véronique!) the one for Danny Boyle’s last movie, 127 Hours, I was particularly happy thinking about the main actor, Hollywood new rebel James Franco (and I hope none of you dear readers forgot about my amazing LA picture with him just few months ago). 
Usually, the actors and the director are attending the events to briefly introduce their movie. In this case, unfortunately, Franco didn’t show up, but Danny Boyle and one of the actresses, the Frenchy Clémence Poésy, where there, as you could see in the following picture (by courtesy of paparazzo Alexandre Pachiaudi, the friend who came with me to the theatre).
The rumours around 127 Hours have been going on for a while, in the cinema press. Not only because the movie has received 6 Oscar nominations (and among them Best Picture, Best Director, Best Actor) but also because it is based upon an incredible real story and a story that, at first sight, could be considered impossible to be transposed on screen. 
In April 2003, Aron Ralston, a young mountain climber, decides to spend a week-end in a remote and solitary canyons area in Utah. He doesn’t prevent anybody (nor his family neither his colleagues at work) about where he is heading to. This is why, when he found himself trapped at the bottom of a crevice with his right arm crashed by a boulder, he realizes to have few, if not none, chances to save himself. And yet, against all odds (no food, almost no water, no possibility of being heard and rescued by other trekkers), Aron will manage to survive.

Introducing the picture, Danny Boyle said something very interesting: he said that the real challenge, for him, was to make an action movie about a man who can’t actually move.
He was right. I mean, I’m sure every single person in the audience was thinking about the same thing: how can we stay here seated for 1 hour and 30 minutes watching a guy with his harm under a stone and not be bored to death? As far as I’m concerned, Boyle regally won his battle against boredom: this movie grabbed my total attention from beginning to end without a single moment of weariness. Why? Because the film maker had a lot of great ideas to get (himself and Aron) out of troubles. First idea: until the guy actually found himself at the bottom of the crevice, the rhythm of the movie is breathless. From the camera to the human beings movements, everything seems to go at a higher speed. No time to think, no time to seat comfortably in our seats. This guy is moving fast, going fast, talking fast, and nothing will stop him (well, except a stone). The first part of the movie is also the only part where the character interacts with other people, in particular with two girls who are a bit lost in the canyons and are helped by Aron. But in a way, the movie only really starts when he falls down and realizes to be stuck there (and it is not by chance that the title of the movie appears just at this very moment: 127 hours, the time we are about to spend in the company of Aron). That’s the tough part, for everybody: the character (and the actor), the director and the audience. Boyle brilliantly plays his cards. Firs of all, he puts us in the canyon with Aron. We are stuck there with him, and the only moments the camera leaves that black hole and shows us the magnificent nature all around, it is just to stress the extreme solitude, the hopelessness of the situation and the indifference of that same nature (and the world in general) towards this human life. The other trick is that Aron, in order not to give up and get mental, constantly thinks about his life, his past, his family. We are then able to know him better and to see what he imagines, always as we were him (the scenes are filmed in subjective camera). Another important element is that the guy, among the few things he can count on in that awful place, has a camera and this creates a bizarre effect of movie within a movie. Aron lives his different moods in front of it, bravely showing the emotional and physical rollercoaster he is going through. Almost cheerful at the beginning (he even reproduces a TV shows where he is the guest of honour, clapping included) and then desperate towards the end, when he thinks he will die and he decides to leave a farewell message to his family.
Boyle intelligently concentrates his attention on two material aspects of the movie, absolutely essential: the light (he has used two different cinematographers to create a more profound dichotomy between the canyon scenes and all the external ones), but especially the sound. Please pay attention at the way the film maker has used it. It is really amazing, reaching its climax in the most difficult scene (don’t worry, you’ll understand which scene I’m talking about if you see the picture). Incredibly enough, this is not an anguishing movie, but quite the opposite: it leaves you full of energy and almost euphoric, thinking about the hidden and prodigious resources a human being can have.
Of course, James Franco’s performance is outstanding and his nomination to the Oscar a must. But let me be honest: only 127 hours? With James, even a lifetime won’t be enough…

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