domenica 25 maggio 2014

W Xavier!

Non vorrei fare quella che: "Io ve lo avevo detto", però questa volta Zazie ha voglia di scriverlo davvero. 
Chi legge regolarmente questo blog, sa bene tutto l'amore che ho sempre avuto, sin dal suo primo film, per Xavier Dolan. Il fatto che ieri, con la sua quinta opera (Mommy), abbia vinto il Prix du Jury al 67° Festival di Cannes (ex-aequo con Jean-Luc Godard), mi ha riempito di una gioia e di un orgoglio senza pari.
Personaggio tanto amato quanto odiato, Dolan ha dalla sua il pregio di fregarsene abbastanza di quello che la gente pensa di lui. Sicuro del suo talento, forte delle sue idee e della sua ambizione, e con la necessità assoluta di raccontare delle storie nel suo modo e nel suo stile, dal 2009 ad oggi, ha sfornato cinque film per i quali ha fatto "tutto da sé": se li è scritti, girati, prodotti, montati, e spesso anche interpretati. 
Quando, nel 2012, Dolan ha lanciato su un sito di crowdfunding una richiesta di fondi per produrre il suo film Laurence Anyways, Zazie ha risposto all'appello, cercando di convincere i suoi lettori a fare altrettanto. Poi, ad una improbabile festa parigina, Zazie lo ha incontrato per davvero e, complice un bicchiere di champagne di troppo, ha esordito la conversazione così: "Lo sai, vero, che sei un genio?" (perché si sa, le mezze misure non sono proprio il forte di questa blogger qui).
Ecco, quelle parole lì, io, anche adesso che sto scrivendo da sobria, me la sentirei di dirle ancora. 
Nel suo bellissimo discorso di ringraziamento (per scrivere questo post l'ho risentito almeno cinque volte, e ogni volta con un piacere assurdo), Dolan ha detto in pochi minuti delle cose importantissime sul mestiere del cinema.
Rivolgendosi ad una Jane Campion che lo guardava con occhi un po' da "mamma", le ha detto: "The Piano è il primo film che ho visto che abbia veramente definito chi sono, quello che più di ogni altro mi ha influenzato e mi ha dato la voglia di fare cinema, di scrivere delle storie per delle donne belle, vere, con un'anima, una volontà, una forza, e non vittime o semplici oggetti". La Campion (il momento è stato davvero commovente), è corsa ad abbracciarlo.
Rivolgendosi poi ai ragazzi della sua generazione, Dolan ha concluso: "Nonostante la gente abbia il diritto di non amare quello che fate e non amare quello che siete, voi dovete credere nei vostri sogni e fare quello volete, perché insieme potremmo cambiare il mondo, potremmo arrivare alle persone, farle ridere, piangere, cambiare le loro idee, cambiare le loro vite, perché anche gli artisti possono farlo, non solo i politici e gli scienziati. 
In pratica, penso che tutto sia possibile per chi sogna, osa, lavora e non molla mai".
Ecco, Xavier, bravo, non mollare mai.
Vedrai che la Palma D'Oro, prima o poi, la vinci.
Questa è stata l'accoglienza riservata al film a Cannes:

giovedì 22 maggio 2014

Deux jours, une nuit

La coerenza, si sa, in questo mondo è merce rara.
In quello del cinema, poi, esposto a raffiche di frivolezze, capricci ed ego smisurati, è quasi utopia. Eppure, c’è una manciata di registi che, dal primo all’ultimo fotogramma della loro intera opera, ci ha insegnato che cosa significa avere una certa idea di cinema, e anche una certa idea della vita. Tra questi, da molti anni, spiccano due fratelli belgi dall’aria mite che nei loro film si sono occupati - sempre - dello stesso tipo di personaggi e dello stesso tipo di storie: Jean-Pierre e Luc Dardenne. Il loro ultimo lavoro, Deux Jours, Une Nuit, in concorso al Festival di Cannes che si concluderà tra due giorni, è uscito ieri sugli schermi parigini, e la vostra Zazie non ha mancato all’appuntamento.

La storia: Sandra, operaia in una fabbrica di pannelli solari, sta per rientrare al lavoro dopo quattro mesi trascorsi a casa per una depressione. Riceve però una brutta notizia: i suoi superiori hanno deciso di fare una votazione in cui i 16 colleghi della donna hanno dovuto decidere se rinunciare al loro bonus annuale o accettare che lei ritorni al lavoro (perché “se non è lei, sarà uno di voi”, li hanno minacciati), e ovviamente hanno scelto per il loro bonus. Accusandoli di aver agito poco correttamente, una collega di Sandra riesce a convincere i dirigenti a rifare la votazione dopo il week-end. La donna avrà dunque due giorni per andare a trovare uno ad uno tutti i suoi colleghi e cercare di convincerli a votare per lei. Supportata dal marito e dai figli, Sandra cercherà di fare del suo meglio per aggiustare le cose.
Se siete di quelli che vanno al cinema esclusivamente “per divertirsi” e “per non pensare”, allora vi sconsiglio vivamente di andare a vedere questo film. Qui si tratta di un cinema che vuole, al contrario, far pensare, e pure parecchio. I Dardenne affrontano meglio di qualunque trattato di sociologia le conseguenze della crisi economica che tutti, nessuno escluso (salvo giusto una manciata di miliardari), stiamo vivendo. E le conseguenze più dure sono quelle sulle persone, quelle che vanno a toccare la parte più fragile della natura umana, che risvegliano le paure ataviche che ci portiamo dentro da sempre. Non avere più un lavoro significa non avere più una “presenza” sociale, non esistere, essere a poco a poco esclusi dai meccanismi che governano il mondo. Sandra è l’emblema di tutto questo: appena uscita da una depressione, sotto farmaci, impaurita e convinta di non farcela, dubita persino della sua missione (anche perché, se qualcuno lo chiedesse a lei, non sarebbe poi così convinta di saper rinunciare a quei soldi). I Dardenne non le risparmiano niente ma stanno vicino a lei e agli altri personaggi del film in un modo talmente partecipe e privo di qualsiasi giudizio morale, che ti verrebbe voglia di abbracciarli ad ogni inquadratura (Haneke, vieni un po’ qui a dare un’occhiata, dai!).
Ogni volta che Sandra “chiede”, è come se chiedessimo anche noi. Un misto di tristezza, rassegnazione, vergogna e voglia di scappare lontano, si impadronisce di tutti. E ogni volta che qualcuno risponde, ci chiediamo quale sarebbe potuta essere la nostra reazione: c’è la collega che fa rispondere al citofono la figlia, quello che vuole picchiarla, quello che si vergogna e le dice piagnucolando che non può rinunciare ai soldi, e poi c’è questo ragazzo che le va incontro e dopo un attimo scoppia a piangere a dirotto e che quasi le urla: sì, ti aiuto! che è una delle cose più commoventi che io abbia visto al cinema negli ultimi anni. I Dardenne sanno bene con chi prendersela, e non si tratta né di Sandra né dei suoi colleghi, ma di un sistema malato che ha creato la crisi e ha generato i mostri capaci di gestirla in maniera cinica e feroce, lasciando che i poveri si sbranino tra loro.
Marion Cotillard, torno a dirlo per tutti quelli che la trovano “antipatica”, sarà anche una che non vi ispira simpatia, ma è un’attrice assolutamente straordinaria. Qui, mimetizzata in donna qualsiasi allo stremo delle forze, riesce a farsi abitare dal personaggio al punto che ti dimentichi di tutto il resto. E lei, come il film, vive di una misura, di una verità, di un’umanità, che ti toglie il fiato. Anche l’attore belga Fabrizio Rongione fa meraviglie nella parte del marito. Un uomo che di sicuro ha paura quanto la moglie, ma che mai, nemmeno per un attimo, lo lascia trapelare. E’ sempre lì accanto a Sandra, a darle forza, a dirle che ce la può fare, a farle capire che può contare su di lui. I Dardenne, insomma, nel loro understatement totale, ci dicono anche qual è la loro idea di amore.
E alla fine, poco importa quale sia il risultato della nuova votazione: l'importante è aver combattuto per quello in cui si crede, e averci creduto fino in fondo.
Non ce n'eravamo accorti, ma il sole splende forte, laggiù in Belgio.

There is a light that never goes out

Cinematography is something really essential, in movies.
A certain light can shape an entire world. There are movies that can almost be silent: the atmosphere created by the photography is speaking for them. A crispy black and white, a lavish colour, a mysterious dark, a dazzling light, and the magic of cinema immediately operate on screen.
I personally can’t imagine Ingmar Bergman without Sven Nykvist, Wong Kar-Wai without Christopher Doyle, Aki Käurismaki without Timo Salminen, the Coen Brothers without Roger Deakins, the Nouvelle Vague without Raoul Coutard.
Few days ago, one of those magicians, the American Gordon Willis, sadly passed away.
His name will always be linked to the film-maker he has collaborated most during his career: Woody Allen. The Brooklyn Bridge in the distance, a man and a woman seated on a bench, the night falling on the city…. Does this ring a bell? Well, the man behind one of the most famous cinema scene, it’s him.
And this is Zazie’s tribute to Gordon Willis in 5 movies: 


KLUTE by Alan Pakula (1971)
One day I’m going to write a post about this movie, which I adore.
New York in the 70’s, when the city was dirty and dangerous: a young Jane Fonda as a sensitive prostitute, a young Donald Sutherland as a shy detective. One of the best couples ever seen on screen, and the scruffy light of Willis on top of it. Unmissable.


ANNIE HALL by Woody Allen (1977)
I am absolutely sure that there is not a single woman in this world who didn’t dream of being like Diane Keaton in this movie: the way she dresses, the way she speaks, the way she drives. Simply to die for. Exactly as the cinematography of this masterpiece.  

INTERIORS by Woody Allen (1978)
First “serious” movie for Allen and the most bergmanian one of all. Willis pays homage to Nykvist's work filming both the interiors and the exteriors as if the movie was set in Sweden instead of Long Island. The result is outstanding.
 

ZELIG by Woody Allen (1983)
Woody Allen slides into other peoples bodies while Willis finds a way to slide into different time and frame. One of the craziest, amazing ideas of modern cinema. A real joy to look at.
 

BROADWAY DANNY ROSE by Woody Allen (1984)
There is something about the sadness of this movie that can't be explained.
Maybe it is the story, maybe it is Willis magnificent black and white, but you constantly feel something has been lost for ever. And you are suddenly overwhelmed by the nostalgia for this kind of world, this kind of people.
This kind of pictures too.

lunedì 19 maggio 2014

Le Musée Imaginaire d'Henri Langlois

Ho sempre amato la Cinémathèque Française
Per me è come un punto fermo, una stella che brilla e che indica il cammino, una certezza assoluta in un mondo che se ne va un po’ per conto suo. Anche solo pronunciarne il nome mi evoca tutto un universo parallelo che non saprei bene a cos’altro paragonare nella mia vita.
Ovviamente, ho imparato ad amarla grazie a Truffaut e i suoi amici, gente che, ammassata nelle prime file e più spesso per terra sotto lo schermo, era capace di vedersi anche 4 film di fila.
Tutti questi matti che passavano la loro vita nei dintorni dello schermo buio, avevano trovato casa, alla Cinémathèque, e avevano anche trovato un padre "spirituale", un signore grasso dall’aria simpatica che adorava il cinema quanto loro e che quel luogo lo aveva creato dal nulla: Henri Langlois.

Nel centinario della sua nascita, la Cinémathèque gli dedica, giustamente, una bella mostra (la potrete vedere fino al 3 Agosto!), in cui si ripercorre la vicenda umana e professionale di questo cinéphile scatenato.
Nato nel 1914 a Smirne, in Turchia, e rientrato a Parigi con la famiglia nel 1922, Langlois si appassiona alla settima arte sin da giovanissimo. Per protestare contro il padre che gli vuol far fare a tutti i costi degli studi di diritto, il ragazzo consegna pagina bianca all’esame finale delle superiori, e se ne va al cinema come se niente fosse. Giusto per dirvi il tipo. Quasi subito capisce di avere una missione, che poi è quella di cercare e conservare le copie dei vecchi film che rischiano di sparire per sempre dagli schermi. Insieme all’amico Georges Franju, nel 1936, dà vita alla Cinémathèque, che negli anni cambierà diverse sedi e si ingrandirà sempre di più. Langlois, oltre che bobine di film, si mette anche a collezionare cineprese, poster, e altri oggetti. Questi costituiranno la base per la creazione di un piccolo museo al quale contribuiranno diversi registi.
Famosa, ad esempio, è rimasta la donazione di Hitchcock. Un giorno del 1960 un impiegato della Cinémathèque ha aperto un pacco appena arrivato dall’America e con sua grande sorpresa (ed orrore) ci ha trovato dentro un teschio. Pochi giorni dopo, Langlois riceve una lettera da parte di Hitchcock: "Spero che le sia piaciuto il mio regalo". Era il teschio della madre di Anthony Perkins in Psycho:
Il destino di Langlois si intreccia a quello dei giovani regista della Nouvelle Vague soprattutto nella sede “storica” del Palais de Chaillot. Quando nel Febbraio 1968 l’allora Ministro della Cultura André Malraux decide di sospendere Langlois dalla sua funzione di direttore della Cinémathèque accusandolo di poca accortezza nella gestione, Truffaut & Co., compatti, si schierano a favore di Langlois e iniziano una campagna per sostenerlo. Tutti i registi del mondo sono con loro: Chaplin, Hitchcock, Kubrick, Welles, Buñuel e molti altri scrivono in suo favore, mentre davanti ai cancelli chiusi della Cinémathèque, migliaia di persone manifestano in favore di Langlois:
Truffaut, che in quel periodo sta girando Baisers Volés, la mattina va sul set e il pomeriggio a manifestare. E finirà con il dedicare il film proprio a lui. Guardate qua:
Dopo poco tempo Malraux, sconfitto, dovrà accettare di far reintegrare Langlois nella sua funzione. Il cinema ha trionfato. “L’Affaire Langlois”, è concluso!
Truffaut, Léaud e Langlois
Insomma, spero proprio di avervi fatto venire voglia di andare a vedere questa mostra, perché sarebbe un peccato perderla, e perché è un po' grazie ad un tipo bizzarro come Langlois se oggi possiamo ancora godere di alcuni film che hanno fatto la storia del cinema.
Accorrete numerosi, gente!



martedì 13 maggio 2014

A night at the Nitehawk

Nitehawk Cinema - Williamsburg, Brooklyn
Eating while watching a movie in a cinema theatre? 
NO WAY! I would have answered vehemently until few weeks ago, but now my answer would be: well, why not… Why did I change my mind so suddenly? It's simple: I have tried the Nitehawk cinema in Williamsburg, Brooklyn!
The Nitehawk Cinema (I quote from their website) is New York’s original cinema eatery; an Independent movie house bringing a selective approach to film, food, and drinks. Nitehawk offers audiences an unparalleled cinematic experience by combining exemplary first-run and repertory film programming along with tableside food and beverage service in all theaters.
I didn’t know about this place and I have to thank my friend William who thought of bringing me there when I told him I wanted to see a movie called Under my skin by Jonathan Glazer. He suggested the Nitehawk imagining that I would have loved that cinema and he was damn right!
Their Williamsburg location is a triplex, hosting a 92, a 60 and a more intimate 28 seat theater. You can arrive 45-30 minutes in advance and order your food. The incredible thing is that the cinema team creates specialty dishes and drinks inspired by the films they’re showing. Under the skin is set in Scotland, and look what you could eat while watching it:

In those 30 minutes before the film, they feature something called Pre-show, where they display the whole program of the week. They have such a variety of choices! It is absolutely amazing:
At Nitehawk you can order food and beverages throughout the movie by using a flag system! On each table there are a pencil and a piece of paper, you write down the order and then you post it in front of you. A server comes by and picks it up. Towards the end of the film your server will come by to see if you need anything else, drop off your tab, and take care of payment before the credits roll. I really thought this would have been annoying but it wasn’t. And actually you’re not even disturbed by people eating close to you. What an experience!
A Table with a View!
Under the skin is a very particular kind of film, a true cinematic experience.
Based upon the novel by Michel Faber, relates the story of an unknown woman who spends her time luring men and taking them into a sordid house where the poor guys don’t have the fun they expected. It is not difficult to understand that there’s something very strange about this mysterious and stunningly gorgeous woman, but it is just towards the end of the movie that the audience have a clearer idea of the place she is coming from.

This movie is Scarlett Johansson's boldest career choice, for sure. 
Under the Skin is weird, unpredictable, quite chilly. It's got a very desperate and oppressive taste. It is extremely slow and repetitive. It is one of those films you fall in love with or hate with all your guts after about 10 minutes. Take it or leave it. I personally took it and enjoyed very much every minute of it. Sometimes there are movies able to bring you with them in the most unpleasant places and you are happy to accept it, no matter how gloomy it will be. And this is pretty gloomy, I assure you.
But... maybe it was the scottish landscape (that I love so much), maybe the hypnotic atmosphere, maybe the stillness of Johansson's eyes, I got caught into the movie and I wans't able to get it out until the very end.
Or maybe, who knows, it was just the enormous pop-corn bowl I was eating at the Nitehawk that made the experience so unique.
Another one, garçon!


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