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martedì 10 dicembre 2013

The Readers

The Reader di Stephen Daldry
Ci penso spesso, io, a voi lettori.
E quando ci penso mi viene una grande commozione. L’idea che, famiglia e amici a parte, dei perfetti sconosciuti si mettano lì e trovino il tempo, nel mezzo di giornate che immagino piene di impegni e preoccupazioni di ogni tipo, per leggere un post di Zazie, mi riempie di una gioia insensata. 
Eppure ci siete, siete tanti, e venite da ogni parte del mondo. Certo, lo zoccolo duro è composto da lettori italiani e francesi, ma ci sono settimane in cui quelli americani superano tutti gli altri, per dire, dandomi la sensazione che la fatica di scrivere spesso in inglese sia ampliamene ripagata.
Poi ci sono i lettori ancora più speciali, quelli che mi scrivono dei commenti.
Ah, quelli io proprio li adoro! (anche perché di solito mi fanno un sacco di complimenti).
Loro stanno in una categoria a parte, perché se già mi sembra straordinario che la gente mi legga, che mi scriva mi fa letteralmente impazzire.
Dai commenti dei lettori si ricavano un sacco di spunti, si capiscono molte cose, e si riceve una fortissima spinta a continuare e a fare meglio (e ce n’è sempre bisogno). Esiste poi un passo successivo, che ha ancora più dell’incredibile, a pensarci, ed è quando da questi commenti poi nasce un’amicizia. Mi è successo tante volte e che posso dirvi? E’ al di là di ogni più rosea aspettativa sull’essere umano. 
The Shop around the Corner di Ernst Lubitsch

L’altro giorno, ho ricevuto la mail di un lettore che diceva di aver cercato di lasciarmi un commento ma che non ce l’aveva fatta... e quindi si era deciso a scrivermi un messaggio. Il motivo per cui il commento non era stato accettato, era la sua lunghezza... due pagine fitte fitte piene di considerazioni sul mio post intitolato Il Sesto Senso (Cinematografico).
La prima volta che l’ho letto ho pensato: Oddio, ma io non ho capito niente di quello che mi sta dicendo! Alla seconda mi è sembrato di intravedere una luce, e alla terza ho colto l'aspetto fondamentale della vicenda: ho dei lettori super colti ed interessanti, che mi citano come niente fosse Jacques Rivette, Jean Rouch,  Aki Kaurismaki e Agnès Varda e mi parlano dei film in maniera preziosa e piena di passione.
Mi sembrava davvero un peccato leggere in esclusiva quello che Francesco mi aveva scritto, così gli ho chiesto il permesso di pubblicare il suo lungo "commento", perché volevo  condividere le cose interessanti che lui mi aveva scritto con altri miei lettori, che magari chissà, avranno voglia di rispondergli, di dirgli che magari non sono d'accordo, insomma d'iniziare un bel dibattito.
Ho deciso che questo delizioso ipertrofico messaggio poteva essere un po’ la summa di tutti gli altri commenti ricevuti, e per i quali sono a tutti davvero grata. La mia passione per il cinema mi ispira, ma è quella dei miei lettori che mi fa venire voglia di andare avanti. Sapevatelo!
Quindi, come si diceva nel film di Cioni Mario: "Sospensione di ricreativo, principia avviare il culturale... " E grazie, lettori miei!

Cléo de 5 à 7 di Agnès Varda
Leggo spesso quel che scrivi e di solito sono molto d’accordo.
Questa volta, poi, mi sembrava un testo che avrei potuto addirittura scrivere io. E allora perché lasciarti un commento e non fare come sempre? Ovvero ritenermi soddisfatto della lettura, felice di non essere il solo a provare quelle sensazioni a proposito della voglia di andare al cinema nonostante la consuetudine, a proposito del sesto senso, e a proposito dell’adattamento del romanzo fitzgeraldiano (su cui il trailer ha avuto la meglio e che dunque, ma lo attribuisco a una forma di fortuna, non ho visto).
Perché allora? Forse perché ho sì sentito anch’io puzza di molto rumore per nulla intorno al film di Kechiche, nonché di strumentalizzazioni (benemerite quelle a sfondo sociale, intollerabili quelle di un vagheggiato ultimotanghismoaparigi con la Seydoux nei panni di Marlon Brando), solo che poi, io – e mi è dispiaciuto – non ho avuto la catarsi.
Sono in minoranza, è evidente, ed è perfino giusto che lo sia, perché il film è molto bello, ed è oltretutto una prova di sicura sensibilità, maestria e senso del cinema.
E allora di che cosa mi lamento? Fatta salva la questione che cogliere il respiro del tempo, da parte di un bravo autore, di un artista, comprenda ormai anche il saper cogliere il respiro dei festival e della critica che vi si aggira, nel senso che, non solo non c’è niente di male ad essere attuali perfino mostrando di capire le esigenze estetiche e le urgenze tematiche di un pubblico colto, ma che, anzi, è necessario affinché anche la cultura faccia parte della realtà - questione non irrilevante almeno in Italia - ho l’impressione che Kechiche abbia compreso talmente bene il dispositivo di quel consenso da tentare un salto di qualità intorno alla questione del realismo.
Nel cinema di ieri maggiore realismo significava, detta brutalmente, maggiori tempi morti. Lo sguardo dava conto di una vita che resisteva anche fra le pieghe di una vicenda e di una sceneggiatura. Accadeva nel cinema di Bresson o di Jean Rouch come continua a succedere in Garrel, Kaurismaki, Dardenne o Frammartino. L’attenzione “analogica” ai particolari insignificanti o ai vuoti della quotidianità ha, e ha avuto, un rilievo ideologico e ha distinto il cinema, da una parte, in un cinema di regia consapevole appunto del proprio ruolo politico, e dall’altra, in un cinema degli eventi, degli snodi, discreto, nel senso di “digitale” ancor prima della tecnologia, e dunque più compiacente.
Kechiche fa un’operazione nuovissima e ibrida, che forse è l’unica vera risposta possibile alla modernità, sicuramente vincente con il suo progressismo dei contenuti e con la sua “furbizia” formale (non sto parlando di Matteo Renzi, sto ancora parlando di cinema); tuttavia prima di accettarla senza riserve, e di sbarazzarmi dal sospetto di un certo qual personalismo, ho bisogno di comprendere l’inevitabilità storica di un simile assetto strutturale, altrimenti mi viene da derubricarla ad un modo per vincere Cannes nel 2013.
Il premio - argomento non marginale - glielo dà Steven Spielberg, il quale, per questioni funzionali al mio ragionamento, prima di essere l’autore de Lo squalo, di Incontri ravvicinati e di Indiana Jones, è l’autore di quei primi 24 minuti di Salvate il soldato Ryan, e dunque forse il primo, poco prima del 2000, ad interrogarci sulle sorti del realismo e sulle sue potenzialità spettacolari.

Save Private Ryan di Steven Spielberg

La versione americana del realismo non poteva che tradursi in un iperrealismo, ma di certo qualcuno può affermare che non sia realistica la ricostruzione filologica dello sbarco in Normandia a partire dalle inquadrature sovrapposte allo sguardo fotografico di Robert Capa? E d’altra parte, qualcuno può negare che con il realismo della storia non événementielle, dei piccoli gesti quotidiani o dei passaggi a vuoto della camera fino al décadrage come rivelazione del reale, non c’entri niente? Spielberg coniuga il massimo della ricostruzione realistica con il massimo della tensione e dello spettacolo, ha un’idea concertistica della guerra che però, forse, non so, si affrancherebbe dall’abjection rivettiana in nome della filologia bellica del photo-reportage. Insomma Spielberg dimostra, ma all’interno di una concezione hollywoodiana del cinema non poteva essere altrimenti, che anche il realismo può essere muscolare e che, nel suo caso attraverso gli effetti speciali, può diventare esso stesso un effetto speciale.
Ecco, io ho avuto la sensazione, guardando la La vie d’Adèle, di essere di fronte a una versione, sia pure europea e autoriale, di questo tipo di realismo, ben diverso da quello, “pieno di tempo” e creatore di un tempo interiore allo spettatore, cui ero abituato. Ho percepito un realismo ricco, ipertrofico. Quasi un virtuosismo alla continua ricerca della smorfia ideale di un’adolescente, degli ineffabili momenti di un’attrice, un montaggio di occhi, di capelli, di sguardi, di labbra (sempre troppo banalmente dischiuse), di nasi, di corse, di sudori, di bave, di morsi e di masticazioni sempre migliori, sempre più naturali, sempre più frequenti, il film sembra una collezione di momenti realisticamente perfetti.
Paradossalmente si respira durante le scene di sesso. Avevo sentito parlare di una durata imbarazzante ma come giustamente tu rilevi è un “sesso che va avanti quanto deve andare”, e questo perché è il tempo e il tempo soltanto, in questo caso, a dare rilievo realistico alle sequenze. Non voglio dire che sia irrealistico quel che accade fra le due ragazze, ma è palpabile, nel modo di girare, la preoccupazione per un’inclinazione precisa della macchina da presa, non un millimetro più in là né uno più in qua, e tutto quanto al servizio di una bellezza formale, certamente non patinata, ma sicuramente simmetrica, armonica e che mai corre il rischio di risultare oscena. Si respira durante queste scene perché si intuisce che il regista qui non può fare lo stesso gioco con lo spettatore, tanto poi ci pensiamo al montaggio, qui deve tutelare le due attrici, e la macchina da presa, almeno in campo medio, sta ferma, responsabile.
Il realismo di cui parlo dunque sta altrove, sta dove è evidente che la naturalezza dell’attrice lavori in favore della macchina da presa molto più di quanto la macchina da presa non lo faccia per la sua naturalezza; e sta esattamente dove tu stessa l’hai individuato: “qui c'è una camera che sta attaccata al volto di Adèle, al suo corpo, come se le stesse facendo un elettrocardiogramma e non si potesse perdere nemmeno un battito, nemmeno un soffio”. Parole che io considero tanto precise quanto allarmanti però: in una concezione laica e materialistica della realtà credo si possa tentare di sfiorare un principio di verità, nel cinema, solo attraverso la contemplazione del reale, dunque operare con strumenti di precisione per dare attenzione al particolare, oltre a fornire indicazioni parziali, sospetto abbia una vocazione più che altro sensazionalistica. E qui l’amplificazione del reale è programmatica, l’enfasi del particolare ripetuta, come può giovarsene allora il carattere realistico dell’intera sintassi?

La Vie d'Adèle di Abdellatif Kechiche
Ora io non pretendo che si risolva sempre alla lettera il pedinamento cosiddetto zavattiniano, né che dai tempi di Cléo de 5 à 7 della Varda non si sia tentata una progressiva evoluzione di ripresa intorno alla flanerie o all’eterno femminino, ma che kechiche abbia voltato pagina e che abbia voluto rifare un volto nuovo al realismo è questione che non può essere trascurata. Perché se fino ad ora il realismo è stato sostanzialmente un cinema di regia, ora, non diversamente da molto cinema mainstream, sta tornando ad essere un cinema di direzione degli attori. Ecco dove sta l’ibridismo e l’ambiguità de La vie d’Adèle, un film che si presenta dall’interno di una tradizione autoriale realistica per conquistare pubblico e Spielberg con una regia attenta invece alla bravura attoriale. La professionalità, mirabilmente differenziata, delle due attrici è fondamentale per un film come questo, e tutte le derivazioni, dall’attore come modello bressoniano (pensa al recente cinema della Hansen-Love o di Assayas), o come presenza brechtiana (Kaurismaki), o come il non professionista preso dalla strada (di derivazione pasoliniana e dunque più frequente in Italia – Pietro Marcello per dirne uno), rischiano di diventare pallidi ricordi con questa palma d’oro.
Certo, non è il caso di drammatizzare, la storia del cinema non ne rimarrà inficiata, né poi sarebbe così grave; ripeto, si tratta talvolta anche di essere disposti a girare pagina e sapersi aspettare nuovi esiti. Tuttavia, se è vero che il realismo è anche una prassi cinematografica sottesa da un metodo filosofico di ricerca della verità, che Kechiche lo usi come volano per evidenziare la sua bravura o quella delle sue attrici invece di usare la medesima in nome di una verità indagabile attraverso la realtà, significa che ha confuso, più o meno deliberatamente, più o meno astutamente, il fine con il mezzo.
Ecco, io in attesa di nuovi film, sospenderei il giudizio.
Un caro saluto, a te e a Parigi,
 
Francesco

Visto che roba? S'apre il dibattito!

sabato 2 aprile 2011

New York City Movie Theatres












Let’s face it: there is no city like Paris, for movie goers.
But besides the place where I live, the other city in the world allowing you to see an old Hollywood picture, a Pasolini movie or a Japanese retrospective at 11 am on a Tuesday morning… definitely IS New York City!
This is why, every time I have the chance to be there, I go to the movies as much as I can. And this is exactly what I did last week: Breakfast at Tiffany’s and movies at will!
But I also walked around to take pictures of my favourite movies theatres. Places where they really care for the pictures they show, places where I feel at home.
I went to the Sunshine Cinema (Lower East Side), an old movie theatre with a great programming and posters of Les Parapluies de Cherbourg by Jacques Demy hanging on its walls. To the lovely Angelika Film Center (near Washington Square), a chain of arty cinemas with different locations in the States (Dallas, Houston, Plano and NY), where I enjoyed a good cup of tea in their beautiful café (if I knew what I was about to see, I would have opted for a glass of whisky, but well…). To the IFC Center, the kingdom of independent cinema in the middle of Greenwich Village, and to the Film Forum (Soho), a place specialised in American independent cinema and foreign art movies (the evidence: they are now showing Le Quattro Volte by Michelangelo Frammartino).
I will write about the movies I have seen in New York in my next posts, but I wanted first to share these places with you.
Because no matter where you are in the world: home is where the movie theatres are!

giovedì 9 dicembre 2010

Le Quattro Volte

Com’è, come non è, ogni tanto mi ritrovo al Cinéma 1 del Centre Pompidou a vedere film italiani davvero speciali. Qualche mese fa era successo con La Bocca del Lupo di Pietro Marcello, martedì scorso è riaccaduto con Le Quattro Volte di Michelangelo Frammartino.
Oggetto filmico non meglio identificato,
Le Quattro Volte racconta quattro vite molto diverse tra loro ma tutte in qualche modo strettamente legate: la prima è quella di un vecchio contadino che porta al pascolo tutti i giorni le sue capre. Siamo tra le alte colline della Calabria, dove il tempo sembra essersi fermato. La vita del contadino è monotona, povera, e scandita da movimenti sempre uguali. Parecchio malandato in salute, il contadino beve ogni sera una strana pozione a basa di acqua e di polvere raccolta dal pavimento della chiesa del villaggio, che tuttavia non sarà in grado di guarirlo. Dopo la sua morte, il film inizia a seguire le avventure di una capretta appena nata che fa parte del gregge del pastore. La capretta è bianca, buffa e tenerissima, e il film la segue dall’istante della nascita (in una scena molto potente nella quale esce letteralmente dal corpo della madra davanti allo spettatore), ai suoi primi passi, ai tentativi maldestri di socializzazione, fino al momento in cui si perde dietro al gregge sulle colline. Sola e disperata, la capretta si mette a dormire sotto un grande albero, un gigantesco abete che diventerà il protagonista della terza storia. Maestoso e perfetto, viene scelto dagli abitanti di un villaggio per La festa dell’Albero, quindi viene tagliato, scorticato e issato nella piazza del paese, dove tutto intorno la gente balla, mangia e beve. Una volta terminati i festeggiamenti, l’albero è fatto a pezzi e portato via da alcuni uomini. E’ l’inizio della quarta ed ultima storia: con una tecnica antichissima, i legni vengono accatastati, fatti bruciare lentamente e poi trasformati in nero carbone.


Sorprendente e spiazzante, Le Quattro Volte è la dimostrazione che il cinema ha ancora infinite cose da dire in altrettanto infiniti modi. Film privo di dialoghi (le voci sono solo un brusio di sottofondo, le parole sono indistinte, alla maniera dei film di Jacques Tati) e pàrco di essere umani (il pastore, i carbonai, gli abitanti del villaggio), Le Quattro Volte esalta l’aspetto primitivo e fondamentale della natura del cinema, quello della pura forza delle immagini. Si può restare affascinati o meno, da questo mondo, ma non si può fare a meno di entrarci, non si può davvero restarne fuori. E’ un po’ come un ritorno alle origini. I cicli della vita: quella umana, animale, vegetale e minerale, riuniti in un unico luogo, sotto lo stesso cielo, che è quello della Calabria ma potrebbe essere quello di un qualsiasi altro villaggio nel mondo, il silenzio del passaggio sulla terra di questi elementi (persino di quello umano, privato della parola, e quindi allo stesso livello degli altri), la spiritualità (una forza animista, naturale, rurale, quasi anti-religiosa) che inevitabilmente irrompe sullo schermo e fa piazza pulita di tutto il resto. Quello di Frammartino è un cinema che parla alla parte migliore degli esseri umani, quella a cui sembra rivolgersi ancora con tanta fiducia (come lo invidio!) un grande regista italiano come Ermanno Olmi. Ma in queste quattro volte io ci ho visto, soprattutto, qualcosa che mi ha ricordato da vicinissimo il cinema di Andrei Tarkovskij. Lo stesso credere alla natura come luogo della realtà e del metafisico, gli stessi ritmi lenti, ossessivi, la stessa ricerca di spiritualità, pagana o religiosa che sia. Qualcosa che ci ricorda un'evidenza troppo spesso dimenticata: l'essere umano non è il solo a vivere su questa terra, ed è probabilmente quello che che ne capisce di meno.
Alla fine della proiezione, Frammartino (quarantenne milanese di origini calabresi, alla sua seconda prova di regista dopo il film Il Dono del 2003), ha gentilmente risposto alle domande del pubblico presente in sala. Io ne avevo una ma non ho avuto il coraggio di farla. Eppure mi dispiace, perché mi ci arrovello ancora adesso. Avrei tanto voluto chiedergli: ma la capretta, che fine ha fatto la capretta??!


Grazie a Marianna, Jordi, Manù e Nandina che, nonostante una gelida, ventosa e piovosa serata parigina, non hanno fatto una piega nemmeno di fronte ad un film muto con caprette. Grandi!
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