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venerdì 20 marzo 2020
venerdì 28 aprile 2017
Booklover
In queste ultime settimane ho rinnovato un po' il mio appartamento (principale motivo per cui sono andata poco al cinema e ho scritto pochino sul blog).
Nessun grande lavoro, ma piccole cose che ne hanno migliorato decisamente l'aspetto. Ultima in ordine di tempo: nel week-end, grazie all'aiuto di alcuni simpatici (e aitanti) amici, ho riempito una parete intera di librerie (che qui in Francia si chiamano Bibliothèques, cosa che mi fa sempre un po' ridere perché mi immagino dei posti enormi anziché dei semplici scaffali).
In pratica, non ho fatto altro che tenere tra le mani i miei libri per due giorni.
Prima li ho tolti e li ho impilati a casaccio sul pavimento (quando li ho visti così distesi tutti insieme mi è preso un colpo!) e poi ho dovuto trovare loro un posto ben preciso nelle nuove librerie, lavoro faticosissimo ma estremamente interessante.
Mi sono resa conto che attraverso quei volumi potevo tranquillamente ricostruire tutta la mia vita.
So che ognuno ha il suo personale sistema di catalogazione: per editore, colore dei libri, autore, argomento ecc. ecc.
Io sono piuttosto per un rangement a tema.
Temi che nel mio caso sono (praticamente da sempre): Giappone (con una quantità inquietante di romanzi di Haruki Murakami nelle sempre strabilianti traduzioni di Giorgio Amitrano), letteratura italiana contemporanea, libri di moda (rigorosamente vintage), libri sul design degli anni '50, letteratura inglese e americana (sezione in lingua originale, sezione tradotta), libri illustrati (tutta Beatrice Alemagna, tutto Pascal Blanchet), libri di poesia, libri francesi, libri di cucina, guide illustrate dei posti che preferisco al mondo, libri su Parigi, libri di fotografia, qualche libro di architettura (ma pochini eh), quasi nessun libro d'arte (lo so, è un mio grave problema) e, dulcis in fundo, tanti, tanti, tanti libri sul cinema.
Tralascerò il fatto che a Milano, a casa di uno zio con un po’ di spazio, ho lasciato almeno altri 15 scatoloni di libri, ma anche quelli potrebbero rientrare nelle stesse categorie: è da tanto tempo che mi piacciono le stesse cose.
In effetti uno degli aspetti più sconcertanti di fare questo lavoro è rendersi conto di quanto poco, in fondo, si è cambiati da quando si avevano 15 anni.
Ho scoperto di avere un intero scaffale dedicato a Virginia Woolf e ai suoi amici di Bloosmbury, ad esempio. Vai a capire perché, ho sviluppato una specie di ossessione per questo gruppo di intellettuali inglesi che nella vita andavano a letto tra di loro in combinazioni piuttosto interessanti, vivevano in case di campagna nel Sussex, dipingevano, scrivevano, erano pacifisti e amavano occuparsi del giardino. Ovviamente sono anche andata a visitare tutte le loro case, e ne ho già scritto nel blog, vi ricordate?
Un’altra mia grande passione è quella dei libri Penguin (per me Penguin sta ai libri come Criterion sta ai DVD, ovvero sono il meglio che puoi trovare al mondo, sia dal punto di vista della qualità che della grafica). Letteralmente stravedo per le loro vecchie edizioni. Posso restare interi minuti in religioso raccoglimento di fronte alle copertine delle raccolte di poesia degli anni ’50-’60. Lì siamo nel campo del sublime:
Nei reparto italiano, libri di mio fratello Matteo B Bianchi a parte, mi ha impressionato favorevolmente constatare di quanti scrittori sono amica. Essere circondati dai libri degli amici è una cosa meravigliosa, e quindi dico grazie in ordine alfabetico a: Paola Calvetti, Carolina Cutolo, Diego De Silva, Marco Drago, Matteo Galiazzo, Fabio Genovesi, Lisa Ginzburg, Antonella Lattanzi, Marco Mancassola, Antonio Monda, Francesco Pacifico, Giuseppe Rizzo.
Grazie amici di essere così talentuosi!
Quelli sul cinema, che ve lo dico a fare, riempiono da soli metà libreria.
C’è il reparto chiamato Tutto Truffaut, perché contiene solo ed esclusivamente libri su di lui, tra i quali spicca la Bibbia, ovvero la sua biografia scritta da Antoine De Baecque e Serge Toubiana (ecco, se qualcuno a 15 anni m’avesse detto che un giorno avrei vissuto a Parigi, avrei conosciuto Toubiana e avrei amabilmente chiacchierato con lui di cinema tutte le volte che lo incrociavo alla Cinémathèque Française, penso che non ci avrei creduto o che mi sarebbe venuto un colpo).
C’è lo scaffale con i cataloghi di tutte le ultime mostre della Cinémathèque, giustappunto, e quello con i volumi dedicati ai registi che amo: Demy, Tati, Eustache, Antonioni, Scorsese, Allen, Kaurismäki, Lars Von Trier, Wong Kar-Wai (e pure due-tre libri SOLO su In the Mood for Love) ecc. ecc.
C’è un libro enorme su Wes Anderson con una sua dedica che non scorderò mai (anche perché porta la data del 13 Novembre 2015: me l’ha scritta poche ore prima degli attentati di Parigi).
E poi ci sono cose che solo io potrei avere.
Tipo questo libro che adoro e per il quale mi chiedo sempre: ma chi diamine potrebbe averlo mai comprato, a parte me??? Il titolo è British Cinema and Thatcherism….
Non chiedetemi perché ma mi mette di buon umore tutte le volte che lo guardo, forse perché grazie al loro odio nei confronti della Tatcher i registi inglesi hanno fatto dei film bellissimi, negli anni '80:
Comunque, dopo tutto, non devo essere stata l’unica ad averlo comprato, perché mi sono appena resa conto che ne hanno fatto una seconda edizione, mettendoci pure in copertina uno dei miei film preferiti di tutti i tempi: My Beautiful Laundrette di Stephen Frears. Toccherà comprare anche quest'altro, ovvio!
E poi volumi sul Free Cinema inglese, sulla televisione britannica (che le serie le sfornava già negli anni ’60), un libro meraviglioso du Six Feet Under, una serie infinita di libri su Mad Men e il mitico libretto per “colorare” Ryan Gosling (che noi in La La Land ci abbiamo sempre vissuto, modestamente):
Certo, a volte ci sono anche delle brutte sorprese, mettendo a posto i libri.
Un volume da cui salta fuori un biglietto che avevamo dimenticato, ad esempio.
Con dentro una frase qualsiasi che però nasconde un intero mondo che non esiste più, e capire la distanza tra quella me stessa e quella di oggi è piuttosto impressionante.
La tristezza, per fortuna, è passeggera, e riguarda soprattutto il fatto che nessuno oggi potrebbe lasciarmi un biglietto simile. Ma ormai la lezione l’abbiamo imparata. Una persona, come un libro, è meglio non giudicarla mai dalla copertina.
In ogni caso, alla fine, il risultato dell'immane lavoro è stato questo qua (sì, lo so, ci sono due librerie completamente storte, però non è colpa mia se a Montmartre i pavimenti non sono dritti e se a quel punto non c'era nessuno che poteva aiutarmi! E poi per distrarvi da quel particolare, buttate un occhio al mio Mad Men Bar in primo piano):
Mica male, no?
Nessun grande lavoro, ma piccole cose che ne hanno migliorato decisamente l'aspetto. Ultima in ordine di tempo: nel week-end, grazie all'aiuto di alcuni simpatici (e aitanti) amici, ho riempito una parete intera di librerie (che qui in Francia si chiamano Bibliothèques, cosa che mi fa sempre un po' ridere perché mi immagino dei posti enormi anziché dei semplici scaffali).
In pratica, non ho fatto altro che tenere tra le mani i miei libri per due giorni.
Prima li ho tolti e li ho impilati a casaccio sul pavimento (quando li ho visti così distesi tutti insieme mi è preso un colpo!) e poi ho dovuto trovare loro un posto ben preciso nelle nuove librerie, lavoro faticosissimo ma estremamente interessante.
Mi sono resa conto che attraverso quei volumi potevo tranquillamente ricostruire tutta la mia vita.
So che ognuno ha il suo personale sistema di catalogazione: per editore, colore dei libri, autore, argomento ecc. ecc.
Io sono piuttosto per un rangement a tema.
Temi che nel mio caso sono (praticamente da sempre): Giappone (con una quantità inquietante di romanzi di Haruki Murakami nelle sempre strabilianti traduzioni di Giorgio Amitrano), letteratura italiana contemporanea, libri di moda (rigorosamente vintage), libri sul design degli anni '50, letteratura inglese e americana (sezione in lingua originale, sezione tradotta), libri illustrati (tutta Beatrice Alemagna, tutto Pascal Blanchet), libri di poesia, libri francesi, libri di cucina, guide illustrate dei posti che preferisco al mondo, libri su Parigi, libri di fotografia, qualche libro di architettura (ma pochini eh), quasi nessun libro d'arte (lo so, è un mio grave problema) e, dulcis in fundo, tanti, tanti, tanti libri sul cinema.
Tralascerò il fatto che a Milano, a casa di uno zio con un po’ di spazio, ho lasciato almeno altri 15 scatoloni di libri, ma anche quelli potrebbero rientrare nelle stesse categorie: è da tanto tempo che mi piacciono le stesse cose.
In effetti uno degli aspetti più sconcertanti di fare questo lavoro è rendersi conto di quanto poco, in fondo, si è cambiati da quando si avevano 15 anni.
Ho scoperto di avere un intero scaffale dedicato a Virginia Woolf e ai suoi amici di Bloosmbury, ad esempio. Vai a capire perché, ho sviluppato una specie di ossessione per questo gruppo di intellettuali inglesi che nella vita andavano a letto tra di loro in combinazioni piuttosto interessanti, vivevano in case di campagna nel Sussex, dipingevano, scrivevano, erano pacifisti e amavano occuparsi del giardino. Ovviamente sono anche andata a visitare tutte le loro case, e ne ho già scritto nel blog, vi ricordate?
Monk's House - La casa di Virginia Woolf nel Sussex |
Un’altra mia grande passione è quella dei libri Penguin (per me Penguin sta ai libri come Criterion sta ai DVD, ovvero sono il meglio che puoi trovare al mondo, sia dal punto di vista della qualità che della grafica). Letteralmente stravedo per le loro vecchie edizioni. Posso restare interi minuti in religioso raccoglimento di fronte alle copertine delle raccolte di poesia degli anni ’50-’60. Lì siamo nel campo del sublime:
Nei reparto italiano, libri di mio fratello Matteo B Bianchi a parte, mi ha impressionato favorevolmente constatare di quanti scrittori sono amica. Essere circondati dai libri degli amici è una cosa meravigliosa, e quindi dico grazie in ordine alfabetico a: Paola Calvetti, Carolina Cutolo, Diego De Silva, Marco Drago, Matteo Galiazzo, Fabio Genovesi, Lisa Ginzburg, Antonella Lattanzi, Marco Mancassola, Antonio Monda, Francesco Pacifico, Giuseppe Rizzo.
Grazie amici di essere così talentuosi!
Quelli sul cinema, che ve lo dico a fare, riempiono da soli metà libreria.
C’è il reparto chiamato Tutto Truffaut, perché contiene solo ed esclusivamente libri su di lui, tra i quali spicca la Bibbia, ovvero la sua biografia scritta da Antoine De Baecque e Serge Toubiana (ecco, se qualcuno a 15 anni m’avesse detto che un giorno avrei vissuto a Parigi, avrei conosciuto Toubiana e avrei amabilmente chiacchierato con lui di cinema tutte le volte che lo incrociavo alla Cinémathèque Française, penso che non ci avrei creduto o che mi sarebbe venuto un colpo).
C’è lo scaffale con i cataloghi di tutte le ultime mostre della Cinémathèque, giustappunto, e quello con i volumi dedicati ai registi che amo: Demy, Tati, Eustache, Antonioni, Scorsese, Allen, Kaurismäki, Lars Von Trier, Wong Kar-Wai (e pure due-tre libri SOLO su In the Mood for Love) ecc. ecc.
C’è un libro enorme su Wes Anderson con una sua dedica che non scorderò mai (anche perché porta la data del 13 Novembre 2015: me l’ha scritta poche ore prima degli attentati di Parigi).
E poi ci sono cose che solo io potrei avere.
Tipo questo libro che adoro e per il quale mi chiedo sempre: ma chi diamine potrebbe averlo mai comprato, a parte me??? Il titolo è British Cinema and Thatcherism….
Non chiedetemi perché ma mi mette di buon umore tutte le volte che lo guardo, forse perché grazie al loro odio nei confronti della Tatcher i registi inglesi hanno fatto dei film bellissimi, negli anni '80:
E poi volumi sul Free Cinema inglese, sulla televisione britannica (che le serie le sfornava già negli anni ’60), un libro meraviglioso du Six Feet Under, una serie infinita di libri su Mad Men e il mitico libretto per “colorare” Ryan Gosling (che noi in La La Land ci abbiamo sempre vissuto, modestamente):
Certo, a volte ci sono anche delle brutte sorprese, mettendo a posto i libri.
Un volume da cui salta fuori un biglietto che avevamo dimenticato, ad esempio.
Con dentro una frase qualsiasi che però nasconde un intero mondo che non esiste più, e capire la distanza tra quella me stessa e quella di oggi è piuttosto impressionante.
La tristezza, per fortuna, è passeggera, e riguarda soprattutto il fatto che nessuno oggi potrebbe lasciarmi un biglietto simile. Ma ormai la lezione l’abbiamo imparata. Una persona, come un libro, è meglio non giudicarla mai dalla copertina.
In ogni caso, alla fine, il risultato dell'immane lavoro è stato questo qua (sì, lo so, ci sono due librerie completamente storte, però non è colpa mia se a Montmartre i pavimenti non sono dritti e se a quel punto non c'era nessuno che poteva aiutarmi! E poi per distrarvi da quel particolare, buttate un occhio al mio Mad Men Bar in primo piano):
Mica male, no?
mercoledì 9 ottobre 2013
Patrice Chéreau, L'homme blessé
Quando leggo della morte di un regista, la mia prima reazione è quella di pensare alle immagini dei suoi film rimaste incise nella mia memoria.
E' una reazione incontrollabile, istintiva, una di quelle cose che non puoi farci niente: le immagini sono lì, sepolte ma vivissime, e riemergono in superficie al solo contatto della pronuncia di quel nome.
Quando lunedì sera un twitter qualsiasi mi ha annunciato la morte del regista francese Patrice Chéreau, io non ho potuto fare a meno di rivedere una stazione di notte, il sud della Francia, il caldo appiccicoso dell'estate, e dei corpi di uomini che si cercano, si picchiano, si baciano, e poi la faccia spaurita e impressionabile di un giovanissimo Jean-Hugues Anglade accanto a quella virile, sicura e perentoria, di Vittorio Mezzogiorno.
Dalle viscere del mio subconscio, intatte e perfette, sono riemerse con la stessa forza della prima volta che le ho viste le immagini di L'Homme Blessé.
Il film del 1983 scritto da Chéreau e Hervé Guibert, è una di quelle perle rare che ogni decennio per fortuna è in grado di produrre. Gli anni '80 (sempre siano lodati) erano anni in cui il concetto di politically correct ancora non esisteva, e uno come Chéreau si poteva permettere di impressionare e sconvolgere con la stessa naturalezza con cui respirava.
L'Homme Blessé è un film duro, di una crudezza nei modi, nei dialoghi, nelle sensazioni e nelle inquadrature, davvero impressionante, e allo stesso tempo aveva una forza, un'energia sovversiva vitale e spiazzante, che ti faceva pensare e capire tanti aspetti della vita che non erano spesso traducibili a parole. Chéreau era lontano dalle polemiche costruite a tavolino, era un uomo che ti sbatteva in faccia le sue ossessioni, le sue paure, le sue voglie, ma con un candore ed una sincerità tali che non potevi che crederci, immedesimarti, soffrire e poi rinascere con lui. Qui vorrei anche ricordare la bravura di un attore italiano, troppo spesso dimenticato, Vittorio Mezzogiorno, che altro che La Piovra! Mezzogiorno era un attore straordinario di cinema e teatro che recitava in perfetto inglese nel Mahabharata di Peter Brook e poi in perfetto francese in un film come questo, senza un attimo di esitazione, accettando una parte che, come minimo, il 98% dei suoi colleghi avrebbe rifiutato.
Onore al merito e alla memoria pure sua, allora.
E' una reazione incontrollabile, istintiva, una di quelle cose che non puoi farci niente: le immagini sono lì, sepolte ma vivissime, e riemergono in superficie al solo contatto della pronuncia di quel nome.
Quando lunedì sera un twitter qualsiasi mi ha annunciato la morte del regista francese Patrice Chéreau, io non ho potuto fare a meno di rivedere una stazione di notte, il sud della Francia, il caldo appiccicoso dell'estate, e dei corpi di uomini che si cercano, si picchiano, si baciano, e poi la faccia spaurita e impressionabile di un giovanissimo Jean-Hugues Anglade accanto a quella virile, sicura e perentoria, di Vittorio Mezzogiorno.
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Henri (Jean-Hugues Anglade) e Jean Lerman (Vittorio Mezzogiorno) |
Il film del 1983 scritto da Chéreau e Hervé Guibert, è una di quelle perle rare che ogni decennio per fortuna è in grado di produrre. Gli anni '80 (sempre siano lodati) erano anni in cui il concetto di politically correct ancora non esisteva, e uno come Chéreau si poteva permettere di impressionare e sconvolgere con la stessa naturalezza con cui respirava.
L'Homme Blessé è un film duro, di una crudezza nei modi, nei dialoghi, nelle sensazioni e nelle inquadrature, davvero impressionante, e allo stesso tempo aveva una forza, un'energia sovversiva vitale e spiazzante, che ti faceva pensare e capire tanti aspetti della vita che non erano spesso traducibili a parole. Chéreau era lontano dalle polemiche costruite a tavolino, era un uomo che ti sbatteva in faccia le sue ossessioni, le sue paure, le sue voglie, ma con un candore ed una sincerità tali che non potevi che crederci, immedesimarti, soffrire e poi rinascere con lui. Qui vorrei anche ricordare la bravura di un attore italiano, troppo spesso dimenticato, Vittorio Mezzogiorno, che altro che La Piovra! Mezzogiorno era un attore straordinario di cinema e teatro che recitava in perfetto inglese nel Mahabharata di Peter Brook e poi in perfetto francese in un film come questo, senza un attimo di esitazione, accettando una parte che, come minimo, il 98% dei suoi colleghi avrebbe rifiutato.
Onore al merito e alla memoria pure sua, allora.
L'altro film di Chéreau a cui non posso fare a meno di pensare è più recente: Intimacy, un film del 2001, basato sul romanzo dello scrittore anglo-pakistano Hanif Kureishi (santo subito pure lui, è lo sceneggiatore di My Beautiful Laundrette). Storia, anche in questo caso cruda e senza sconti, di un musicista di mezza età in crisi con la moglie e la vita di famiglia, che ogni settimana incontra una donna (di cui non sa nulla) per fare sesso.
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Claire (Kerry Fox) e Jay (Mark Rylance) |
Pochi hanno avuto la capacità, come Chéreau, di far vedere al cinema il sesso come qualcosa di così intimo, feroce, e necessario. Un veicolo vero ed infallibile per addentrarsi nella complessità e nella fragilità della natura umana. Chéreau filmava i corpi come se fossero dialoghi (certo era anche bravo a scegliersi i corpi, in questo caso quelli di Mark Rylance, attore inglese assolutamente eccezionale, e della fuoriclasse attrice australiana Kerry Fox), parlando una lingua che tutti possiamo capire, quella dei nostri bisogni più segreti ed estremi, e dunque più umani.
Chéreau era intenso, integro, brutale, e necessario. Ci mancherà, eccome se ci mancherà.
Questo è il post di Zazie n° 200, e sono molto felice di averlo dedicato a lui.
Adieu, Patrice!
venerdì 7 ottobre 2011
Pellegrinaggi
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My Beautiful Laundrette by Stephen Frears - 1987 |
Ovviamente, già che c'ero, ne ho approfittato per andare per librerie, che a Londra sono di una bellezza straziante. Ed è così che in un piccolo e delizioso bookshop di Notting Hill, Lutyens & Rubinstein, sono incappata in un volumetto sulle Film Locations di Londra. L'ho sfogliato e poi subito comprato, e quando sono tornata a casa dall'amico che mi ospitava, l'ho mostrato tutta fiera: Guarda che bello, così adesso posso andare a vedere dove hanno girato Alfie, Darling, Dirty Pretty Things, The End of the Affair, Nil by Mouth, Naked, Wonderland ecc. ecc. Lui mi ha guardata sorpreso, senza capire, e mi ha spiazzato con una semplice domanda: Perché ci vai?
Mi sono resa conto di non avere una risposta, e per una semplice ragione: io quella domanda non me la sono mai fatta. A me sembra nell'ordine delle cose, andare a vedere dove hanno girato un film. Lo considero normale, anzi, più che normale: giusto. E' un po' come chiedere ad un credente: Perché vai in chiesa? Perché vai alla Moschea? O in Sinagoga? Replica ovvia: Perché lì c'è quello che cerco, quello in cui credo.
Così, mi sono messa a ripensare a tutti i pellegrinaggi laici e cinematografici che ho fatto nella vita. E mi sono resa conto, in ordine sparso, di essere andata nei seguenti luoghi:
La città di Rochefort, dove Jacques Demy ha girato Les Demoiselles de Rochefort (1967)
La spiaggia di Dinard, in Bretagna, dove Eric Rohmer ha girato Un Conte d'été (1996)
La casa situata al 2302 West 25th Street di Los Angeles, ovvero la Fisher & Sons Funeral Home di Six Feet Under (2001-2005), la meravigliosa serie tv HBO scritta da Alan Ball
Ad ogni modo, i posti più strani in cui sono stata, in effetti, si trovano a Londra.
Per un film che ho amato moltissimo, The Crying Game di Neil Jordan (1992), un giorno di tanti anni fa ho fatto un lunghissimo giro nella zona di Hoxton Square: avevo letto che in Coronet Street, ad esempio, si trovava il famoso bar (Metro) dove si svolgono le migliori scene del film. Oggi Shoreditch è diventata una zona super trendy ma all'epoca, vi assicuro, non lo era per nulla.
Ma la Palma d'Oro della location più assurda, lo ammetto, l'ho vinta il giorno in cui mi sono spinta al n° 11 di Wilcox Road, South Lambeth, all'epoca un postaccio davvero infame, per vedere la Laundry in cui avevano girato My Beautiful Laundrette di Stephen Frears (1987).
E, notate bene, sapevo benissimo che quella lavanderia a gettoni non esisteva più, e forse non era mai esistita se non nel film, ma io ci sono andata lo stesso. E sono stata lì, a fare foto ad una delle vie più brutte di Londra, ad un negozio che non ricordo nemmeno cosa fosse, ma non importava. Perché era lì che erano stati, lì che Johnny e Omar si baciavano, lì che venivano picchiati, lì che si amavano, lì che fregavano la Thatcher. Insomma, era lì che si trovava il mio personale luogo di culto.
Me la sarei quasi sentita di mettermi in ginocchio a pregare.
martedì 12 luglio 2011
La piel que habito
No, questa non è, come molti potrebbero pensare, una recensione dell’ultimo film di Almodóvar, questa è una Dichiarazione d’Amore in piena regola (e il mio post n° 100!).
Più passano gli anni, e meno certezze sento di avere, nella vita.
Ma è da quando sono piccola che il cinema mi accompagna per mano come se fosse un terzo genitore, ed è quindi ovvio che ci siano registi che sento più vicini, perché sono stati con me fin dall’inizio, e non mi hanno mai deluso, né abbandonato.
Sedermi in una sala buia e veder comparire sullo schermo il nome Almodóvar, ha il potere di farmi sentire bene ovunque io sia, comunque io stia.
Ero giovanissima la prima volta che ho visto un suo film, non avevo nemmeno l’età della ragione, ma già capivo che quest’uomo mi stava dicendo delle cose importanti, delle cose destinate a restare.
Erano i primi anni ’80.
Quegli anni che a chi non li ha vissuti e li vede dal di fuori fanno un po’ orrore (come a me gli anni ’70), e che invece dal di dentro erano bellissimi, colorati, strani, intensi, iconoclastici. Erano i tempi in cui tutti insieme appassionatamente odiavamo la Tatcher, e gli inglesi incazzati da morire giravano fim come My Beautiful Laundrette e cantavano canzoni come The Queen is Dead, e ogni giorno c’era un nuovo gruppo da scoprire, un nuovo libro da leggere, un nuovo film da vedere. Erano i tempi pre-tutto: pre-cellulare, pre-iphone, pre-email, pre-facebook. Erano i tempi in cui si viaggiava per l’Europa in Inter-Rail. E io non potrò mai dimenticare l’arrivo a Barcellona, e la città tappezzata di poster allegrissimi e super pop dove un gruppo di donne dai vestiti improbabili e l’aria stranita ti facevano sapere che erano Mujeres al borde de un ataque de nervios (Donne sull'orlo di una crisi di nervi). Il titolo (ma quanto era bello quel titolo?), la foto, quelle facce, tutto mi parlava come se venisse direttamente dalla mia fantasia:
Quelli erano i film della Movida Madrilena, pellicole dove la gente partecipava a gare di peni, le suore prendevano l’LSD, le nonne spacciavano droga, gli uomini facevano sesso tra di loro, le donne pure, i transessuali erano ovunque, e Carmen Maura, come una regina bellissima e sensuale, regnava su questo circo delirante a suon di frasi storiche e spesso sconvolgenti. La libertà, l’irriverenza, l’ironia che sprigionava da questi primi film di Almodóvar non è pari a niente, per me, nella storia del cinema.
Più passano gli anni, e meno certezze sento di avere, nella vita.
Ma è da quando sono piccola che il cinema mi accompagna per mano come se fosse un terzo genitore, ed è quindi ovvio che ci siano registi che sento più vicini, perché sono stati con me fin dall’inizio, e non mi hanno mai deluso, né abbandonato.
Sedermi in una sala buia e veder comparire sullo schermo il nome Almodóvar, ha il potere di farmi sentire bene ovunque io sia, comunque io stia.
Ero giovanissima la prima volta che ho visto un suo film, non avevo nemmeno l’età della ragione, ma già capivo che quest’uomo mi stava dicendo delle cose importanti, delle cose destinate a restare.
Erano i primi anni ’80.
Quegli anni che a chi non li ha vissuti e li vede dal di fuori fanno un po’ orrore (come a me gli anni ’70), e che invece dal di dentro erano bellissimi, colorati, strani, intensi, iconoclastici. Erano i tempi in cui tutti insieme appassionatamente odiavamo la Tatcher, e gli inglesi incazzati da morire giravano fim come My Beautiful Laundrette e cantavano canzoni come The Queen is Dead, e ogni giorno c’era un nuovo gruppo da scoprire, un nuovo libro da leggere, un nuovo film da vedere. Erano i tempi pre-tutto: pre-cellulare, pre-iphone, pre-email, pre-facebook. Erano i tempi in cui si viaggiava per l’Europa in Inter-Rail. E io non potrò mai dimenticare l’arrivo a Barcellona, e la città tappezzata di poster allegrissimi e super pop dove un gruppo di donne dai vestiti improbabili e l’aria stranita ti facevano sapere che erano Mujeres al borde de un ataque de nervios (Donne sull'orlo di una crisi di nervi). Il titolo (ma quanto era bello quel titolo?), la foto, quelle facce, tutto mi parlava come se venisse direttamente dalla mia fantasia:
Quelli erano i film della Movida Madrilena, pellicole dove la gente partecipava a gare di peni, le suore prendevano l’LSD, le nonne spacciavano droga, gli uomini facevano sesso tra di loro, le donne pure, i transessuali erano ovunque, e Carmen Maura, come una regina bellissima e sensuale, regnava su questo circo delirante a suon di frasi storiche e spesso sconvolgenti. La libertà, l’irriverenza, l’ironia che sprigionava da questi primi film di Almodóvar non è pari a niente, per me, nella storia del cinema.
Lui è stato, davvero, il precursore.
Ma ho capito che era un grande regista il giorno in cui ho visto La Ley del Deseo (La legge del desiderio), un film intenso, cupo, senza sconti e senza speranza sull’insensatezza e la necessità del desiderio. E se proprio dovessi condensare l’intera filmografia di Almodóvar in una parola sola, sarebbe proprio quella lì: Desiderio (e non è forse un caso che la casa di produzione cinematografica che Pedro ha creato con il fratello Agustin, si chiami El Deseo).
Almodóvar è scivolato con noi negli anni ’90, tempi molto più opachi e prevedibili dei precedenti, seguendo un percorso coerente ma un po’ inconstante, dirigendo opere decisamente minori, nelle quali (tra tacchi a spillo e donne mutanti) sembrava non sapere bene dove andare. Eppure era chiara la sua volontà di evolversi, crescere, cambiare.
Ma è con gli inizi degli anni 2000 che la sua arte trova nuova forma e nuovo splendore. Da Todo sobre mi madre (Tutto su mia madre) in poi, eccezion fatta per il non riuscitissimo La mala educación (La cattiva educazione), Almodóvar ha infilato una serie di film incredibili, compreso quello che è per me il suo capolavoro assoluto: Hable con Ella (Parla con lei).
I temi sono gli stessi, i personaggi anche, ma il regista ha raggiunto maturità e pienezza, impensabili nel labirinto di passioni della gioventù. Nei suoi film trovano ora posto una dolcezza, un'umanità, uno struggimento ed un dolore che incantano, e la sua regia diventa fluida ed elegante, un vero piacere per gli occhi. Pedro ci regala uomini che piangono senza provare vergogna (non so voi, ma io quell'uomo che piange lo vorrei tanto incontrare nella vita reale), madri credute morte che ritornano come fantasmi a vegliare sulle figlie, e registi ciechi pronti a qualsiasi cosa pur di portare a termine i loro film (a proposito di dichiarazioni d'amore per il cinema...). L'Almodóvar touch è sempre lì, intatto, ma è passato dal trash più spinto alla classe più inaudita, basti pensare al cortometraggio-capolavoro in bianco e nero di Hable con Ella che racconta il viaggio di un uomo in miniatura all'interno del corpo di una donna:
La Piel que habito non è che l'ennesima conferma di un percorso in divenire, di un piacere costante, di un genio all'opera. Banderas è invecchiato ma è sempre Banderas, e i corpi mutano, ma per andare sempre nella stessa direzione. Quella, indovinate un po', dell'umano desiderio.
E mi viene da pensare a quella scena della Ley del Deseo in cui Carmen Maura, bellissimo transessuale, entra nella chiesa che frequentava da piccolo e si mette a cantare, e il prete sente quella voce e le dice: "Un tempo c’era un bambino, qui in parrocchia, che cantava come te".
E lei, di rimando: "Padre, quel bambino, sono io!".
Pedro, quel bambino, siamo tutti noi.
Almodóvar è scivolato con noi negli anni ’90, tempi molto più opachi e prevedibili dei precedenti, seguendo un percorso coerente ma un po’ inconstante, dirigendo opere decisamente minori, nelle quali (tra tacchi a spillo e donne mutanti) sembrava non sapere bene dove andare. Eppure era chiara la sua volontà di evolversi, crescere, cambiare.
Ma è con gli inizi degli anni 2000 che la sua arte trova nuova forma e nuovo splendore. Da Todo sobre mi madre (Tutto su mia madre) in poi, eccezion fatta per il non riuscitissimo La mala educación (La cattiva educazione), Almodóvar ha infilato una serie di film incredibili, compreso quello che è per me il suo capolavoro assoluto: Hable con Ella (Parla con lei).
I temi sono gli stessi, i personaggi anche, ma il regista ha raggiunto maturità e pienezza, impensabili nel labirinto di passioni della gioventù. Nei suoi film trovano ora posto una dolcezza, un'umanità, uno struggimento ed un dolore che incantano, e la sua regia diventa fluida ed elegante, un vero piacere per gli occhi. Pedro ci regala uomini che piangono senza provare vergogna (non so voi, ma io quell'uomo che piange lo vorrei tanto incontrare nella vita reale), madri credute morte che ritornano come fantasmi a vegliare sulle figlie, e registi ciechi pronti a qualsiasi cosa pur di portare a termine i loro film (a proposito di dichiarazioni d'amore per il cinema...). L'Almodóvar touch è sempre lì, intatto, ma è passato dal trash più spinto alla classe più inaudita, basti pensare al cortometraggio-capolavoro in bianco e nero di Hable con Ella che racconta il viaggio di un uomo in miniatura all'interno del corpo di una donna:
La Piel que habito non è che l'ennesima conferma di un percorso in divenire, di un piacere costante, di un genio all'opera. Banderas è invecchiato ma è sempre Banderas, e i corpi mutano, ma per andare sempre nella stessa direzione. Quella, indovinate un po', dell'umano desiderio.
E mi viene da pensare a quella scena della Ley del Deseo in cui Carmen Maura, bellissimo transessuale, entra nella chiesa che frequentava da piccolo e si mette a cantare, e il prete sente quella voce e le dice: "Un tempo c’era un bambino, qui in parrocchia, che cantava come te".
E lei, di rimando: "Padre, quel bambino, sono io!".
Pedro, quel bambino, siamo tutti noi.
mercoledì 14 ottobre 2009
Lascia perdere, Johnny!
Non ho mai MAI amato la politica.
Me ne sono sempre tenuta lontana, istintivamente. Non ci ho mai creduto. Soprattutto in un paese come l’Italia, non mi ha mai sfiorato il pensiero che potesse davvero cambiare qualcosa. Ammiro smisuratamente quegli amici che, nonostante tutto, continuano ad impegnarsi e a lottare per le giuste cause. Non so proprio come facciano.
Io ho sempre avuto un unico tema al quale negli anni non ho mai smesso di dedicare la mia attenzione: la causa, diciamo così, “omosessuale”. Il motivo è molto semplice: mi riguarda da vicino. L’unico fratello che ho è gay. La maggior parte dei miei amici, pure.
Se devo dirla tutta, mi ha sempre fatto strano dover “lottare” per una cosa del genere.
Dal mio punta di vista, infatti, non ci sarebbe nulla per cui lottare. Insomma, non ho mai capito dove sta il problema. Perché l’orientamento sessuale di qualcuno dovrebbe suscitare scandalo, o dibattito? E infatti non dovrebbe, ma a quanto pare viviamo in un paese il cui livello di civiltà non è abbastanza elevato per capirlo. E stiamo parlando degli anni 2000. Anni in cui, tanto per dirne una, persino nelle fictions nazional-popolari un gay dolce&gabbana-look-a-like non manca mai. E già qua inizia il primo inghippo: l’omosessuale può comparire, certo, ma è solo e soltanto di un certo tipo: è sensibile, simpatico, intelligente, spesso belloccio, ed è il perfetto amico delle donne. Altrimenti, come si fa ad accettarlo?
Io ho saputo che mio fratello era gay, perché lui me ne ha parlato chiaramente, quando avevo si e no 15 anni. E non erano gli anni 2000, no, signori e signore. Erano i primi anni ’80, e di gay nella TV italiana neanche l’ombra. La società tutta, la chiesa tutta, la stampa tutta, avevano un’unica cosa da dirmi sull’argomento: tuo fratello è SBAGLIATO, tuo fratello ha qualcosa che NON VA. Ed è GRAVE.
Io mi sentivo abbandonata a me stessa, e terrorizzata. Guardavo mio fratello e mi sembrava normale. Guardavo i miei amici e mi sembravano normali. Ma a quanto pare ero l’unica a vederli così.
E’ stato il cinema, ancora una volta, a venirmi incontro e a salvarmi.
Nel 1986, il regista inglese Stephen Frears ha portato sugli schermi un film scritto da un allora giovane e sconosciuto autore anglo-pakistano di nome Hanif Kureishi, dal divertente titolo My Beautiful Laundrette (letteralmente: La mia bella lavanderia).
Io mi sono precipitata al cinema a vederlo per due motivi: la trama, che mi pareva fantascientifica date le circostanze (due ragazzi gay, uno inglese e l’altro pakistano, decidono di aprire una lavanderia a gettoni a Brixton, quartiere malfamato di Londra) e l’attore protagonista, Daniel Day Lewis. Ci tengo a precisare che, all’epoca, nessuno, e sottolineo nessuno, sapeva chi fosse Daniel Day Lewis. Io ero uscita pazza a vederlo recitare la parte dell’irresistibile snob Cecil Vyse in A room with a view (Camera con Vista) di James Ivory, e avevo deciso seduta stante che quello era il più grande attore della sua generazione (due premi oscar e 20 anni di strepitosa carriera dopo, posso dire che sono stata lungimirante?).
Eppure non avevo idea che quel film mi avrebbe cambiato la vita. Già, perché non solo in questo film mi stavano dicendo che mio fratello non aveva nessun problema, ma mi stavano addirittura facendo capire che mio fratello era super cool. E sapete cosa? Daniel Day Lewis, che nel film si chiama Johnny, non è un tipo particolarmente dolce e sensibile. No, è un ex-punk, ex-naziskin, con i capelli colorati metà scuri e metà biondi, che se ne strabatte di stare con un pakistano (e sullo schermo i due ragazzi si baciano e fanno sesso proprio come due etero qualsiasi), che spaccia droga per riuscire a trovare i primi soldi con cui aprire la lavanderia (che non a caso viene chiamata Powders, “polverine”...). Narra la leggenda che Stephen Frears non ne volesse sapere di far recitare Daniel Day Lewis. Figlio del poet laureate (quello che scrive le poesie per la Regina, tanto per intenderci) anglo-irlandese Cecil Day Lewis, nipote del produttore Sir Michael Balcon (quello degli Ealing Studios), Day Lewis trasudava troppa classe alta per Frears. Ma un bel giorno il nostro Daniel si è prentato all’audizione sfoggiando un perfetto slang dei bassifondi, e minacciando Frears che certi suoi amici non proprio raccomandabili gli avrebbero spaccato la faccia se non avesse avuto la parte. E deve averlo convinto.
My Beautiful Laundrette è il film più “vivo” che io abbia mai visto. Ho cercato a lungo un altro aggettivo, non l’ho trovato. Sprizza energia da tutti i pori della pellicola: è un film contro la Tatcher, contro il razzismo verso i pakistani (e allo stesso tempo contro alcune stupide tradizioni pakistane), contro la mentalità naziskin tipica di certa Inghilterra povera e ignorante, e contro le differenze di classe. E’ uno dei film più politically incorrect che abbia mai visto, talmente oltre da saltare a pié pari il “problema” dell’omosessualità di entrambi i protagonisti (problema? quale problema?). E’ una tale boccata d’aria, che ti si riempiono i polmoni di ossigeno in una sola immagine. E’ irriverente e spensierato. L’ultima scena, in cui Johnny e Omar si spruzzano con l’acqua di un lavandino ridendo come due bambini, con in sottofondo il glu glu glu di una lavatrice, ben rappresenta la vitalità e l’allegria con la quale si esce dalla sala dopo aver visto il film.
Leggendo questa mattina i giornali italiani e scorrendo le perle di saggezza uscite dalla bocca della Binetti e di Castelli sul tema dell’omosessualità, ho ripensato a Johnny.
L’ho rivisto che tira fuori la ingua per baciare il collo di Omar mentre dà un’occhiata complice alla macchina da presa. Ho pensato: Lascia perdere, Johnny, questi non ti capiranno mai.
E sai cosa? Non importa, vorrà dire che verremo tutti nella tua lavanderia a lavare i nostri panni sporchi. Loro, immagino, non ne avranno bisogno.
Io ho sempre avuto un unico tema al quale negli anni non ho mai smesso di dedicare la mia attenzione: la causa, diciamo così, “omosessuale”. Il motivo è molto semplice: mi riguarda da vicino. L’unico fratello che ho è gay. La maggior parte dei miei amici, pure.
Se devo dirla tutta, mi ha sempre fatto strano dover “lottare” per una cosa del genere.
Dal mio punta di vista, infatti, non ci sarebbe nulla per cui lottare. Insomma, non ho mai capito dove sta il problema. Perché l’orientamento sessuale di qualcuno dovrebbe suscitare scandalo, o dibattito? E infatti non dovrebbe, ma a quanto pare viviamo in un paese il cui livello di civiltà non è abbastanza elevato per capirlo. E stiamo parlando degli anni 2000. Anni in cui, tanto per dirne una, persino nelle fictions nazional-popolari un gay dolce&gabbana-look-a-like non manca mai. E già qua inizia il primo inghippo: l’omosessuale può comparire, certo, ma è solo e soltanto di un certo tipo: è sensibile, simpatico, intelligente, spesso belloccio, ed è il perfetto amico delle donne. Altrimenti, come si fa ad accettarlo?
Io ho saputo che mio fratello era gay, perché lui me ne ha parlato chiaramente, quando avevo si e no 15 anni. E non erano gli anni 2000, no, signori e signore. Erano i primi anni ’80, e di gay nella TV italiana neanche l’ombra. La società tutta, la chiesa tutta, la stampa tutta, avevano un’unica cosa da dirmi sull’argomento: tuo fratello è SBAGLIATO, tuo fratello ha qualcosa che NON VA. Ed è GRAVE.
Io mi sentivo abbandonata a me stessa, e terrorizzata. Guardavo mio fratello e mi sembrava normale. Guardavo i miei amici e mi sembravano normali. Ma a quanto pare ero l’unica a vederli così.
E’ stato il cinema, ancora una volta, a venirmi incontro e a salvarmi.
Nel 1986, il regista inglese Stephen Frears ha portato sugli schermi un film scritto da un allora giovane e sconosciuto autore anglo-pakistano di nome Hanif Kureishi, dal divertente titolo My Beautiful Laundrette (letteralmente: La mia bella lavanderia).
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Hanif Kureishi e Stephen Frears |
Eppure non avevo idea che quel film mi avrebbe cambiato la vita. Già, perché non solo in questo film mi stavano dicendo che mio fratello non aveva nessun problema, ma mi stavano addirittura facendo capire che mio fratello era super cool. E sapete cosa? Daniel Day Lewis, che nel film si chiama Johnny, non è un tipo particolarmente dolce e sensibile. No, è un ex-punk, ex-naziskin, con i capelli colorati metà scuri e metà biondi, che se ne strabatte di stare con un pakistano (e sullo schermo i due ragazzi si baciano e fanno sesso proprio come due etero qualsiasi), che spaccia droga per riuscire a trovare i primi soldi con cui aprire la lavanderia (che non a caso viene chiamata Powders, “polverine”...). Narra la leggenda che Stephen Frears non ne volesse sapere di far recitare Daniel Day Lewis. Figlio del poet laureate (quello che scrive le poesie per la Regina, tanto per intenderci) anglo-irlandese Cecil Day Lewis, nipote del produttore Sir Michael Balcon (quello degli Ealing Studios), Day Lewis trasudava troppa classe alta per Frears. Ma un bel giorno il nostro Daniel si è prentato all’audizione sfoggiando un perfetto slang dei bassifondi, e minacciando Frears che certi suoi amici non proprio raccomandabili gli avrebbero spaccato la faccia se non avesse avuto la parte. E deve averlo convinto.
My Beautiful Laundrette è il film più “vivo” che io abbia mai visto. Ho cercato a lungo un altro aggettivo, non l’ho trovato. Sprizza energia da tutti i pori della pellicola: è un film contro la Tatcher, contro il razzismo verso i pakistani (e allo stesso tempo contro alcune stupide tradizioni pakistane), contro la mentalità naziskin tipica di certa Inghilterra povera e ignorante, e contro le differenze di classe. E’ uno dei film più politically incorrect che abbia mai visto, talmente oltre da saltare a pié pari il “problema” dell’omosessualità di entrambi i protagonisti (problema? quale problema?). E’ una tale boccata d’aria, che ti si riempiono i polmoni di ossigeno in una sola immagine. E’ irriverente e spensierato. L’ultima scena, in cui Johnny e Omar si spruzzano con l’acqua di un lavandino ridendo come due bambini, con in sottofondo il glu glu glu di una lavatrice, ben rappresenta la vitalità e l’allegria con la quale si esce dalla sala dopo aver visto il film.
Leggendo questa mattina i giornali italiani e scorrendo le perle di saggezza uscite dalla bocca della Binetti e di Castelli sul tema dell’omosessualità, ho ripensato a Johnny.
L’ho rivisto che tira fuori la ingua per baciare il collo di Omar mentre dà un’occhiata complice alla macchina da presa. Ho pensato: Lascia perdere, Johnny, questi non ti capiranno mai.
E sai cosa? Non importa, vorrà dire che verremo tutti nella tua lavanderia a lavare i nostri panni sporchi. Loro, immagino, non ne avranno bisogno.
Ce li avranno immacolati.
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