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venerdì 8 aprile 2016

Girls just want to have fun

Questa settimana ho visto due film totalmente diversi tra loro (oserei dire agli antipodi) ma che hanno in comune di avere come protagoniste due figure di donne complesse e bellissime delle quali bisogna assolutamente parlare.
E’ anche un momento in cui ho voglia, come sempre più spesso mi accade, di parlare di film minori, distribuiti in poche copie, mentre là fuori nel mondo impazzano dibattiti di cui mi frega davvero poco, tipo la rappresentazione fedele (o meno) dei supereroi in Batman v Superman: Dawn of Justice. Che poi che ci sarà mai da dire su un film di una bruttezza rara e che andrebbe tagliato di circa 2 ore e 25 minuti, cioé di tutto il tempo in cui non compare Jeremy Irons nel ruolo di Alfred, il butler di Batman? Mah... Misteri...  

Parliamo piuttosto di queste donne!
Sunset Song di Terence Davies (UK)
Che bello pensare che al mondo ci sia un regista come Terence Davies. Lo adoro.
Ha iniziato a fare film alla fine degli anni ’70 (è nato a Liverpool nel ’45) e, nonostante tratti temi che definire poco allegri è un eufemismo (un critico una volta ha scritto che al suo confronto Bergman sembrava Jerry Lewis), nonostante abbia uno stile assolutamente particolare, nonostante a volte ci siano solo canzoni e pochissimi dialoghi nei suoi film, è miracolosamente riuscito a farsi spazio, con 12 opere, nel panorama del cinema britannico contemporaneo.
Devastato, per sua stessa ammissione, dalla religione cattolica, schiacciato dal senso di colpa per essere omosessuale, Davies è stato cresciuto in una famiglia dove il padre violento e ubriacone ha fatto di tutto per rovinare la vita alla moglie e ai figli, e si può dire che questo sia il tema di tutti i film del regista (in particolare di quel capolavoro assoluto che è Distant Voices, Still Lives). 

Nel suo cinema gli uomini sono sempre rappresentati al peggio. Quando non sono esseri brutali, restano comunque crudeli, egoisti e superficiali, mentre le donne risplendono di una luce speciale, di una forza ciclopica, esseri straordinari che non si lasciano abbattere dalla sorte avversa e che trovano il coraggio di continuare ad amare, nonostante tutto e tutti. 
E le donne sono anche le protagoniste assolute di ogni suo film (qualche volta se la giocano con i bambini). 
Terence Davies
Non stupisce dunque che Davies abbia voluto firmare la trasposizione cinematografica di Sunset Song, un classico della letteratura scozzese del primi del 900 (di Lewis Grassic Gibbon). Chris, una ragazza nata e cresciuta in una fattoria nella valle di Aberdeen, non è stata esattamente baciata dalla fortuna: il padre è ottuso e violento, picchia continuamente la moglie e la mette altrettanto continuamente incinta e quando ha finito con lei, frusta a sangue il figlio maggiore. La ragazza, sveglia e intelligente, vorrebbe fare l’insegnante, ma quando la madre si suicida portando con sé anche i due ultimi nati, questa possibilità sfuma. Il fratello più grande se ne va a vivere in Argentina, i due fratelli minori con una zia e lei resta sola ad occuparsi del padre e della fattoria. Alla morte del padre, per Chris sembra iniziare un momento più allegro. Incontra l’amore e ha un figlio, ma, ahimé, scoppia la prima guerra mondiale.
Chris (Agyness Deyn) e suo padre John (Peter Mullan)
Sunset Song è un fim all’apposto di quelli che vanno di moda adesso: lento, essenziale, con immagini statiche che sembrano dei quadri, la luce naturale che illumina i campi, gli interni poveri delle case, i volti distrutti dalla fatica e dal dolore. Anche la recitazione è inusuale. Gli attori sembrano essere in bilico tra un palco teatrale e uno schermo, immersi nell’avvolgente accento scozzese, pronti a riversare i loro trattenuti sentimenti in una canzone cantata in coro, con le lacrime agli occhi. L’aggettivo poetico è quanto di più adatto per definire questo film. La figura di Chris (interpretata in maniera un po' lunare ma estremamente efficace dalla ex-modella Agyness Deyn) spicca su tutti gli altri: perno sul quale questo piccolo mondo antico sembra girare. La sua forza, la sua pazienza, la sua determinazione, sembrano riuscire a salvarla dagli orrori che la vita le infligge. E, al suo confronto, padri, fratelli, mariti ed amici, semplicemente, scompaiono.

Per amor vostro di Giuseppe M. Gaudino (Italia)
Presentato l'altra sera in anteprima al cinema 5 Caumartin, alla presenza dell'attrice Valeria Golino (che per questo ruolo ha vinto il Premio Coppa Volpi all'ultimo Festival di Venezia) e della produttrice francese del film, Per Amor Vostro è un film italiano anomalo e speciale, originale ed intensissimo, che si spera avrà il successo che merita qui in Francia.
Valeria Golino al Cinema 5 Caumartin, Parigi - 5 Aprile 2016
Anna Ruotolo vive a Napoli con suo marito Ciro e i tre figli adolescenti: Cinzia, Santina e Arturo, un ragazzo sordomuto. I rapporti con il marito sono ai minimi termini: Anna vorrebbe che se ne andasse di casa, ma lui, possessivo e violento, non ha nessuna intenzione di lasciarli. Nello studio televisivo in cui la donna fa la “suggeritrice umana” (scrive i dialoghi per gli attori smemorati su dei grandi fogli), Anna incontra Michele, un attore bello e sciupafemmine che sembra essersi invaghito di lei. Nella sua vita sempre così dura (da bambina si è dovuta persino fare quattro anni di riformatorio per evitare la prigione al fratello maggiore), Anna ha voglia di abbandonarsi a questo amore che le sembra la cosa più bella che può avere. Ma la realtà reclama il conto: che cosa fa veramente suo marito di lavoro? E quest’uomo che la corteggia, è veramente innamorato di lei? Suo malgrado, Anna sarà costretta a trovare una risposta a queste domande. 
Anna (Valeria Golino)
Che meraviglia vedere un film italiano che ha finalmente il coraggio di essere “altro”, di discostarsi da qualsiasi canone, stile, e strada già percorsa. Girato un po’ in bianco e nero e un po’ a colori, infarcito (mi sembra l’aggettivo più adatto) di inserti onirici manga e super kitsch, Per Amor Vostro è un film dall’atmosfera originalissima nel quale è bello lasciarsi andare, cadere dentro, per godere di tutta la sua bellezza visiva e la sua forza narrativa. E’ un vero viaggio nel quale imbarcarsi, avendo come guida la figura sottile, sognante e luminosa di Anna. Impossibile non amarla, questa donna bambina, fragile e cazzuta, bellissima ed eterea. La Golino le regala un fascino degno di una regina: non c’è una singola espressione fuori posto, una sola piccola sbavatura.
Solo un’immensa luce colorata, in mezzo al buio più assoluto.


martedì 20 luglio 2010

Una Storia Vera

Mi sono spesso chiesta se il fatto di condividere la stessa passione renda le persone più unite, più capaci di capirsi, più simili nel loro modo di concepire la vita e di viverla. Il fatto di tifare per la stessa squadra, ad esempio, mi chiedo affascinata io che non ho mai potuto soffrire il calcio, fa sì che le persone sappiano di cosa parlare quando si incontrano anche se un attimo prima erano perfetti sconosciuti?
Con il calcio non saprei, ma con il cinema questa teoria funziona.
Quando incontro qualcuno che ama i film, è raro che nella stanza cali il silenzio. E spesso, guarda caso, si finisce con lo scoprire che si amano anche gli stessi libri, la stessa musica, insomma più o meno le stesse cose. Certo i gusti possono essere molto diversi, e ci stanno pure delle animate discussioni su registi, film e attori, ma il mondo lo vediamo tutti da quella prospettiva lì.
Quella della poltrona di un cinema.

Ho una bella storia (vera!) da raccontare, in proposito.
Se seguite questo blog da vicino, forse vi ricorderete dei miei post su due film italiani la cui bellezza mi aveva colpito in maniera plateale: i documentari (ma chissà perché mi sembra riduttivo definirli tali) del giovane regista casertano Pietro Marcello. Ho già spiegato come, tramite alcuni amici comuni, avessimo avuto un contatto epistolare, ma la novità è che la scorsa settimana, complici quegli stessi amici (Sara Conforti ed Emiliano Morreale, pratiche di beatificazione già in corso) e la coincidenza di trovarsi nella stessa città (Roma), Pietro l’ho conosciuto per davvero.
Che posso dirvi? Che già dopo due minuti che parlavo con lui mi sembrava di stare a casa.
Ad esempio, ha raccontato di aver portato il suo film, La Bocca del Lupo, in centinaia di festival cinematografici (compresi alcuni molto importanti), ma che il suo preferito è stato il Midnight Sun Film Festival, il festival che i fratelli Aki e Mika Kaurismäki organizzano tutti gli anni a metà Giugno a Sodankylä, in Lapponia. E’ da sempre che voglio andare a quel festival, da sempre che Aki Kaurismäki è, in una mia personalissima classifica, fra i primi cinque esseri umani per cui valga la pena vivere. Ho pensato che avrei anche potuto confessare a Pietro, così su due piedi, che un paio d’anni fa ho preso una settimana di ferie per vedermi l’integrale dei film di Kaurismäki qui a Parigi, che ho pianto tutta una sera quando ho saputo che Matti Pellonpää era morto e che ho una cartolina di Télérama attaccata al computer con la didascalia “Aki Kaurismaki tra due camerieri del Grand Hotel di Cannes” ma che in realtà uno dei due camerieri è Timo Salminen, il suo storico direttore della fotografia. E che ho il forte sospetto di essere l’unica al mondo ad averlo notato (forse l’unica no, immagino che anche Salminen e la moglie se ne siano accorti). Insomma, particolari inquietanti che di solito evito accuratamente di esternare dopo il primo quarto d’ora che conosco qualcuno per paura di essere considerata una pazza completa, qui sentivo di poterli divulgare in assoluta tranquillità.

Ve l’ho detto, e ve lo ripeto, il cinema accomuna.
E così, dopo il regista finlandese, siamo passati agli altri dèi del nostro pantheon cinematografico: Terence Davies, Aleksandr Sokurov, Andrei Tarkosvky, Ingmar Bergman, i registi della Nouvelle Vague, quelli del Free Cinema inglese, Pedro Costa e gli altri portoghesi, Mike Leigh, per poi discutere di cinema americano che entrambi amiamo molto meno di quello europeo, ed infine arenarci su David Cronenberg, per cui io tifo ma lui no.
Sono rimasta sconvolta nel sentire con quali pochi soldi è riuscito a fare i suoi documentari, un po’ meno nell'apprendere che non ha nessuna intenzione di chiederne al Ministero per fare il suo prossimo film (questa volta di pura finzione, e non vediamo l’ora!).
E mi ha lasciato senza parole raccontandomi di aver trovato casa ad Arturo, il protagonista del Passaggio della linea, che passava la sua vita sui treni. Dal momento che mi affeziono ai protagonisti dei film come a dei parenti, è stato come se mi avesse detto di aver trovato casa a mio nonno. Sacré Pietro!, come direbbero i francesi.
E Sacré Rencontre!, aggiunge la blogger.

Quando Pietro ha tirato fuori un pacchetto delle sue sigarette, l'ho guardato stranita: mai viste prima.
Mi ha spiegato che erano "quelle del Monopolio", le 3 Stelle.
Non ho potuto fare a meno di pensare alle tabelle dei critici cinematografici, quelle dove si mettono le stelline per indicare l'indice di gradimento dei film, e che di solito vanno da uno (non vale la pena di scomodarsi) a cinque (capolavoro da non perdere).
Ecco, io a questa storia vera che sembra un film darei un voto alto... se non vi dispiace!
Zazie

p. s. Un grazie a Roberto Dulio, detto anche "il Richard Avedon de noantri", per la Hipstamatic super cool scattata a Pietro e Zazie! Fossi in te, caro Roberto, lascerei il ramo architettura e mi consacrerei alla fotografia...

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