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lunedì 17 luglio 2017

The Handmaid's Tale

Nel mare nostrum delle serie TV che arrivano su questi schermi ogni anno, ammettiamolo, sono poche quelle veramente speciali, quelle che c’è un prima e c’è un dopo. 
Quelle che ti ritornano in mente i dialoghi, l’atmosfera, la bellezza o l’effetto sconvolgente di certe scene.
Per il 2017, non so voi, ma io ne ho una in cima alla classifica, e qualcosa mi dice che sarà difficile che venga eclissata da un’altra.
Si intitola The Handmaid’s Tale (Il racconto dell’Ancella), una produzione Hulu TV creata da Bruce Miller e basata sull'omonimo romanzo distopico della scrittrice canadese Margaret Atwood, datato 1985.
Il romanzo aveva già avuto una trasposizione cinematografica nel 1990, diretta da Volker Schlöndorff e interpretata dalla compianta Natasha Richardson. Ne ho un ricordo vago ma non credo fosse un granché. Forse perché due ore erano davvero troppo poche per poter rendere la complessità della storia e tutte le sue implicazioni.

La serie TV, invece, si compone di 10 episodi da 45-50 minuti l'uno ed è andata in onda in America tra metà Aprile e metà Giugno, riscuotendo un successo di pubblico e critica davvero notevole (è di questi giorni la notizia delle sue 13 nominations agli Emmy Awards, il più importante premio televisivo negli Stati Uniti, corrispettivo degli Oscar per il cinema).
In un futuro non troppo lontano, la specie umana ha serie difficoltà a riprodursi a causa dell’inquinamento del pianeta. Negli Stati Uniti, un colpo di stato si sbarazza della Costituzione e crea la società di Gilead, un regime dittatoriale che auspica il ritorno a valori tradizionali ed in pratica annulla tutti i diritti civili, in particolare quelli delle donne. 
Le poche donne ancora fertili sono separate a forza da mariti e figli ed assegnate alla famiglia di uno dei Comandanti, dalle quali sono regolarmente violentate con lo scopo di restare incinta e assicurare loro una discendenza.
Queste donne, chiamate le ancelle, non hanno alcun diritto: non possono truccarsi, leggere un libro, uscire sole in strada, conservare il loro nome o ribellarsi in alcun modo al potere costituito.
Una di loro, June (detta Offred), separata dal marito e dalla figlia durante un tentativo di fuga in Canada (rimasto un paese libero), viene affidata alla famiglia del Comandante Fred Waterford e della moglie Serena. La storia della sua sofferenza e del suo disperato tentativo di sopravvivere a questo destino assurdo, sono il cuore del racconto.

Concepito e messo in produzione prima della vittoria alle elezioni presidenziali di Trump, The Handmaid’s Tale sembra aver magicamente e tristemente captato “l’air du temps”, risuonando negli animi dei tanti americani spaventati dalla deriva del pensiero trumpiano. 
Il campanello d'allarme suona forte, fortissimo. 
Le scene in cui June ricorda la sua vita “prima”, sono scene della nostra vita di tutti i giorni, e quindi ancora più impressionanti nel mostrare il (purtroppo) facile passaggio dalla normalità alla dittatura.
Personalmente, ho trovato sconvolgente la scena in cui June e una sua amica ordinano un semplice caffè e non solo si rendono conto che le loro carte di credito non valgono più nulla, ma sono anche insultate dal barista come se fossero diventate da un momento all’altro degli essere umani senza alcun valore.
Se siete una donna, la visione del Racconto dell’Ancella non è delle più semplici, lo ammetto. 

La serie è spietata nel mostrare la perdita totale di dignità di June e delle altre malcapitate ancelle, rigorosa nel mostrare il lavaggio del cervello a cui sono costrette loro malgrado, un misto di estremismo religioso, bigotteria, mentalità retrograda, privazione di ogni libertà e di autonomo pensiero. 
La storia riesce ad avere una forza travolgente per il modo in cui viene raccontata, ovviamente, e per un cast che definire eccezionale è un eufemismo.
Immersi in una atmosfera lugubre in cui il rosso scuro e il grigio ghiaccio invadono lo schermo, i protagonisti sono spesso filmati da vicino, volti chiusi nella disperazione e nella totale solitudine, lasciando lo spettatore in uno stato attonito misto a frustrazione di fronte a tanta ingiustizia.
In tanta oscurità, brilla di luce propria il talento di quella che, a mio avviso, sarà presto considerata la nuova Meryl Streep (poi non dite che Zazie non vi aveva avvertito): l’attrice americana Elisabeth Moss. Già mitica in Mad Men nella parte di Peggy Olsen e in quella della poliziotta tormentata di Top of the Lake, qui la Moss supera se stessa.
La sua è un’interpretazione magistrale: con la telecamera sempre addosso, impietosa, soffocante, l'attrice si lascia letteralmente invadere dal suo personaggio, e con un semplice, fuggevole sguardo, lascia intravedere un mondo interiore fatto di dolore misto ad un desiderio di ribellione sempre più difficile da gestire, da tenere a bada.
Non è particolarmente bella, la Moss, ma ci sono attimi in cui è sublime, come se fosse in grado di trasformarsi totalmente e di trasportarti in un’altra dimensione spazio-temporale. E dite poco! 

Per questo la sua lotta diventa facilmente la nostra, una vera eroina dei tempi moderni in grado di dare una svegliata a tutti, capace di far capire che non si deve mollare, a nessun costo.
Come nel mio episodio preferito, in cui June scopre, inciso in un punto nascosto del muro della sua stanza, una frase scritta in latino dall’anc
ella che l’aveva preceduta e che si è tolta la vita, e la cui traduzione suona più o meno così: Che i bastardi non ti schiaccino.
Insomma io vi dico che se c’è una serie TV imperdibile, quest’anno, è proprio questa. 

Nolite Te Bastardes Carborundorum, bitches!

martedì 30 aprile 2013

Top of the Lake

Vorrei che molte più donne facessero cinema.
Vorrei che ai festival cinematografici in giro per il mondo la presenza in concorso di un film di una regista donna rappresentasse una normalità e non un’eccezione. L’anno scorso a Cannes non ce n’era manco uno, quest’anno... uno (dell'Italo-Francese Valeria Bruni Tedeschi). Davvero un po’ pochino, no?
Eppure, e l’ho già scritto diverse volte in questo blog, di donne che fanno cinema e lo fanno benissimo ce ne sono. Eccome. Ad esempio, c’è una regista che amo in maniera viscerale che una volta ha persino vinto la Palma d’Oro, al Festival di Cannes (era il lontano 1993): il suo nome è Jane Campion

Neo-zelandese di nascita e australiana d’adozione, la Campion ha sempre fatto un cinema personalissimo e speciale, quasi sempre incentrato su figure femminili, tutt'altro che stereotipate, e spesso piuttosto disturbate. Le donne dei suoi film, è questa la cosa bella, sono donne estremamente vere. Sono stracariche di difetti, per dirne una. Fisici e mentali. Hanno corpi non perfetti, a volta decisamente grassi, sformati dalle nascite, usurati dalla vita quotidiana. E anche le teste non sono da meno: tormentate, piene di contraddizioni, di preoccupazioni, di desideri inespressi. Le sue donne possono creare addirittura fastidio: chi non ha avuto voglia di voltarsi dall’altra parte di fronte all’insopportabile disagio della grassa e antisociale Sweetie? O di innervosirsi di fronte all’ostinazione di Ada in The Piano? O di sentirsi male di fronte all’ipersensibilità confinante con la follia di Janet Frame in An Angel at my Table? Eppure è proprio racchiusa lì tutta la natura speciale e indispensabile dei film della Campion. Senza contare che si tratta di una regista dall’incredibile bravura stilistica. Alcune immagini dei suoi film sono di una bellezza fulminante, indimenticabile. Penso al pianoforte piantato in mezzo all’oceano e suonato da una donna che sembra stare chiusa in un mondo tutto suo al centro di quell’immenso spazio aperto, in The Piano. Penso al calore delle strade e al desiderio che sfianca i corpi, filmati come se fossero in un prisma ottico, in uno dei film più erotici e sensuali della storia del cinema, il sottovalutatissimo In the cut. Jane Campion racconta la difficoltà di essere una donna in un mondo concepito e governato dagli uomini, e dove, nel momento in cui le donne si scostano dai canoni abituali di bellezza e pensiero, il rischio di venire schiacciate, derise o messe da parte è altissimo. 
Il suo ultimo lavoro non è un film ma una serie TV. Si intitola Top of the Lake, ho appena finito di guardarla e, come per tutte le cose che mi piacciono tanto, il ricordo di questi sette episodi si è attaccato alla mia corteccia cerebrale e non vuole più andarsene.
Siamo in una piccola comunità alle pendici di un lago, appena fuori Queenstown, emisfero sud della Nuova Zelanda. Una ragazzina di 12 anni, Tui, figlia di uomo violento e potente che detta legge nella zona, viena trovata mentre si butta nelle acque gelide del lago. Si scopre che è incinta e, per trattare un caso così delicato, la polizia locale chiede aiuto ad una detective specializzata in casi di violenza sui minori, Robin Griffin. Originaria della zona, Robin vive a Sydney ma in quel momento è in città per accudire la madre gravemente ammalata. La detective inizia ad occuparsi del caso, ma quando Tui scompare, tutto si complica. E Robin dovrà affrontare traumi del passato e dolori del presente. 
C’è del marcio, e pure parecchio, in Nuova Zelanda...
Johnno Mitcham (Thomas M. Wright), Robin Griffin (Elisabeth Moss)
E' impressionante come gli spazi aperti di Top of the lake: il grande lago, le montagne intorno, l'immensa foresta, la sconfinata tenuta chiamata "Paradiso", si facciano a poco a poco, puntata dopo puntata, sempre più piccoli. Sino a diventare soffocanti. Ciascuno di loro contiene una storia che può essere ricondotta ad un gesto di paura, di violenza, di dolore. Trovo che sia questa atmosfera opprimente a fare la differenza con altre serie di questo genere. Robin si perde in un labirinto senza fine, sino a quando non le rimane altro che guardare dritto negli occhi il suo passato e da lì trovare la forza per affrontare il presente. L'innocenza sembra essere perduta in partenza, da queste parti, e la vita particolarmente dura nei confronti delle donne: non viene risparmiato nessun abuso, verbale o fisico, alle protagoniste di Top of the lake, e poco importa che alcune siano solo quasi bambine. Ma tutto quello che non uccide, si sa, serve a rendere più forti, e la Campion su questo sembra decisa a rendere giustizia alle sue protagoniste.

Tui Mitcham (Jacqueline Joe)
Il cast, che ve lo dico a fare, è di primissimo ordine. Su tutto e tutti spicca l'attrice americana Elisabeth Moss (la mitica Peggy Olson di Mad Men): l’intensità con cui interpreta Robin è semplicemente grandiosa e in un paio di scene è proprio da togliere il fiato. L'attore scozzese Peter Mullan, nella parte dello sporco, brutto, cattivo e fuori di testa Matt Mitcham, si conferma ancora una volta di una bravura eccelsa. Il fascino magnetico di Holly Hunter, nel ruolo della guru senza tanti peli sulla lingua GJ, invade ogni episodio, anche quando la si vede pochissimo. E tutti i comprimari sono eccellenti.
Robin Griffin (Elisabeth Moss), Al Parker (David Wenham)
Matt Mitcham (Peter Mullan), Robin Griffin (Elisabeth Moss)
GJ (Holly Hunter)
Di fronte ad una Robin completamente distrutta dagli eventi, GJ le consiglia di sdraiarsi e dormire, aggiungendo: "There is no match for the tremendous intelligence of the body" (non c'è nulla di paragonabile alla straordinaria intelligenza del corpo).
E pure quella della Campion, diciamocelo, ha ben pochi rivali.


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