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venerdì 26 luglio 2019

Fleabag

Non so voi, ma io sono sempre stata una persona che adora avere delle ossessioni, che le coltiva, che ne ha bisogno per vivere. 
In generale, si tratta di “magnifiche ossessioni”, essendo legate a film o, in anni più recenti (diciamo da Six Feet Under in poi), a serie TV. Quando ero più giovane credevo che con l’avanzare dell’età questa cosa mi sarebbe passata, che sarei diventata più saggia, che avrei smesso di provare questi entusiasmi colorati e prolungati, durante i quali tutto il resto si annulla, si annacqua, o mi annoia profondamente. Non è andata così. E oggi, all’alba dei miei (favolosi, ça va sans dire) 50 anni, posso tranquillamente affermare che continuo a vivere queste passioni furibonde con lo stesso grado di follia momentanea di quando di anni ne avevo 15 o 20.
Sarà una brutta o una bella cosa? Mi chiedo spesso. Vorrà dire che non riesco a crescere? Che mi rifiuto di diventare più posata? Eh, non lo so, ma dato che non ci posso fare molto, eccomi qui, prendere o lasciare. In questo blog, ai miei lettori ho ciclicamente propinato post entusiasmanti su questo o quel film, questo o quell’attore, questo o quel regista, questa o quella serie. Tutti questi amori si sono negli anni accumulati, si sono allineati uno di fianco all’altro, formando un piccolo e privato pantheon di idoli assoluti.
La felicità che mi procura avere un nuovo, incontenibile entusiasmo, è sempre stata ai primi posti in classifica, nella mia vita. L’unica cosa che forse è cambiata, con lo scorrere del tempo, è la frequenza con cui queste cose accadono. Si è più esigenti, presumo, si è più sicuri dei propri gusti, si riconoscono meglio i propri simili. Ma poi, sempre, arriva il giorno che BOUM!, succede, e allora non ce n’è più per nessuno.
Da tempo leggevo sulla stampa inglese articoli entusiasti su questa ragazza, Phoebe Waller-Bridge, e la serie TV di cui era autrice e protagonista, Fleabag (Sacco di pulci). Ne leggevo ma nessuno intorno a me la stava guardando, o me ne parlava, e allora avevo lasciato correre. Poi pochi mesi fa sul Guardian hanno iniziato a scrivere delle cose pazzesche sulla seconda stagione della serie, culminate in un pezzo in cui, a pochi giorni dalla fine della sua messa in onda, davano delle istruzioni per riuscire a sopravvivere alla fine della stessa.
Il grado di idolatria che sprigionava da questi articoli è suonato come una chiamata alle armi. Una sirena rossa si è messa a lampeggiare: Warning! Warning! nuovo possibile entusiasmo all’orizzonte.
Così mi sono decisa a guardare la prima stagione. 

Non è stato, come molti potrebbero pensare, amore a prima vista. Anzi.
Sono rimasta sconvolta dai primissimi minuti della serie, dalla crudezza con cui Fleabag si mette a nudo, da quella domanda assurda che fa a se stessa e al pubblico (perché la protagonista ha il vezzo di rivolgersi direttamente allo spettatore guardando dritta nella camera da presa) seduta in un caffè, ancora prima del titolo, ancora prima della sigla (che poi non esiste nemmeno, una vera sigla, ti butta lì il titolo con sotto una musica assordante come a dire: e chi se ne importa di quelle belle sigle tutte super design quando ti ho appena fissato dallo schermo per chiedermi/chiederti: Do I have a massive asshole? Letteralmente: Ho un buco del culo enorme?).
Insomma Fleabag è respingente. Non è l’eroina nella quale ti vuoi facilmente identificare, anzi ti mette così a disagio che pensi: oddio, io non sono ASSOLUTAMENTE come lei!
Quindi ho visto i primi due episodi e ho mollato lì. E poi, una sera, non so perché, era Giugno, ho sentito che quella partita non era finita, che anzi doveva ancora iniziare.
Ho guardato tutto di nuovo dall’inizio e ad un certo punto è scattato qualcosa: BANG!, e nel giro di poche ore avevo visto per intero la prima e la seconda serie, senza riuscire a fermarmi (non è un’impresa impossibile, le due stagioni sono composte di 6 episodi ciascuna di circa 20-25 minuti l’uno).
E da allora, niente, c’è un prima e c’è un dopo Fleabag.

Fleabag racconta di una ragazza di circa 30 anni che vive a Londra e gestisce un caffè, che ha una relaziono on/off con un ragazzo gentile ma un po’ bizzarro, che ha un sacco di incontri sessuali con gente ancora più bizzarra, che ha una famiglia composta da padre, nuova compagna del padre (una stronza micidiale interpretata divinamente da Olivia Colman, l'attrice Premio Oscar 2019), sorella e marito della sorella (più figlio acquisito di quest’ultimo), che ha perso da poco la madre e la migliore amica (con la quale aveva aperto il caffè) e che queste due cose la fanno soffrire tantissimo. Fleabag ha uno spiccato sense of humour, molto british e molto trash, ha la capacità di dire tutto quello che pensa nella maniera più indigesta possibile per gli altri (e pure per se stessa), e alla fine della prima stagione sta letteralmente andando in pezzi.
Basato su un one-woman-show che la Waller-Bridge aveva portato al Fringe Festival di Edimburgo qualche anno fa, e che aveva generato tanto entusiasmo da indurre la BBC a chiederle di farne una serie TV, Fleabag era destinato ad essere un esperimento da una stagione sola. Visto il successo, la BBC ha cominciato ad insistere perché la storia di questo sacchetto di pulci avesse un seguito. Dapprima restìa, la Waller-Bridge racconta di avere avuto una vera e propria illuminazione, di aver avuto L’IDEA, e che solo a quel punto ha accettato di far continuare la storia.
Sono poche, ammettiamolo, le serie TV che hanno una seconda stagione più bella della prima. Fleabag fa eccezione.

Se la prima stagione è bellissima, la seconda è straordinaria, anzi di più, è perfetta (e infatti non avrà un seguito, perché sarebbe impossibile concepire una cosa altrettanto geniale, o forse - come lei stessa afferma - si potrà fare tra 20 anni, per vedere che cosa mai avrà combinato questa donna nel frattempo).
Tra la prima e la seconda stagione, nella finzione, è passato poco più di un anno.
Un anno nel quale Fleabag ha cercato di cambiare, di migliorare, di crescere: la relazione on/off è definitivamente terminata, non scopa più in giro, mangia sano, fa sport e il caffè che gestisce ha preso a funzionare. Le cose con la famiglia sono messe un tantino peggio. Con la matrigna non va benissimo e, soprattutto, non parla con la sorella dalla fine della prima stagione.
Il primo episodio di Fleabag 2, io ve lo dico, dovrebbe essere studiato in qualsiasi scuola di sceneggiatura di questo mondo come esempio straordinario di scrittura.
E’ una cena. Una semplice cena di famiglia, dove tutti sono riuniti (in un ristorante), per festeggiare l’avvenimento dell’anno: l’imminente matrimonio tra il padre di Fleabag e l’insopportabile compagna. Finirà in un massacro, metafisico e fisico, ma anche in una cosa totalmente inaspettata, come del resto ci promette Fleabag all’inizio dell’episodio, una scena memorabile in cui, con il volto insanguinato e tumefatto guarda verso la telecamera e annuncia: This is a love story! (Questa è una storia d’amore!).
E ovviamente non poteva che essere una storia d’amore in puro stile Waller-Bridge.
Perché cosa mai ci potrebbe essere di più profondamente déplacé, assurdo, sconveniente e disperante che innamorarsi del prete cattolico che sta per sposare tuo padre?
E dunque eccolo, il personaggio destinato a cambiare tutto, questa figura di cool (but very hot) priest, che fuma, beve (decisamente troppo), è minacciato dalle volpi (una vera ossessione) e dice parolacce che neanche uno scaricatore di porto.
Ma tanto basta.

Lui e Fleabag sullo schermo fanno letteralmente scintille, e il loro rapporto trasfigura entrambi, lì, sotto i nostri occhi increduli, mentre stiamo a metà tra le risate e le lacrime, e il desiderio potente che tutto questo non abbia mai fine. Anche perché, senza quasi darci il tempo di rendercene conto, succede una cosa sconvolgente che non voglio spoilerare ma che è da cascare dalla sedia. Tenetevi forte, questa donna ha la capacità di stupirvi ad ogni scena.  Disseminato di nuovi, meravigliosi personaggi (una psicologa intepretata dalla magnifica Fiona Shaw, una manager intepretata dalla grandiosa Kristin Scott-Thomas, alla quale la Waller-Bridge affida uno dei monologhi femministi più riusciti della storia), Fleabag 2 si snoda ad un ritmo vorticoso, un’idea geniale dietro l’altra, un crescendo di situazioni e assurdità varie, che non lasciano mai la presa, fino alla fine. Che è devastante.
C’è gente che non s’è più ripresa, ve lo giuro (gli attori hanno dovuto girarla almeno tre volte, perché le prime due non facevano altro che piangere).
E capisco perfettamente perché.
Per la parte del prete, Waller-Bridge ha pensato ad un attore non famosissimo, con il quale aveva lavorato 10 anni prima, e il cui carisma inaudito le era rimasto sempre impresso: l’irlandese Andrew Scott. Reputatissimo attore teatrale (il suo Amleto un paio d’anni fa all’Almeida Theatre di Londra ha mandato i critici in visibilio), Scott ha iniziato ad avere un nutrito gruppo di fans soprattutto grazie alla sua interpretazione flamboyante del cattivissimo James Moriarty, la nemesi di Sherlock Holmes nella serie TV Sherlock con Benedict Cumberbatch. Il suo ‘Honey, you should see me in a crown!’ (Dolcezza, mi dovresti vedere con una corona in testa!), ha generato un numero di meme sconsiderati, ed un interesse spasmodico sull’ambiguità sessuale del suo personaggio (diciamo che l’attrazione di Sherlock per lui travarica un po’ il confine dell’eterosessualità). Nella vita reale, Scott è apertamente gay, attivo nel sostegno alla causa LGBT, ma si dichiara felicissimo di interpretare ruoli da etero, come quello che gli ha proposto Waller-Bridge (ha accettato la parte prima che lei scrivesse la sceneggiatura, fidandosi ciecamente del talento dell’amica).
Il risultato è sotto gli occhi di tutti: l’alchimia tra i due è semplicemente pazzesca e la hotness del prete a rischio infarto. Se pensate che sto esagerando, fidatevi della dichiarazione di un sito porno inglese: la ricerca di film con pratagonisti dei preti sul loro sito è aumentata del 125% dopo la messa in onda di Fleabag 2. E su Twitter, sotto il mitico #hotpriest, sono state dette per settimane le cose più irriverenti che si possano immaginare.

Il problema vero di quando si guarda Fleabag, in effetti, è il dopo.
Perché la serie lascia una sorta di vuoto cosmico che io prima di oggi ho sentito solo alla fine di Six Feet Under e Mad Men, vale a dire delle due esperienze di serie TV che più mi hanno marcato nella vita. Però attenzione, la differenza è abissale, perché quelle due serie avevano rispettivamente 5 e 7 stagioni, con 10-13 puntate a stagione di almeno un'ora ciascuna. Qui no. Il vuoto cosmico è sproporzionato alla durata della serie, ma tant'è.
La prima cosa, la più ovvia, è stata quella di mettersi a rivederne dei lunghi pezzi. Sì, ma poi? E' stato a  quel punto che, in preda alla disperazione, ho scritto uno status sulla mia pagina Facebook alla ricerca di orfani di Fleabag, tra l'altro nel momento peggiore, quello in cui la gente parlava senza sosta della fine di Game of Thrones. Alcune amiche, per fortuna, mi sono venute in soccorso. Noi, felici poche. Noi, manipolo di sorelle (no, dico, cito l'Enrico V di Shakespeare che se lo sapesse Andrew Scott sverrebbe!). E' stato grazie ad una di loro che ho scoperto che in questo periodo Scott era a teatro a Londra, in una pièce di Noël Coward: Present Laughter, all'Old Vic. Inutile dirvi che dopo circa due ore mi ero comprata un biglietto, e mi ero organizzata un week-end a Londra. 
Ma ancora non mi bastava. 
La vera svolta è stata la scoperta, su FB, di FLEABAG - THE OFFICIAL GROUP. 
Ed è lì che la mia vita è cambiata, perché ho scoperto di non essere sola.
Perché c'è sempre il momento semi-serio in cui ti chiedi: ma sarò pazza? Ed è così meraviglioso scoprire che, eventualmente, sei pazza insieme ad altre migliaia di persone sparse ovunque sul globo terracqueo (perché vi assicuro, una delle prime cose che ho letto era un post di questa ragazza che chiedeva: ma di dove siete, gente là fuori? e dalla Nuova Zelanda al Nuovo Messico, passando per Taiwan e l'Islanda, c'era tutto il mondo). Ed è così che da settimane il mio buon umore è assicurato da questo gruppetto assurdo di gente che passa il tempo a scrivere cose che io trovo assolutamente esilaranti. Qui citerò una serie di cose totalmente incomprensibili per chi non ha visto la serie, ma si tratta di gente che parla di guinea pigs, volpi, lattine di G&T, dove trovare portachiavi a forma di scultura di busto di donna, tote bags con la scritta: Hair is everything, Anthony (I capelli sono tutto, Anthony), gente che organizza Fleabags Quiz nei pub di Londra, che intavola conversazioni perché è "Chatty Wednesday", che pone delle domande tipo: Ma cosa fate nel caso in cui i vostri colleghi a cui avete consigliato di vedere la serie vi dicono che non l'hanno amata? E la risposta, inevitabile, è: Devi semplicemente cambiare lavoro, cara! O ancora: Mio marito non ama la serie. Sto preparando le carte per il divorzio! 
Poi ditemi voi se non è buon umore assicurato per il resto della giornata...
Quando sono andata a vedere Andrew Scott a teatro, l'ho aspettato più di un'ora al freddo e al vento insieme ad un folto gruppo di ragazze visibilmente più giovani di me. Abbiamo fatto una foto insieme e quando l'ho postata sulla pagina dell'official group, nel giro di 10 minuti avevo quasi 350 I Like. Potere dell'Hot Priest, e del culto che gli riserviamo. E io mi sono sentita finalmente compresa.
Mi chiedo spesso: come mai le persone amano così tanto questa seconda stagione?
Lasciando da parte le considerazioni ovvie, su quanto sia scritta e interpretata bene, sulla genialità della sceneggiatura, sulle battute meravigliose, penso che l'elemento che fa la differenza siano loro due. E' la loro storia d'amore. Molto banalmente, siamo tutti alla ricerca di qualcuno in grado di vederci per quello che siamo, al di là di ogni apparenza, di ogni sbaglio, di ogni difetto, dei casini che siamo capaci di generare, delle nostre meschinerie, delle piccolezze e delle nostre paure. E questi due si vedono, eccome se si vedono. 
Qualche volta mi chiedo anche: perché non posso vivere come fa tanta gente una vita normale, dove non c'è mai bisogno di andare al cinema, di vedere serie TV, di leggere dei libri? Vite che scorrono lungo i binari dei giorni, non per forza sempre uguali, ma ben ancorate alla realtà, al quotidiano, alle cose da fare, al cibo da cucinare. La risposta è che non lo so. Non lo so perché ho questo bisogno profondo di altro. Di uscire da me. Di adorare l'idea di vivere altre vite. Ma un paio di settimane fa ho visto il nuovo film di Woody Allen e ad un certo punto lui fa pronunciare una frase ad una delle protagoniste che a me è parsa fondamentale e che diceva più o meno così: La vita reale è per quelli che non sanno inventarsi niente di meglio.
Non ne sono sicurissima ma mi piace tantissimo pensarlo.
E se non sono riuscita a farvi venire voglia, dopo tutto questo sproloquio, di correre a vedere Fleabag, allora non sono servita proprio a niente.
E dunque mettetevi pure a guardare qualsiasi altra serie, fate come se niente fosse, io me ne torno dal mio nuovo gruppo di amici a sospirare sulla bellezza del collo di Andrew Scott, mentre parte in sottofondo un doveroso Kyrie Eleison.
Amen!

lunedì 18 settembre 2017

The Party

Ognuno si lascia guidare da certi criteri, nella scelta dei film da vedere.
Non so voi ma io personalmente quando leggo: film in bianco & nero, durata un’ora e dieci minuti, cast di 7 attori spettacolari, regista donna, mollo tutto e corro al cinema.
Il film di cui parlo è un piccolo gioiello che si intitola The Party, scritto e diretto dall’inglese Sally Potter (quella di Orlando e The Tango Lesson, per intenderci).
Per cui, mi sento di dare un piccolo suggerimento agli amici parigini: mollate i deliri (per quanto piuttosto entertaining) di Darren Arofonofsky con il suo Mother, di cui tutti parlano e scrivono in questo momento, e buttatevi su questa chicca imperdibile. 

 
Janet è appena stata nominata Ministro della Salute Pubblica Inglese.
Con il marito Bill decide di organizzare un piccolo ricevimento per festeggiare l’avvenimento a casa, insieme agli amici più cari: April, la sua migliore amica, con il compagno tedesco Gottfried, Martha, la miglior amica di suo marito Bill, con la giovane moglie Jinny, e infine Tom, un giovane banchiere della City, e sua moglie Marianne.
Nonostante le migliori intenzioni, il party non sarà quello che tutti si aspettavano: Tom arriva agitatissimo e senza la moglie, Jinny arriva con una bella notizia piuttosto sconvolgente e Bill ne annuncia una brutta, altrettanto devastante. 

Da lì in poi, la serata sarà tutta in salita, e con un finale a dir poco inatteso.
April (Patricia Clarkson) e Gottfried (Bruno Ganz)
Mi viene da pensare che gli inglesi abbiano un dono speciale per creare dei capolavori mettendo insieme un gruppo di attori eccezionali e una sceneggiatura cesellatissima con un ricevimento al centro.
Mentre guardavo The Party non potevo fare a meno di pensare ad un’altra famosa festa della cinematografia britannica: Abigail’s Party di Mike Leigh (un film da urlo di cui ho già scritto nel blog e che vi suggerisco di andare a recuperare se non avete avuto ancora il piacere di vederlo).
Chiusi tra le quattro mura (e un piccolo giardino) dell’appartamento di Janet e Bill, quasi scolpiti nel bellissimo bianco & nero della pellicola, i personaggi di The Party hanno poco tempo per rivelarsi ma lo fanno in maniera precisa e spettacolare. Bravissima Sally Potter, capace di 'dare' il tono del film nel giro di poche battute e velocissimi dialoghi: efficaci, ironici e pungenti.
Ce n’è veramente per tutti, in questo concentrato di umanità varia, e nessuno ne esce particolarmente bene: né gli intellettuali di sinistra, né le lesbiche politicamente impegnate, né i cultori della new age, né i finanzieri della City.

Janet (Kristin Scott Thomas)
Questo è comunque un film che deve tutta la sua meraviglia ad un gruppo di attori eccezionali.
Nel ruolo di Janet la sempre perfetta Kristin Scott Thomas, un’attrice ammirevole che ha saputo costruirsi una carriera tra Inghilterra e Francia (parla perfettamente il francese) e che a mio avviso meriterebbe riconoscimenti maggiori. In quello di April, la straordinaria attrice Americana Patricia Clarkson, qui particolarmente irresistibile nella parte della cinica ma sincera amica che passa il tempo a spazientirsi con il compagno “new age” interpretato da Bruno Ganz, altro attore incredibile sul quale mi pare ci sia ben poco da dire. La coppia lesbica è affidata all’attrice americana Cherry Jones (l’ho vista recitare a teatro a NY qualche anno fa e non me la sono più dimenticata), purtroppo poco presente al cinema e non si capisce proprio perché, e alla sempre deliziosa Emily Mortimer (rimasta nella memoria dei più come la ricca moglie tradita in Match Point di Woody Allen). 
Jinny (Emily Mortimer) e Martha (Cherry Jones)
E infine i miei preferiti: l’attore irlandese Cillian Murphy, del quale ho già ampliamente scritto nel blog e al quale auguro una carriera degna della sua bravura (gli appassionati di Peaky Blinders sanno di cosa sto parlando), e quello che svetta sopra di tutti, l'immenso Timothy Spall. Compagno di avventure di Mike Leigh, è stato spesso protagonista dei suoi film e grazie a lui ha vinto un premio come miglior attore al Festival di Cannes 2014 per la sua incarnazione del pittore Turner. Qui, dimagritissimo e quasi irriconoscibile, riesce ad essere incredibile senza quasi alzarsi dalla sedia e pronunciando tre frasi in tutto. 
Tom (Cillian Murphy)
Bill (Timothy Spall)
 Insomma io a questa festa, se fossi in voi, ci andrei di corsa.

lunedì 27 maggio 2013

In the Mood for Vengeance

Sometimes, I get interested in a film-maker through an actor.
It has been the case for Nicolas Winding Refn, who I discovered thanks to my passion for Mads Mikkelsen. Besides the Pusher trilogy, the two made together a very strange film called Valhalla Rising
. On paper, Winding Refn doesn’t have much to please me. His cinema is famous for being extremely violent and I’m famous for being extremely irritated by violence on screen. But, as it is often the case in this life, sometimes we like things we are not supposed or we don’t expect to like. 
Nicolas Winding Refn and Mads Mikkelsen on the set of Valhalla Rising
I guess his cinema attracts me because it’s made of opposites: his movies are almost silent or too filled with words, the main characters are real heroes or complete losers and the most romantic scenes can be immediately followed by the most violent ones (Drive's elevator scene docet). Violence in Winding Refn movies is never cold, though. This is why I think it’s bearable. It is always driven by emotions, it’s coming from the evident flaws of human beings, and very often it’s perpetrated on awful kind of people to get justice (well, ok, I admit it: it’s a very primitive kind of justice). 
Also, I have to confess I really enjoy Winding Refn’s interviews: he is always very funny, interesting, confused, and completely crazy. Apparently, he is teetotal, colour blind and dyslexic. As a bonus, his father is the editor of Breaking the Waves by Lars Von Trier.  There are enough elements to become a fan, as far as I’m concerned. 
Nicolas Winding Refn
Winding Refn became a mainstream film-maker just a couple of years ago via the movie Drive, where Ryan Gosling found his consecration as an actor. Having particularly liked to work together, the two decided to team up for another movie, which has been selected for the competition at this year’s Cannes Film Festival: Only God Forgives. Since Drive became kind of an iconic movie, many were waiting for their new collaboration. I have the feeling, from what I wrote in many critics these days, that people have been disappointed by it, but I didn’t. 
Nicolas Winding Refn and Ryan Gosling on the set of Only God Forgives
In fact, the thing I liked about Only God Forgives, is that it is the absolute anti-Drive
So, if you want to see Drive 2, well, forget about it. While the guy played by Gosling in Drive was a powerful one, in this one he’s powerless and sexually impotent (as it was the case for Mikkelsen in Pusher 2). Julian is supposed to run a drug dealing business (the movie is set in Bangkok) but he isn’t tough enough. He is subjugated by his eldest brother and, when this one is massacred for having raped and killed a 16 years old girl, Julian is not able to take care of his vengeance, as his (lovely!) mother asks him to. And last, but not least, he also has an enormous Oedipus complex: the guy is a complete disaster, I assure you. 
The only thing the driver and Julian has in common, is that they are not very talkative kind of guys. I read that Gosling and Winding Refn are dreaming of making a silent movie together, one day, and I hope that day will be soon.
Ryan Gosling as Julian
And while in Drive the music was a super important element of the movie, with a bunch of songs that stayed in the collective imagination, in Only God Forgives the music is obscure, obsessive, and the only hits are the pathetic, melodic Thai songs performed in karaoke restaurants by the real hero of the story: Chang. This man is a retired policeman, a wizard of the sword, a silent guru and a merciless avenger, whose presence (real and unreal) will haunt Julian for the whole movie. 
Vithaya Pansringarm as Chang
The other star of the movie is my favourite character: Crystal, probably the most awful mother on screen ever, played in an exceptional way by a very intelligent actress, Kristin Scott-Thomas. Usually hired to embody sophisticated, ultra-bourgeois, complex women, Winding Refn had the brilliant idea to transform her in a monstrous creature, a modern Medea dressed in Versace (the resemblance with Donatella Versace is actually pretty scary), a real bitch, able to waste his son’s life in the space of a couple of sentences (the dinner scene is absolutely to die for). 
Kristin Scott-Thomas as Crystal
The movie builds up very slowly, obliging the audience to hold back the rhythm, to quit defences, and be ready to enter into the story and into this dark, gloomy, ultra-violent world. You can take it or you can leave it, but if you are patient enough, you'll be rewarded by many unforgettable scenes (oh, the Thai child in the weelchair!).
Filmed in a spectacular way, Winding Refn confirmed his talent for an astonishing mise-en-scène, somewhere between Scorsese and Lynch with a twist (in this Far-East location) of Wong Kar-Wai. 
But if the Hong-Kong film-maker was in the mood for love, it is clear that the Danish one is more in the mood for vengeance. 
Si salvi chi può!

mercoledì 23 settembre 2009

C'est la Rentrée! - 1° Film

Quando si vive a Parigi, non si può assolutamente sfuggire al favoloso concetto di “Rentrée”.
La rentrée ufficiale sarebbe quella scolastica, ma la verità è che a partire dal 1° di Settembre la definizione si espande e si applica a tutto lo scibile umano, aree culturali incluse. Quindi ci si può godere con gioia sia la rentrée litéraire che quella cinématographique.
Tornata dalle ferie, ho capito che se volevo stare alla pari con tutti i film interessanti in uscita, avrei praticamente dovuto chiedere subito altre ferie. Intendiamoci, non che non lo abbia già fatto. Nell’estate 2008 mi sono presa una settimana di vacanza per seguire l’integrale Kaurismaki al cinema Reflét Medicis, ma era luglio, e le ferie ancora le dovevo fare. Insomma, a Settembre la cosa è più difficoltosa. Comunque, armata di buona volontà e della mia mitica tessera (LE PASS) che per la modica cifra di Euro 19,80 al mese udite udite signore e signori mi permette di entrare tutte le volte che voglio in tutti i cinema della catena Pathé-Gaumont e in un gruppo di sale indipendenti della città di Parigi, ho “attaccato” la famosa rentrée.
Eccovi, a puntate, il risultato del mio duro lavoro (cosa non si fa per un blog):

Partir di Catherine Corsini

Avevo intravisto prima delle vacanze alcune immagini di questo film, che mi ispirava parecchio per i seguenti motivi:
1 - si trattava chiaramente di un mélo, genere cinematografico da me molto amato
2 - l’accoppiata degli attori principali (da un lato l’inglese très rangée Kristin Scott Thomas e dall’altro lo spagnolo depardieunesco Sergi López) mi pareva alquanto improbabile ma altrettanto interessante
Onde per cui sono andata al cinema fiduciosa e incuriosita, e le aspettative non sono state disattese. Anzi, a dire il vero, ho avuto anche una piacevole sorpresa. Io e la regista Catherine Corsini (ho dato un’occhiata alla sua filmografia e mi sono resa conto di conoscere un paio di titoli ma di non aver mai visto nessuno dei suoi lavori precedenti), abbiamo in comune il nostro regista preferito. Che di nome fa François e di cognome Truffaut. Se posso proprio dirla tutta, questo film è un frullato di tre film di Truffaut: in primis La femme d’à côté (La Signora della Porta Accanto), a seguire La Sirène du Mississipi (La mia droga si chiama Julie – poi uno di questi giorni faccio un post su quello stronzo o più stronzi che negli anni ‘70 in Italia hanno MASSACRATO i titoli originali dei film di Truffaut) e infine La Peau Douce (La calda amante – e anche in questo caso NON faccio commenti che è meglio).
L’omaggio è cosi poco velato che la Corsini arriva addirittura ad usare le musiche di questi film. Cosi, tanto per non lasciare dei dubbi a nessuno. Infine (ma questa è veramente un po’ ai confini della realtà), nella parte del padre di Yvan Attal, che nel film è il marito della Scott Thomas, compare (una sola scena) l’attore francese Philippe Laudenbach, uno degli interpreti principali di Vivement Dimanche (Finalmente Domenica) di Truffaut. Inutile specificare che lo abbiamo riconosciuto soltanto io e sua moglie.
Allora, la trama: una signora borghese del sud della Francia, sposata e con figli adolescenti, casa moderna e asettica progettata da qualche architetto alla Mies Van Der Rohe de noantri, sente che la sua vita è un po’ vuota e vuole riprendere a lavorare. A mettere a posto il locale dove pensa di aprire uno studio da fisioterapista, viene chiamato un operaio spagnolo. Una serie di circostanze li fa avvicinare e poi innamorare follemente, al punto che la signora decide di mollare tutto e tutti per stare con lui. Il marito, ça va sans dire, non la prende benissimo. Non aggiungo altro, perché non voglio rovinarvi la visione, ma trovo che questo film funzioni soprattutto grazie agli attori.
La Scott Thomas, che da anni vive a Parigi e sfoggia un francese perfetto, si è finalmente lasciata alle spalle quei ruoli da britannica fredda e con la puzza sotto il naso con i quali all’inizio ha costruito la sua carriera (anche se ogni tanto ci ricasca, vedi il recente Easy Virtue di Stephan Elliott.) E’ un’attrice bravissima, capace di essere credibile e straziante nella parte della donna pronta a tutto pur di stare con l’uomo che ama. E a proposito di carriera, se c’è un attore che ha saputo costruirne una di tutto rispetto è proprio Sergi López. Coraggioso e versatile, erede naturale di Dépardieu (anche nel fisico), ha saputo fare di tutto: francamente stronzo in Dirty Pretty Things di Stephen Frears (un film che è un gioiellino), ambiguo e pauroso in Harry, un ami qui vous veut du bien di Dominik Moll, cieco e carismatico in Peindre ou faire l’amour dei fratelli Larrieu, tenero ed erotico insieme in Une Liaison Pornographique di Frédéric Fonteyne. Insomma, avercene, di attori così. Da anni non vedevo un mélo di questo tipo, un vero classico, dove la gente fa follie per la persona che ama e va fino in fondo, senza paura, senza compromessi o ripensamenti.
E mi sono resa conto con malinconia che faccio molta più fatica a crederci, oggi. Sono felice, però, che la Corsini ci ricordi che storie così ancora esistono.
Almeno al cinema.

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