martedì 15 settembre 2015

LIFE

In questi ultimi anni, i cosiddetti “biopic” si sono sprecati.
Dalla Regina d’Inghilterra a Nelson Mandela, moltissimi dei personaggi che hanno fatto la storia hanno avuto diritto ad una loro rappresentazione più o meno degna sul grande schermo.
In realtà, devo ammettere di non essere una grande appassionata del genere.
Per i miei gusti, questi film sono spesso troppo agiografici, didascalici, prevedibili, e più la figura è moralmente “alta”, più mi pare che la qualità del film tiri verso il basso.
Poi, però, ci sono le eccezioni. Perché è possibile parlare di un personaggio realmente esistito senza farlo apparire una macchietta, o privo di sfumature, o un eroe preso dal sacro furore dell'arte o di una buona causa qualsiasi.
Ultimamente, ad esempio, mi è capitato di vedere Love & Mercy di Bill Pohlad, il film su Brian Wilson, il cantante dei Beach Boys, che è un esempio molto interessante di biopic.
Se ve lo siete perso, vale proprio la pena di recuperarlo:

E poi, l’altra sera, ho visto Life di Anton Corbijn, e allora ho capito che si possono fare ottime cose, nel campo delle biografie.
Del resto Corbijn non è nuovo all'impresa: già nel 2007, con il film Control, biografia di Ian Curtis, il cantante dei Joy Division suicidatosi a soli 24 anni, aveva dimostrato di avere un gran talento per raccontare storie vere e tormentate. Il regista, fotografo di formazione, è al suo quarto lungometraggio, e si è fatto le ossa dirigendo video e film dedicati ad un alcuni importantissimi gruppi come gli U2 e i Depeche Mode. In Life, ha l'ardire di portare sullo schermo una figura mitica, quella dell'attore americano James Dean (del quale, il 30 Settembre, ricorrerà il 60° anniversario della morte).

James Dean fotografato da Dennis Stock nella sua camera di NY - 1955
La prima cosa originale del film, è il punto di vista che Corbijn adotta, e che non è - come si potrebbe pensare - quello di Dean, bensì del vero protagonista della storia: il fotografo Dennis Stock. Stock nel ‘55 è un fotografo di belle speranze, con velleità d’artista ma costretto a scattare foto alle star di Hollywood sui red carpet o alle feste dei produttori.
E’ proprio ad una di queste feste che incontra per caso James Dean, allora quasi sconosciuto. Un semplice attore che, notato in teatro a NY, è stato chiamato a LA per partecipare a Est of Eden di Elia Kazan. Quando i due uomini si incontrano, il film ancora non è uscito, e Dean è solo un nome che in pochi conoscono. Stock, tuttavia, “sente” che quel ragazzo sta per diventare famoso, e propone a Life, il magazine per cui lavora, un servizio fotografico con lui. Sarà difficile convincere sia il giornale che James Dean, ma alla fine la cosa andrà in porto. E dopo qualche scatto a NY, tra cui quello celeberrimo di Dean sotto la pioggia a Times Square, i due partono per l’Indiana, nella fattoria in cui Dean è cresciuto. Al loro ritorno in città, esce il film di Kazan e Dean scopre di essere stato scelto per Rebel without a Cause di Nicholas Ray, che lo consacra a simbolo di tutta una nuova generazione. 

Sei mesi dopo, morirà in un incidente stradale. E il resto - come si dice in questi casi - è storia.
James Dean (Dane Dehaan) e Dennis Stock (Robert Pattinson)
Quello che mi è sempre piaciuto dei film di Corbijn è che hanno tutti una vena malinconica fortissima, una specie di patina di tristezza che li avvolge, li smorza, li contiene, e li rende anche speciali. 
I protagonisti dei suoi film sono tutti essere umani un po’ disperati. Uomini che vivono uno scarto pesante rispetto alla realtà, che stanno un po’ ai margini della società, uomini ultra-sensibili che possono essere facilmente  feriti dagli altri e dal mondo. Era vero per Ian Curtis ma anche per il personaggio di George Clooney in The American (2010) e per quello di Philip Seymour Hoffman (nella sua dolentissima ultima interpretazione) in A most wanted man (2014):
Dennis Stock e James Dean non fanno eccezione, in questa galleria di uomini sull’orlo di una crisi di disperazione. Ed è proprio qui che sta la magia del film. Nessuno dei due è messo bene: Stock deve fare i conti con un matrimonio fallito, un pessimo rapporto con il figlio piccolo, una carriera che non decolla, un costante problema di soldi, Dean con un passato familiare doloroso, una carriera incerta, la sua incapacità di vivere secondo i dettami di Holywood (party, prime dei film, interviste “finte”, e tutto il politically correct del caso), un rapporto d’amore sacrificato al successo e, forse, la sua stessa vera sessualità.
Corbijn riesce a fare in modo che a parlare siano più i dubbi che le certezze, il dolore più che la felicità, gli uomini più che i personaggi famosi, ed è così che riesce a fare un vero film, non un semplice biopic.

Dean by Dean
Dean by Dehaan
Ma è nel cast, il tocco di genio di Corbijn.
Anziché affidare, come tutti si aspetterebbero, il ruolo del bello e dannato ad un attore famoso, pure lui un po’ bello e dannato versione 3.0 come Robert Pattinson (che, sia detto per inciso, in questi anni sta dimostrando quanto sia bravo e si sta costruendo una carriera di tutto rispetto, alla faccia di quelli che sono rimasti fermi a Twilight), che fa?
Fa fare a lui il fotografo in cerca di gloria e affida il ruolo di Dean ad un attore semi-sconosciuto ma dal talento portentoso (chiunque lo abbia visto nella stagione 3 di In Treatment sa di cosa parlo): Dane Dehaan.

James Dean (Dane Dehaan)
Il Dean di Dehaan (sì, suona buffo, lo ammetto) è un magnifico esempio di recitazione sotto le righe. 
E’ tutto uno stare in bilico, tutto un tormento interiore, e Dehaan sa esattamente fin dove può spingersi (come nella magistrale scena della cena sul treno).
E c’è una strana corrispondenza tra il momento che viveva Dean e quello che sta vivendo Dehaan. 

Alle soglie del successo entrambi. 
Speriamo solo che il secondo non ami andare troppo forte in macchina.

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