Perché Kaurismäki fa parte di quel piccolo gruppo di registi che per me significano una cosa sola: essere di nuovo a casa.
E può essere la Spagna di Almodovar, l’Inghilterra di Mike Leigh, la New York di Woody Allen o la Finlandia di Aki, ma è sempre bello ritrovare questi luoghi a noi così familiari: un vero mondo parallelo che esiste nella nostra testa grazie al regista che l’ha creato.
All'ultimo Festival di Berlino, il regista ha presentato Toivon Tuolla Puolen (The other side of hope), film per il quale ha vinto l'Orso d'Argento come miglior regista (ma in molti, lui compreso, speravano vincesse l'Orso d'Oro).
Comunque, in ogni caso: Welcome back to Kaurismäki Land!
Il regista finlandese Aki Kaurismäki |
Non conosce nessuno e non sa una parola di finlandese.
Una volta chiesto asilo politico alla Finlandia, aspetta una risposta in uno dei centri di accoglienza della città, e stringe amicizia con un profugo iracheno, Mazdak. Alla notizia del rifiuto della sua domanda, prima che i poliziotti vengano a prenderlo per rimpatriarlo, Khaled si dà alla fuga, e finisce a dormire vicino ai cassonetti della spazzatura di un ristorante, gestito da Wilkström. Quest’ultimo gli propone di lavorare per lui e Khaled entra a far parte con piacere del bizzarro gruppo di lavoratori: un cuoco, una cameriera e un improbabile portiere. Un giorno, Khaled riceve finalmente buone notizie della sorella, fuggita con lui da Aleppo e dalla quale era stato separato lungo il tragitto: sta bene e sta per arrivare anche lei a Helsinki.
E’ già la seconda volta che Kaurismäki affronta il problema dei profughi in Europa.
Aveva fatto la stessa cosa nel suo penultimo film, Le Havre, dove a scappare era un ragazzino africano che si rifugiava in Francia.
E, come nel precedente film, riesce a parlare di un tema da cui molti registi stanno alla larga in maniera semplicissima ed efficace. A Kaurismäki, in generale, bastano pochissime parole per illuminare un’intera vita, un intero mondo. Fa parte della sua forza come regista.
In The other side of hope, il racconto scarno e preciso di Khaled alla funzionaria finlandese che si occupa del suo caso, basta ad evocare gli orrori della guerra senza ricorrere a grandi scene o a grandi performances di attori. Nei fim di Kaurisimaki, è già tanto se gli attori muovono la testa, quando parlano. Di solito si limitano a lanciare sguardi che possono significare varie cose a seconda dell’oggetto o della persona a cui sono rivolti. Aki è fatto così: ha un’economia di gesti e parole inversamente proporzionale al grado di umanità che riesce a infondere alle sue immagini.
Le facce sono sempre quelle: il padrone del ristorante, il cuoco, e varie figure di contorno, sono tutti attori/attrici che hanno già lavorato nei suoi film. Laika (il cane del regista), presente in ogni sua pellicola, deve averci lasciati, ma niente paura: un nuovo cagnetto adorabile ne ha preso il posto.
Tutto: macchine, case, oggetti, insegne, vestiti, sembrano provenire da un periodo che va dal 1955 al 1965 al massimo. Non esiste segno di modernità, nei film di Kaurismäki. Incredibilmente, in questo la gente usa i cellulari. Credo sia la prima volta che non si fa uso di vecchi apparecchi appesi alle pareti e con i numeri a disco.
La cattiveria e la bontà sono trattate alle stesso modo, come se il regista volesse dirci che noi esseri umani siamo fatti così: capaci di dare il meglio o il peggio a seconda delle circostanze. E poco conta la razza, la religione o la lingua.
C’è posto per tutto e per tutti, nel mondo di Kaurismäki, e ci sono sempre le cose che ama: i tanghi finlandesi, il rock’n’roll americano suonato da qualche cantante improbabile, il Giappone (il sushi con l'aringa affumicata è da urlo!), le bottiglie di porto, e il mitico humor finlandese (mi sono innamorata della Finlandia, ma se conosci un sistema per fuggire da qua, fammelo sapere!).
Girato su pellicola in 35 mm, benedetto dai rossi e dai blu accesi della magnifica fotografia di Timo Salminen, The other side of hope, è l'ennesimo piccolo capolavoro di quel pazzo scatenato di Kaursimäki (narra la leggenda che al Festival di Cannes 2002, passando davanti a David Lynch, presidente di giuria, che gli aveva appena assegnato il Grand Prix per "L'uomo senza passato", Kaurismäki lo abbia guardato fisso e gli abbia chiesto: Who are you?).
Finché c'è Kaurismäki, c'è speranza.
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