sabato 30 novembre 2013

Il sesto senso (cinematografico)

Ho visto, nella mia vita, tantissimi film. Davvero, davvero tanti. 
E tuttavia non ho mai smesso, neanche per un micro-secondo, di aver voglia di andare al cinema. 
L'idea di uscire di casa per andare a vedere un film, di vederne anche due o tre alla settimana, non mi annoia mai. Ma proprio mai.
Detto questo, ho sviluppato negli anni una specie di sesto senso cinematografico, grazie al quale intuisco piuttosto rapidamente cosa mi piacerà e cosa no. E ci azzecco quasi sempre.
Negli ultimi tempi, ad esempio, il mio sesto senso nutre una certa allergia nei confronti di film profondamente inutili. Ce ne sono alcuni che già in partenza sembrano tali, è vero, e qualche volta li si va comunque a vedere: per curiosità, per poterne discutere con gli altri, per desiderio di svuotare la testa. Ma questa è un'altra cosa.
Qui sto parlando di film fatti da registi che reputo bravi e importanti, gente che stimo, che amo, che seguo, e che sulla carta dovrebbero essere tutt'altro che irrilevanti. Eppure, purtroppo capita che mentre si è seduti al cinema si pensi: ma perché mai questo regista ha fatto questo film? ma perché mai ha speso tanti soldi e tanta energia per produrre una cosa così?
Il problema è che più vado avanti e più rapida sono a capire che un film non mi piacerà per niente. A volte lo capisco senza neanche andarlo a vedere, che lo so che non si dovrebbe fare, però vi giuro che ci azzecco la maggior parte delle volte.
Ad esempio: non mi è venuta nessuna voglia, all'epoca della sua uscita, di andare a vedere The Great Gatsby di Baz Luhrmann. Non c'era un singolo aspetto dell'opera che mi ispirasse. Tutti ne parlavano, tutti si precipitavano a vederlo, ma io niente, non ce la facevo. Era più forte di me.
La settimana scorsa ero in aereo, per un viaggio piuttosto lungo, e ho visto che nella scelta di film disponibili c'era anche questo. Ho pensato: vabbé, me lo guardo. Ecco, credo di aver resistito 20 minuti al massimo. E no, vi prego, non mi venite a dire che è perché l'ho visto su uno schermo piccolino e che non rendeva l'idea. Qui non c'era nessuna idea, da rendere. Non ho resistito perché questo film è ridicolo, stupido e superficiale. Immerso in una ricerca vuota e costante di uno sfarzo grottesco e uno sforzo di dettagli che rende stanchi e storditi ma non coinvolge e non ammalia PER NIENTE. Neanche se fosse stato in 5D sarebbe riuscito ad azzeccare un passaggio, un tono giusto. Un sopra le righe e un'infilata di déjà-vu che nemmeno in una soap-opera di quarta categoria. La voce off del narratore, abbiate pietà! Gli attori, poi, al di là del bene e del male. Carey Mulligan nella sua parte peggiore, già non la sopporto, ma qui avrei voluto che ci fosse Dexter nei dintorni per mettere fine alle nostre sofferenze, Tobey Maguire nell'eterna parte del ragazzino innocente (ormai c'ha cent'anni pure lui) con quell'espressione un po' ebete che no, caro, non significa che la vita ti sta sorprendendo, ma solo che ancora una volta non hai capito niente di quello che ti sta succedendo e se tanto mi dà tanto non lo capirai mai. E infine lui, quell'ingenuo di Leonardio Di Caprio, un attore bravissimo che però ha il grande difetto di essere alla ricerca spasmodica del "ruolo della vita", quello che gli farà vincere l'Oscar, quello che farà da spartiacque nella sua carriera, quello che farà dimenticare al mondo che lui è quello di Titanic. E ovviamente non ce la fa. E di certo non ce la farà con questo film idiota. Quanto al regista, che ai tempi di Strictly Ballroom, Romeo+Juliet e Moulin Rouge sembrava un tipo interessante, direi che dopo questo e quel mattone invedibile di Australia, ci ha fatto capire che forse non era mai stato così bravo e noi ci siamo illusi...
E a proposito di polpettoni, questa settimana ho avuto una delle delusioni cinematografiche più cocenti degli ultimi anni. Vi dirò, sempre in base a quel famoso sesto senso, io l'avevo già un po' capito, e il fatto che all'ultimo Festival di Cannes lo avessero ignorato non mi faceva certo ben sperare (ma non del tutto, che certe volte le giurie prendono degli svarioni che levatevi!), però il nuovo film di James Gray, The Immigrant, mi ispirava davvero poco. E infatti... 
Un film di tutto rispetto, per carità, ben fatto, ben recitato, ma di una inutilità sconvolgente. La trama è così banale e prevedibile, così fintamente drammatica, che davvero non lascia scampo. E' un film che non ti fa sentire niente, che ti lascia ai limiti dell'indifferenza, dell'apatia. Non so come Gray abbia potuto fare un simile, clamoroso errore. Se penso a quel piccolo capolavoro di Two Lovers, ho un momento di grande sconforto. E il peggio è che si capisce che lui "ci credeva davvero", che pensava sul serio di stare facendo un filmone bellissimo. E invece stava solo facendo un film per la TV, ma uno di quelli scarsi, mica una serie TV di quelle di oggi fantastiche e meravigliose, no, no, proprio quei filmetti banali con la musica che sottolinea ad ogni pié sospinto la drammaticità della scena (troppe! e quante ce ne sono di scene drammatiche? 50?)... Niente, un disastro completo. Anche se in questo caso sono convinta che sia uno svarione momentaneo, un errore di percorso, e che al prossimo si rifà e ci regala un'altra bella cosa. Vero, James?
James Gray sul set del film
A controbilanciare queste delusioni, però, ecco che arriva lui. Un film di cui sentivo parlare da mesi. Al punto che negli ultimi tempi la cosa aveva iniziato a darmi fastidio, soprattutto pensando alle polemiche che hanno accompagnato la sua uscita qui in Francia, con le attrici ed il regista che si davano addosso, e con le interviste al regista che proprio non mi piacevano, che anzi me lo facevano considerare antipatico e saccente, con arie da Jean-Luc Godard de noantri poveri. Insomma tutto questo per dire che quasi sono entrata al cinema pensando, vabbé, ma che sarà mai, mica sarà tutta 'sta cosa, questo film, magari è solo tanto rumore per nulla. E invece eccomi lì, seduta da sola al Ciné Studio 28, il fim è iniziato da 10 minuti ma io già comincio a rilassarmi e a godermi tutto perché il mio sesto senso cinematografico è come impazzito, è come se avessi nella testa una bacchetta da rabdomante che segnala che siamo vicinissimi a trovare l'oro. E infatti l'abbiamo trovato, l'oro (pure la Palma D'Oro!), si chiama La Vie d'Adèle - Chapitres 1 & 2, di Abdellatif Kechiche
Tre ore di film per raccontare la vita di una ragazza di 17 anni (meravigliosa attrice, Adèle Exarchopoulos!). Per entrare nella sua testa, nel suo corpo, nei suoi pensieri, nella sua felicità, nei suoi dolori. E persino nella banalità di tutti i giorni. Niente 3D, qui, e nemmeno inquadrature mirabolanti da mal di testa istantaneo. No, qui c'è una camera che sta attaccata al volto di Adèle, al suo corpo, come se le stesse facendo un elettrocardiogramma e non si potesse perdere nemmeno un battito, nemmeno un soffio. 
Adèle (Adèle Exarchopoulos) e Emma (Léa Seydoux)
Qui c'è carne e sangue, ci sono parole, situazioni, giorni, amore, desiderio, sofferenza, spensieratezza, feste, porte che sbattono, sesso che va avanti quanto deve andare. C'è una vita più vera del vero. C'è il racconto di una giovinezza che parla a chi quell'età ce l'ha adesso e a chi quell'età non se la ricorda più, ma se la ricorderà vedendo questo film dal messaggio assolutamente universale, perché "... così continuiamo a remare, barche contro corrente, risospinti senza posa nel passato". 
The Great Gatsby (quello vero, però...)



sabato 16 novembre 2013

Una Blogger Italiana a Parigi... e Tokyo!

A grande richiesta, ecco il testo integrale (+ immagini) della piccola conferenza che ho tenuto lunedì 28 Ottobre all'Istituto Italiano di Cultura di Tokyo (ancora grazie all'Istituto, al suo direttore Giorgio Amitrano e a tutti quelli che sono venuti a sentirmi!):

UNA BLOGGER ITALIANA A PARIGI
 
Breve introduzione fatta in Giapponese (che coraggio, eh!):
Buonasera,
Mi chiamo Francesca, ma tutti mi chiamano Zazie.
Mi dispiace di non poter tenere questa piccola conferenza in Giapponese, anche se amo moltissimo la vostra lingua e l’ho studiata quando ero giovane.
Grazie della comprensione!


Vorrei cominciare dall’inizio, a raccontare questa storia, dal mio primo ricordo cinematografico.
Sono nata e cresciuta in un piccolo paese in provincia di Milano, dove esistevano solo due cinema, quello parrocchiale e quello dove non si poteva andare, perché considerato scandaloso. E non perché ci proiettassero film vietati ai minori, ma semplicemente perché si proiettavano film di tutti i tipi, e non solo quelli considerati moralmente irreprensibili.
Purtroppo la mia famiglia era molto per bene, e quindi io potevo frequentare solo il cinema parrocchiale. Dovevo avere sì e no cinque anni quando i miei genitori mi hanno portato a vedere Little Women (Piccole Donne), il film del 1949 di Mervyn LeRoy.

E’ stata come una folgorazione. Già così piccola, avevo voglia di scappare lontano, e mi affascinavano mondi e lingue sconosciute, e l’idea di poter vedere sul grande schermo una storia che non aveva nulla a che vedere con la mia vita e quello che mi circondava, mi sembrava una cosa straordinaria.
Di quella prima visione, ricordo soprattutto di quanto mi stesse antipatica la piccola Elizabeth Taylor nel ruolo di Amy e di quanto amassi (un classico di tutte le bambine) June Allyson in quello di Jo.

Amy (Elizabeth Taylor) and Jo (June Allyson)
Per quella bambina che voleva scappare, crescendo, le cose non sono cambiate. Anzi, più diventavo grande e più voglia avevo di scoprire mondi esotici e lontani, e il cinema mi veniva sempre in aiuto.
Ovviamente, grazie al fatto di essere diventata grande, potevo frequentare tutti i cinema che volevo, soprattutto quelli d’arte e d’essai, di Milano. Ed è stato in un cinema di Milano che ho visto per la prima volta un film francese intitolato Hiroshima Mon Amour, di Alain Resnais, del 1959. Quelle immagini in bianco e nero, la storia d’amore tra un’attrice francese e un architetto giapponese, la città un tempo devastata dalla bomba atomica che ora faceva da sfondo ad un momento felice, pur intriso di ricordi legati alla guerra, mi hanno segnato per sempre. A poco a poco, ho iniziato ad interessarmi al vostro paese, alla sua cultura, alla sua letteratura, al suo cinema, alla sua storia, fino a decidere di studiare la vostra lingua. In un certo senso, se oggi mi trovo qui a fare questa piccola conferenza davanti a voi, lo devo proprio a questo magnifico film. 

Lei (Emmanuelle Riva) e Lui (Eiji Okada)
Con il passare degli anni, la mia passione per il cinema non solo non è diminuita, ma - se possibile - è addirittura aumentata. E mi sono resa conto di una cosa, che la gioia più grande per me era quella di raccontare e far scoprire a chi mi circondava i film che amavo.
Per questa ragione, più o meno quando avevo 30 anni, ho deciso di creare un piccolo cineclub. Domestico, per così dire, perché la sua sede era proprio il mio appartamento. All’epoca, vivevo in una città di mare del nord Italia, Genova, e non avevo certo una grande casa. E neppure un grande schermo, se per questo. Anzi, lo schermo della mia TV era piccolissimo. Eppure, per più di cinque anni, una volta al mese, un gruppo di amici si è ritrovato nel mio cineclub a vedere film a dir poco bizzarri. Prima della proiezione io facevo una breve presentazione della pellicola, e dopo il film seguiva un dibattito (a volte molto acceso). Negli anni, ho proiettato davvero di tutto: film francesi di 3 ore e 40 minuti, film italiani sconosciuti e dimenticati degli anni ‘50, film del Free Cinema inglese degli anni ‘60, e un anno, addirittura, tutta la prima stagione di una serie TV che mi faceva impazzire: Six Feet Under di Alan Ball.

I miei amici, con mia grande sorpresa, guardavano tutto senza battere ciglio.
Anzi, più il film era strano e difficile, più loro sembravano apprezzarlo.
L’idea del cineclub è stata una delle migliori idee che io abbia mai avuto, e mi ha definitivamente convinto di quanto fosse importante, per me, condividere con gli altri il mio amore per il cinema.
Al momento di sceglierne il nome, ho pensato ad un personaggio cinematografico (e prima ancora letterario) per il quale ho sempre provato una grande simpatia, quello della piccola Zazie di Zazie dans le métro. La pestifera ragazzina di campagna dai capelli corti e l’aria insolente che, arrivata a Parigi a trovare lo zio, sogna di fare un giro in metropolitana ma non ci riesce mai. Nata dalla penna di Raymond Queneau, Zazie e le sue avventure parigine sono state portate sullo schermo dal regista Louis Malle nel 1960. Un film un po’ surreale, pieno di vita e di colori, un’esplosione di gioia ed allegria a cui è difficile resistere. 

Dato che facevo le cose, anche se domestiche, in maniera molto seria, il mio Cinéclub de Zazie si preoccupava di mandare inviti ufficiali per le proiezioni.
Eccone alcuni esempi, che ho pensato potrebbero piacervi, e che vi possono dare un’idea dei film che programmavo: 

L’attività del Cinéclub de Zazie è terminata nel momento in cui ho lasciato l’Italia per andare a vivere all’estero, e, neanche a farlo apposta, proprio nella città di Zazie: Parigi. 
Lo ammetto: avevo sempre sognato di andare a vivere lì.
Per una persona che adora i film, Parigi è come per Pinocchio il Paese dei Balocchi. Ci sono più sale cinematografiche per metro quadro che in qualsiasi altro luogo del mondo, e si può vedere ogni tipo di film: prime visioni, vecchie pellicole, rassegne di ogni sorta, retrospettive complete di autori francesi e stranieri, incontri con i registi, insomma, Parigi è uno scrigno dai tesori infiniti. Posso dire con franchezza che i primi anni, e a volte ancora oggi, ho sofferto di una specie di stress da troppo cinema, ovvero: la scelta è talmente ampia che si fa fatica a stare dietro a tutto, ad approfittare di ogni occasione che la città offre.
Nell’entusiasmo dei miei primi tempi a Parigi, ho un po’ dimenticato l’attività di divulgazione che mi stava tanto a cuore: troppi film da vedere per trovare il tempo di fermarsi e ricreare uno spazio-cineclub, senza contare che la taglia di una città come Parigi non è certo la stessa di Genova. Gli spostamenti diventano più complicati, la vita delle persone ha ritmi più frenetici, e la scelta di visioni a disposizione è tale che certo non si sente la mancanza di una nuova sala. Peccato, però, perché mai come in quel momento avrei avuto così tante cose da raccontare e così tanti entusiasmi da condividere.
Un giorno che mi stavo lamentando di questa situazione con mio fratello, lui mi ha suggerito l’idea di scrivere un blog, uno spazio virtuale in cui annotare tutto il cinema che Parigi mi offriva. Detto fatto, il 21 Settembre 2009, ho scritto e messo in linea il mio primo post:

http://leblogdezazie.blogspot.fr/2009/09/intro_21.html
Quando mi sono messa a pensare ad un nome per il blog, mi è venuto spontaneo recuperare l’esperienza genovese e dedicarlo ancora una volta al personaggio di Zazie. E’ così che è nato Le Blog de Zazie, il cui sottotitolo, in francese, recita: Chroniques cinéphiles d’une Italienne à Paris (cronache cinefile di un’Italiana a Parigi). 
Dovendo scegliere, oltre che un nome, un’immagine con cui aprire la mia pagina, ho avuto l’idea di utilizzare un’illustrazione che un amico artista (il québecois Pascal Blanchet) aveva fatto qualche tempo prima. Pur non conoscendomi di persona, ma soltanto attraverso Facebook, Pascal un giorno aveva fatto un mio ritratto che aveva concepito – secondo le sue stesse parole - come un poster cinematografico. Ovviamente la cosa mi aveva reso particolarmente felice, e quando gli ho chiesto se potevo utilizzarla per il blog e lui mi ha dato l’ok, lo sono stata ancora di più. Eccola qui:
Oggi, a 4 anni di distanza da quel primo post, posso dire che scrivere un blog è stata e continua ad essere una delle esperienze più interessanti, stimolanti ed entusiasmanti della mia vita.
Ma che cosa vuol dire, esattamente, scrivere un blog? 

Quando si comincia, si ha davanti una pagina vuota da riempire, ed infinite possibilità. Ai miei inizi, l’unica cosa di cui ero certa era che il solo argomento di cui volevo scrivere fosse il cinema, ma allo stesso tempo, non volevo limitarmi a pubblicare semplici recensioni degli ultimi film visti. Dopo così tanti anni di amore per lo schermo e per il buio delle sale, il cinema è per me diventato molto più di un passatempo: è il prisma attraverso cui filtro la realtà che mi circonda, il codice segreto con cui la leggo e la interpreto. Ho quindi trovato il modo, scrivendo, di parlare di tutto quello che mi sta veramente a cuore: ho scritto di film che ho amato o odiato appassionatamente, di registi che mi sembravano troppo dimenticati, di film che giudicavo ingiustamente sottovalutati, di attori incontrati, di sale cinematografiche visitate in ogni parte del mondo, di scoperte che mi hanno riempito di entusiasmo, e di come avvenimenti comuni o quotidiani mi riportassero sempre a scene di film. Gran parte di quello che ho vissuto è passato attraverso il blog, e sono io la prima a stupirmi di quante cose abbia potuto raccontare nel corso di questi anni. 
Ad esempio, quando sono arrivata a Parigi, il cinema ha subito fatto capolino, anche nella scelta del posto in cui vivere. La mia zona preferita della città era Montmartre, ovviamente per ragioni cinematografiche: la tomba del mio regista preferito di tutti i tempi, François Truffaut, si trova nel cimitero di Montmartre:
e nella stessa zona, è stato ambientato un film che amo molto (e so che è molto amato anche in Giappone): Le Fabuleux Destin d’Amélie Poulain di Jean-Pierre Jeunet. Praticamente tutti i giorni, per tornare a casa, devo passare di fronte al Café des 2 Moulins, il caffè nel quale lavorara Amélie:
Ed ogni volta non posso fare a meno di pensare ad una storia molto divertente che aveva raccontato lo stesso regista: un giorno, si era dato appuntamento lì con l’attrice americana Jodie Foster che, entusiasta di Amélie, lo voleva incontrare di persona per parlare di una possibile collaborazione futura (l’attrice ha poi recitato nel film di Jeunet Un long dimanche de fiançailles/Una lunga domenica di passioni). All’uscita, si erano intrattenuti in conversazione ancora per qualche minuto sul marciapiede di fronte al caffè. Ed è stato lì che Jeunet si è accorto di alcuni turisti giapponesi che, lui credeva, volevano fare una fotografia a lui e Jodie Foster. Ha quindi fatto segno all’attrice di mettersi in posa, ma quando si sono trovati di fronte l’obiettivo, con grande sorpresa, hanno capito che i turisti stavano facendo loro segno di spostarsi. Non li avevano neppure riconosciuti, quello che loro stavano cercando di immortalare era il caffè di Amélie Poulain!
Parigi, in questo senso, è una vera miniera d’oro.
Ad ogni angolo di strada, può capitare di imbattersi nel “tournage” di un film. La più memorabile di queste avventure, a me, è successa un paio d’anni fa, quando Woody Allen stava girando in città il suo film Midnight in Paris.

Era un giovedì sera e stavo andando a cena a casa di amici dalle parti di Place Monge: avevo bisogno di acquistare una bottiglia di vino ma in zona non riuscivo a trovare nessun negozio aperto. Alla ricerca della bottiglia, mi sono imbattuta in un grosso camion che mi bloccava la strada. Una ragazza mi si è avvicinata: “Di qui non si può passare”, mi ha detto. Mi sono resa conto all’improvviso che tutt’intorno avevo grandi macchinari, cineprese, decine di tecnici, enormi luci. Stavano girando un film! Per cui mi sono messa ad osservare meglio: a pochi passi da me c’erano l’attore americano Owen Wilson e, di fianco a lui, Carla Bruni Sarkozy, in quel momento First Lady di Francia. Poco distante, trincerato dietro un monitor, se ne stava tranquillo e concentrato uno dei miei registi preferiti: Woody Allen. Con il suo berretto, i suoi occhiali, i suoi pantaloni di velluto, la sua camicia con il gilet. Insomma il Woody Allen che siamo abituati a vedere sui giornali, ora se ne stava lì davanti a me. Sono stata a lungo ad osservare il set, cercando di capire come lui girasse una scena, cercavo di indovinare le sue scelte, il suo stile, il suo modo di dirigere gli attori. Ero stupita dal grande silenzio che regnava sul posto. Tutti si muovevano in maniera circospetta e parlavano a bassa voce. Inutile dire che sono arrivata alla cena dei miei amici molto in ritardo... Però che scoop incredibile per il mio blog! 
Owen Wilson, Carla Bruni Sarkozy e Woody Allen
Woody Allen e Carla Bruni Sarzoky
L’unico grande dispiacere che ho avuto è stato quando, andando a vedere il film al cinema, mi sono resa conto che la scena che avevo visto girare era stata tagliata!
Ma immagino che non si possa avere tutto, dalla vita…
Ho una storia ancora più incredibile da raccontare, a questo proposito: un giorno di qualche anno fa, mi sono trovata nella casella della posta la lettera di una compagnia di produzione cinematografica nella quale si avvertivano gli abitanti della zona che di lì a poche settimane sarebbe iniziato il tournage di un film proprio nella nostra via. Si scusavano anticipatamente del disagio che questo avrebbe creato e raccontavano a sommi capi la trama della pellicola. Il film in questione si intitola La Rafle, della regista Rose Bosch, e parla di un episodio particolarmente drammatico della storia francese: la retata di Vel d’Hiv. All’alba del 16 Luglio 1942, nel periodo in cui Parigi era occupata dai nazisti, la polizia francese ha arrestato nelle loro case tredicimila ebrei, o presunti ebrei, di cui quattromila e cinquecento bambini, e li ha lasciati ammassati in condizioni disumane per qualche giorno nel Vélodrome d’Hiver per poi deportarli nel campo di sterminio di Auschwitz-Birkenau. Quasi nessuno di loro è sopravvissuto. La maggior parte degli ebrei parigini viveva a Montmartre, ed è per questa ragione, e per la bellezza della corte interna di un palazzo pochi numeri più in là del mio, che avevano deciso di girare il film proprio nella nostra via. La lettera era arrivata con largo anticipato, ed io mi ero quasi dimenticata di averla ricevuta, quando un giorno del Maggio 2009, rientrando dal lavoro, ho visto la strada in cui vivevo trasformata da semplice, comune via della mia vita quotidiana, in un set cinematografico. Come per magia, dal mattino alla sera, mi sono ritrovata in una strada degli anni ‘40. C’era un negozio che vendeva carbone, uno specializzato in pavimenti in linoleum, un ebanista, un atelier che riparava biciclette, un hotel, una rivendita di vini e liquori. Tutte cose che nella realtà non esistevano e che invece adesso erano lì sotto i miei occhi, più reali che mai. Come sul set di Woody Allen, anche qui c’erano grandi luci, macchinari e tanti tecnici tutt’intorno. Per un attimo, ho anche avuto paura di non riuscire a raggiungere il portone di casa. Ho dovuto spiegare a qualcuno della troupe che vivevo al numero 44 e allora mi hanno fatto passare. La mia casa era esattamente sul limitare del set cinematografico: avevano costruito una lunga parete in legno che divideva il set dal resto della strada, e a ridosso di questa parete avevano messo dei tavoli che servivano da piccola mensa. Giorno dopo giorno, ho iniziato a farci l’abitudine: le persone del film mi riconoscevano, e urlavano agli altri: Fate passare, la signora abita qui! Qualche volta trovavo soldati in uniforme che mangiavano una zuppa fuori dal mio portone, con i fucili a tracolla, e le svastiche sulla giacca, qualche volta c’erano macchine e autobus d’epoca che facevano manovra lungo la strada. Era bellissimo e speciale, e io ero talmente felice di vivere negli anni ’40 che alla fine mi sembrava la cosa più normale del mondo. Il giorno in cui, com’era iniziato, tutto questo è sparito, dal mattino alla sera, lo confesso, è stato un trauma. All’improvviso, la mia strada era tornata ad essere la solita, moderna strada. Niente più soldati, niente più hotel, o ebanista, niente più set, né finzione. Una tristezza immensa. Il cinema era sparito, la vita vera aveva preso il sopravvento. Per mesi, non so come, ha resistito una delle vecchie insegne: Bois et Charbon, Legno e Carbone, come se ce l’avessero lasciata in regalo, in ricordo di quei bellissimi momenti in cui la vita era un film!
Come non raccontare questa storia nel mio blog? 
Parigi comunque è la città perfetta non solo perché ci girano tanti film, ma anche perché nelle sue sale si possono fare delle grandiose scoperte cinematografiche, spesso grazie ai vari Festival che vi si organizzano. Prendete il Festival “Cinéma du Réel”, che si svolge ogni anno al Centre Pompidou e mostra la migliore produzione di documentari in circolazione. Tre anni fa, per caso, è stato proprio lì che ho scoperto una delle pellicole più interessanti degli ultimi anni: La Bocca del Lupo, del giovane regista casertano Pietro Marcello. 
Uno strano oggetto-filmico in bilico tra il documentario e il film di finzione, che racconta la storia d’amore tra un ex-carcerato e una transessuale, il tutto con inserti poetici, vecchie immagini di Genova, e momenti di grandissima emozione. Ecco: che bello avere un blog di cinema il giorno in cui si scopre una pellicola di questo tipo. La felicità che si prova nello scrivere con entusiasmo di una storia così particolare e preziosa, sperando che qualcuno la legga e abbia voglia a sua volta di andarla a scoprire, è fortissima, vi assicuro. Quel post mi ha portato molte cose belle (perché le vie dei blog – bisogna dirlo - sono infinite): amici comuni hanno parlato di quanto avevo scritto a Pietro, lui mi ha contattato e mi ha mandato il suo primo lavoro, altrettanto interessante: Il Passaggio della Linea, e poi un giorno a Roma ci siamo conosciuti. Un blog significa anche trovare nuovi amici, vi sembra poco?
Pietro Marcello (Il Regista) e Zazie (La Blogger)
 E un blog serve anche a ricordarli, gli amici. Quelli che non abbiamo mai conosciuto nella realtà, ma che abbiamo imparato ad amare grazie al cinema, dietro o davanti la macchina da presa. Purtroppo in questi ultimi anni ho perso molti di loro, e a ciascuno ho dedicato un ricordo, perché credo nell’importanza della memoria cinematografica ed umana. Ho quindi scritto di Eric Rohmer

Claude Chabrol 
Giuseppe Bertolucci
Nora Ephron 
Pete Postlethwaite 
e, molto recentemente, di Patrice Chéreau  
Ad ogni modo, e per fortuna, sono molto più frequenti i momenti esaltanti di cui si può raccontare, in un blog, perché a volte mi sono successe proprio delle cose incredibili, come quelle che accadono nei film. 
Un giorno ero a Los Angeles per l’inaugurazione di un museo progettato dallo studio di architettura per cui lavoro e avevo scoperto, nella lista degli invitati, il nome di un attore che amo molto, l’americano James Franco. Di solito, in questo genere di serate, è molto facile incontrare e parlare con le persone al momento dei cocktail. La gente si aggira per le stanze chiacchierando e sorseggiando champagne, in un’atmosfera rilassata e mondana, che invita a socializzare. Nel corso della cena, invece, tutto diventa più formale: i posti sono assegnati, ci si ritrova bloccati accanto a perfetti sconosciuti, costretti a fare conversazione su argomenti noiosi e ininteressanti. Dato che James Franco nel corso dell’aperitivo non si era visto, mi ero scherzosamente lamentata di questa mancanza con la collega del museo responsabile dell’avvenimento. Lei mi aveva detto: “Ti assicuro che arriverà, me lo ha confermato”. E io, di rimando: “Sì, ma sarà troppo tardi, perché una volta seduti al tavolo non si potrà più conoscere nessuno”. “Ti prometto che te lo porto al tavolo, se arriva”, erano state le sue ultime parole, che io però avevo interpretato come una sorta di scherzo.
Avevo già dimenticato il nostro dialogo quando, seduta al tavolo, ho visto arrivare la signora in questione seguita dal fotografo del museo e da qualcuno che non riuscivo a vedere. Quel qualcuno era proprio James Franco. Si è avvicinato a me (mentre io cercavo di mandare giù in un sol boccone il gamberetto che mi ero appena portata alla bocca) e dandomi la mano mi ha detto: “La ringrazio per questa foto che sta per fare con me!”. In effetti, sotto lo sguardo stupito degli altri commensali, abbiamo fatto una foto insieme e abbiamo anche chiacchierato per un po’: di arte, film, Los Angeles, Parigi, e ho persino avuto la faccia tosta di dargli il biglietto da visita del mio blog. Ancora oggi, non so cosa la mia collega del museo gli abbia detto per riuscire a convincerlo a farmi questo regalo, ma non importa, a volte i sogni si realizzano, e che si realizzino nella città dei sogni, tutto sommato, ha una sua logica. Ecco qui, a testimonianza dei fatti, la famosa foto in questione:

E se qualcuno vuole saperlo, la risposta è sì: James Franco dal vivo è proprio bello come appare sullo schermo!
L’altro avvenimento davvero straordinario a cui ho assistito, sempre grazie al mio lavoro, è stata la Notte degli Oscar 2013
, lo scorso Febbraio a Los Angeles. Inutile negarlo, per il mio blog è stato un piccolo trionfo, e ho cercato di sfruttare l’occasione fino in fondo. Ne sono usciti 5 lunghi post in cui racconto le mie avventure a Hollywood: dalla disastrosa pedicure del pre-avvenimento al viaggio per arrivare al teatro, dalle prime impressioni sul red-carpet allo svolgimento della cerimonia, sino ad arrivare al resoconto delle feste dopo-Oscar, il Governors Ball e il Vanity Fair Party:
 Lo ammetto, a volte è gratificante togliersi alcune soddisfazioni grazie al blog. In quanto appassionata di cinema, vedo una media di 80-85 film all’anno, in sala, e annoto scrupolosamente il titolo di ogni pellicola, con il nome del regista ed il paese di provenienza. A Gennaio, quando i rappresentanti dell’Academy of Motion Pictures, a Los Angeles, annunciano le loro candidature per i premi Oscar, io mi sono sempre sentita un po’ gelosa: perché loro possono dare questi premi e io no? Ecco che il blog mi è venuto in aiuto anche sotto questo punto di vista: da quando lo scrivo, ogni anno a Febbraio, prima degli Oscar ma dopo i Golden Globes, annuncio e metaforicamente “consegno” il mio premio personale, lo Zazie d’Or!


Le categorie sono più o meno le stesse, quelle classiche: miglior film, miglior regia, miglior sceneggiatura, miglior attore ed attrice e così via. Certo, i premiati di solito sono molto, molto diversi rispetto a quelli degli Oscar. E poi io ho una categoria speciale che loro non hanno, una marcia in più di Zazie, il JEREMY IRONS AWARD, detto anche Man of my Life Award. Mi spiego meglio: l’attore inglese Jeremy Irons è, da quando ho 15 anni, il mio attore preferito, ma soprattutto un uomo che a mio parere non è secondo a nessuno in quanto a fascino e bellezza. Quindi ogni anno scelgo un attore, per così dire “speciale”, a cui consegnare questo importantissimo riconoscimento. La caratteristica di questo premio è che il vincitore, in linea teorica, dovrebbe venire a ritirarlo direttamente a casa mia, e qui ammetto che la donna ha un po’ il sopravvento sulla blogger… ma state tranquilli, per il momento, con mio grande disappunto, nessuno dei vincitori è mai venuto a reclamare il suo trofeo. 
E tuttavia, poiché la vita delle bloggers è piena di sorprese, quest’anno ho potuto consegnare realmente uno dei miei Zazie D’Or, quello del miglior attore. A Febbraio, infatti, quando sono stata alla Notte degli Oscar, ho incrociato nei corridoi del teatro in cui si svolgeva la cerimonia l’attore danese Mads Mikkelsen, a cui avevo assegnato il premio per la sua interpretazione nel film Jagten/Il Sospetto di Thomas Vinterberg. Non chiedetemi come io abbia trovato il coraggio di fermarlo, parlargli del mio blog, e del premio, ma è proprio andata così. Alla sua domanda: “E in che cosa consiste questo Zazie d’Or?”, io, in un momento di (spero) momentanea follia, mi sono avvicinata a lui, l’ho abbracciato e l’ho baciato. Anche se stupito, lui è stato così simpatico da dirmi: “Grazie, il premio è molto carino”. E per sua fortuna non aveva preso il Man of Life Award, altrimenti non avrebbe avuto scampo, il poveretto!
Quando si scrive un blog, credo sia normale farsi continuamente delle domande sui nostri possibili lettori. Intanto, sembra già piuttosto incredibile di averne, di lettori. Persone che trovano il tempo, nelle loro giornate complicate e piene di impegni, di fermarsi a leggere quello che abbiamo scritto sul cinema. Se ci penso, mi sembra davvero la cosa più straordinaria di tutte. Che qualcuno mi legga, lo so per certo: grazie alle statistiche del blog, grazie al fatto che quando metto in linea un post e pubblico un link sulla mia pagina Facebook, vedo che ci sono persone che si collegano.
E’ interessante anche cercare di capire i gusti, dei miei lettori. La piattaforma del mio blog prevede una rubrica dove vengono indicati i cinque post più letti in assoluto, da quando ho creato il blog ad oggi. Con mia grande, grandissima sorpresa, il post più letto di tutti questi anni è un testo che io consideravo, diciamo così, “minore”. Su un tema che mi sta molto a cuore, questo è vero, ma che immaginavo un po’ irrilevante per tutti gli altri. Anni fa la Cinémathèque Française ha organizzato una mostra dal titolo: Brunes/Blondes, Bionde/Brune, dedicata alle attrici e alle loro chiome. 

La mostra era molto bella, ma io le avevo trovato un grande difetto: trovavo che le attrici con i capelli corti non fossero abbastanza rappresentate. Essendo io una donna dai capelli corti, sin dalla più tenera infanzia, la questione mi toccava davvero da vicino. Così ho scritto un post dal titolo: Le ragazze dai capelli corti, dove facevo diversi esempi di donne belle ed affascinanti della storia del cinema che sfoggiavano con grande classe ed eleganza una zazzera corta. E guarda un po’, i miei meravigliosi lettori, per ragioni che ancora oggi mi appaiono imponderabili, hanno premiato quel piccolo post grazie al loro entusiasmo, al punto che ne ho fatto seguire un successivo, intitolato: La rivincita delle ragazze dai capelli corti, con nuovi, entusiasmanti esempi di attrici dal taglio cortissimo. 
Che posso dire? I miei lettori sono addirittura più avanti di quanto avessi mai potuto sperare.
Da sinistra a destra e dall'alto al basso:
Jacqueline Bisset
Winona Ryder
Mia Wasikowska
Zazie
Isabella Rossellini
Emma Watson
Audrey Hepburn
Emma Thompson
Shirley MacLaine
Charlize Theron
Judy Dench
Audrey Tautou
Leslie Caron
Katherine Hepburn
Natalie Portman
E’ un po’ lo stesso stupore che provo quando mi accorgo che mi hanno lasciato dei commenti. Persone che oltre a leggere un post hanno anche la pazienza e l’amabilità di farti sapere che hanno apprezzato quello che hai scritto: questo è proprio il massimo. In assoluto, il commento che mi piace di più, è quando leggo: Mi hai fatto davvero venire voglia di andare a vedere questo film!
Ecco, se un giorno qualcuno dovesse chiedermi: perché hai scritto un blog? Perché hai passato serate intere, stanca dopo il lavoro, a metterti lì e pensare a cosa dire di un film e trovare le parole giuste per dirlo? La risposta sarebbe questa: per far venire voglia alla gente di uscire di casa ed andare a sedersi in una sala buia, insieme ad altre persone, ad aspettare che il film cominci. Per stare lì nell’attesa che lo schermo si riempia di immagini, di suoni, voci, musica, e di tutta quella magia di cui il cinema è capace. Non conosco sensazione più bella di questa, nella vita.
Che posso dirvi?
Le piccole donne crescono, ma forse non cambiano mai. 

Jean Seberg
Zazie, Tokyo - 28 Ottobre 2013
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