Altrimenti non si spiegherebbe come proprio Zazie, la paladina della finzione pura, la pasionaria dei film cantati alla Jacques Demy (gli anti-realtà assoluti), si ritrovi sempre più spesso a guardare, amare e recensire dei... documentari!
Di sicuro non faccio nessuna fatica quando si tratta di un film bellissimo e speciale come quello che ho avuto la fortuna di vedere ieri al Nouveau Latina (evviva queste piccole sale parigine che hanno sempre e comunque una programmazione incredibile!): Le Sommeil d'Or, del giovane regista franco-cambogiano Davy Chou.
Il cinema cambogiano ha visto la luce negli anni '60. Il pubblico amava le pellicole prodotte nel paese e i film avevano un incredibile successo. A Phnom Penh c'erano almeno 30 sale: produttori, attori e registi, vivevano una stagione d'oro e indimenticabile. Soltanto 15 anni dopo, di tutto questo, non rimaneva neanche l'ombra. Nel 1975, Pol Pot e i suoi Khmer Rossi hanno sterminato (inclusi in quel milione e settecentomila vittime della loro follia, su una popolazione di 17 milioni di abitanti) quasi tutti quelli che facevano del cinema, considerata un'attività "nemica del popolo", e hanno distrutto la quasi totalità delle 400 pellicole create in quegli anni.
Davy Chou, nipote del produttore Van Chann, ha deciso di raccontare tutto questo in un documentario: ha intervistato alcuni dei sopravvissuti (registi, produttori, dei cinefili e la più famosa attrice cambogiana, Dy Saveth), ha raccolto il poco materiale rimasto (la registrazione di qualche canzone, alcune immagini, il trailer di un film) e poi è andato alla ricerca di tutto ciò che è rimasto dei luoghi in cui si faceva o si proiettava cinema in Cambogia.
A fare da perfetto contrappunto a queste interviste, sono le immagini (straordinarie!) che Chou ha girato nella Phnom Penh di oggi, dove degli studi o di quelle mitiche trenta sale cinematografiche non è rimasto quasi nulla, se non misere e squallide trasformazioni in tristissime sale gioco, karaoke, o vere e proprie bidonville dove squattano poverissime famiglie. La macchina da presa cattura lenta, inesorabie, un mondo in disfacimento, ma si aggira anche per le strade di una città che cambia, creando ancora più forte questo senso di vuoto, come se non riuscisse ad esserci un collegamente tra passato e presente, come se la mancanza di pellicole fosse una mancanza di storia, di senso, di continuità (mai pensato a cosa sarebbe un paese senza un passato cinematografico? fa paura, eh?).
Due momenti mi rimarranno per sempre nel cuore: quello in cui uno dei registi evoca la trama di un film mitico, una sorta di leggenda di cui all'epoca si favoleggiava, e che si interrompe per dire: "Adesso basta, non vi racconto altro, sennò vi faccio venire voglia di vederlo e poi come si fa?" E quello in cui due cinefili, dopo aver rivissuto l'attimo in cui al cinema Bokor (solo il nome fa sognare!) si erano seduti per l'anteprima di un film - tutti emozionati - accanto alla loro attrice preferita, ripercorrono il periodo della guerra: "C'erano i bombardamenti, era pericoloso, ma noi andavamo al cinema lo stesso. Perché la felicità di vedere un film era superiore alla paura".
Ho idea che se fossi stata una cinefila a Phnom Penh negli anni '70, sarei finita accanto a questi qua.
Un grand merci à Laura pour m'avoir parlé de ce film, ce post est pour toi, ma chère!
brava, bellissimo post. Andrea
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