Sono una di quelle persone per cui la vita senza serie TV non avrebbe più senso.
Ed è così dalla più tenera infanzia. Sono cresciuta a pane e sceneggiati BBC. Quando ero piccola, la RAI era talmente illuminata da avere il coraggio di trasmettere praticamente tutto quello che si produceva in Gran Bretagna. Negli anni della gioventù, ho assunto dosi massicce di Upstairs, Downstairs, The Duchess of Duke Street, The Avangers, The New Avengers, The Survivors, George and Mildred, Doctor Who, Sapphire and Steel, How green was my valley, All creatures great and small e chi più ne ha più ne metta, oltre ad ogni trasposizione televisiva possibile ed immaginabile dei romanzi di Jane Austen, delle Sorelle Bronte e di altri classici inglesi (con Brideshead Revisited a svettare lassù, nell'alto dei cieli).
In questi ultimi anni, gli americani sembrano non solo aver imparato la lezione dei maestri, ma averli di gran lunga superati. Tutto quello prodotto da HBO è praticamente un capolavoro assoluto, senza contare le innumerevoli perle rare sparse sugli altri canali d'oltre oceano. Tuttavia, gli inglesi sanno ancora il fatto loro, e non perdono nessun colpo: The Office di Ricky Gervais è talmente avanti che fa quasi paura, la comicità politicamente scorrettissima di Little Britain è da urlo, l'irriverenza di Queer as Folk ha fatto scuola, l'idea geniale che sta alla base di Life on Mars crea dipendenza. Non è forse un caso che tutte queste serie TV siano state rubate e rifatte dagli americani (non so con quali risultati, a dire il vero, perché non ho mai avuto voglia di guardarle). L'anno scorso, gli inglesi ci hanno regalato una perla rarissima: Downton Abbey, uno sceneggiato che segue in parallelo le vicende di una famiglia artistocratica dei primi del novecento e quelle della loro servitù. Impossibile trovarci un difetto: la sceneggiatura (di Julian Fellowes, già autore di Gosford Park) è bellissima, i dialoghi intelligenti e divertenti, gli attori di una bravura eccelsa (Maggie Smith ha appena vinto un Emmy Award per il suo ritratto della matriarca stronza ed irresistibile). Insomma, ve ne consiglio vivissimanente la visione (in questo momento in Inghilterra sta andando in onda la seconda stagione).
Da un po' di tempo a questa parte, invece, sentivo parlare di un altro prodotto della TV britannica, che mi incuriosiva molto perché veniva definito come la risposta inglese a Mad Men. Così, quando sono passata da Londra, ho comprato a scatola chiusa il cofanetto di The Hour, sei episodi che raccontano il dietro le quinte di una trasmissione della BBC negli anni 50. Scritto da Abi Morgan (sceneggiatrice di Brick Lane, The Iron Lady e Shame), The Hour si concentra su tre personaggi: la giovane produttrice Bel Rowley (l'ottima Romola Garai), il suo miglior amico e angry young journalist Freddy Lyon (l'eccezionale, come sempre, Ben Whishaw), e il presentatore bello e ambizioso Hector Madden (il bravo Dominic West, che molti ricorderanno in The Wire). E' il 1956, siamo in piena guerra fredda, c'è la crisi del Canale di Suez, e i tre si trovano rispettivamente a produrre, scrivere e presentare una nuova trasmissione di approfondimento della BBC, chiamata appunto The Hour. Ben presto, tuttavia, i tre si troveranno anche coinvolti in una storia di spionaggio e morti ammazzati che non avevano previsto.
Il primo episodio, dico la verità, non mi aveva entusiasmato: mi sembrava un po' lento, non particolarmente avvincente, dai contorni persino un po' sbiaditi, ma mi sono detta che comunque valeva la pena di continuare a guardarlo. Ed ho fatto bene. Non so dirvi esattamente a che punto, ma The Hour mi ha conquistato in maniera subdola e inaspettata. Ad un certo punto, tra il secondo e il terzo episodio, ho capito che l'unica cosa della quale mi importava durante la giornata, era quella di tornare a casa e vedere come andava avanti la storia. Ho provato ad analizzare le ragioni di questo improvviso amore ma, come per tutte le cose irrazionali di questo mondo, mi sono resa conto che sono difficili da spiegare. Voglio dire, al di là delle evidenti qualità del prodotto: ben scritto, ben girato, con attori fantastici, insomma con gli ingredienti classici di un'ottima serie TV.
Quel qualcosa di speciale, forse, risiede nella quintessenza del being british, nell'understatement puro e duro. In The Hour le cose non sono mai urlate, mai spettacolari, mai particolarmente glamorous, mai sopra le righe, ma sono a volte solo accennate, a volte spiegate in maniera chiara e sobria, a volte semplicemente lasciate all'intelligenza dello spettatore. Anche l'ambientazione anni 50 ha una qualità completamente diversa rispetto a quella di Mad Men: qui è tutto più povero, più invernale, con una patina di quotidiano, di guerra fredda, di kitchen-sink drama, di tazze di té, di pioggia che scende abbondante ed implacabile.
Oddio... avrei voluto che non finisse mai.
Come ha scritto di recente il New York Times nella sua recensione: peccato solo che quest'ora non duri qualche minuto di più...
ciao Zazie, ho letto qualche tuo post e non ho resistito alla tentazione di commentarti; quello che emerge subito non è solo la tua passione per il cinema, ma una grande capacità nella narrazione, insomma in poche parole non solo scrivi bene, ma ogni tuo post sembra un piccolo racconto con dentro sprazzi di cinema, o un pò di cinema con dentro sprazzi della tua vita.
RispondiEliminaTra le tante passioni strane ne ho una per i titoli di coda, che di solito la gente reputa noisi; io li leggo tutti con calma e detesto la tv perchè li taglia. Non vorrei sbagliare ma da come citi i nomi e i riferimenti ad altri film anche tu devi essere una di quelle che se ne sta lì impalata a gustarsi la pellicola fino alla fine.
Caro Anonimo (peccato, chi sei?), hai proprio indovinato. Non più tardi dell'altra sera, in una saletta del Gaumont Opéra, il tipo che puliva la sala alla fine del film mi ha gentilmente chiesto di andarmene...
RispondiEliminaE grazie tantissimo per quello che hai detto sul blog. Quando leggo commenti così mi viene ancora più voglia di scriverlo!
e continua a scrivere allora!!
RispondiEliminauna decina di anni fa uscì un film italiano che ebbe un discreto successo: Santamaradona di Marco Ponti con Stefano Accorsi.
In tempi ancora non sospetti, molto prima di Virzì, la tematica era incentrata sul mondo dei giovani laureati e la difficoltà d inserirsi nel mondo del lavoro. Al di là di questo, il protagonista aveva come passione cinefila quella dei titoli di coda, a tal punto da montare quelli preferiti in sequenza e farli vedere alla sua bella... ho adorato il film solo per questo motivo. Ricordo che quando l'ho visto al cinema, solo per quei pochi, pochissimi appassionati, capaci di innervosirsi e di dire "levati che non vedo nulla" quando il film per gli altri è finito e la gente si alza e i titoli scorrono, il regista ha regalato delle scene extra a titoli finiti. Che soddisfazione!!!
Immagino allora che tu sia tra quelli che hanno visto, alla fine di Priscilla, che il loro aquilone era andato a finire in Giappone...
RispondiEliminaHa tutti gli ingredienti per piacermi: prevedo che sarà presto sui nostri schermi.
RispondiEliminaPS: Life on Mars americana non era niente male.
Mi hanno detto pero' che è stata un po' un flop... mah, secondo me la versione UK era imbattibile. Contro la Manchester del 1973 e la bravura di John Simm, c'è veramente poco da fare!
RispondiEliminaDopo In Tratment anche Downtown Abbey mi era scappata. Grazie. Ultimamente mi stavo dedicando a cose meno raffinate, come la brillante barbarie di Diablo Cody in United States of Tara.
RispondiElimina