Daniel Blake (Dave Johns) |
Piatto ricco mi ci ficco, come si dice in questi casi, e infatti ne ho visti un bel po’, anche se meno di quelli che avevo previsto (la stanchezza ha prevalso, ahimé).
La cosa interessante è che mi è capitato di vedere 3 film che hanno avuto dei riconoscimenti importanti nel tanto discusso palmarès cannois di ieri sera.
Ora, non ho visto tutti i film in competizione, quindi è difficile giudicare, e personalmente avrei voluto che la Palma d’Oro andasse ad Andrea Arnold per il suo straordinario American Honey (poi ne scriverò), però trovo davvero eccessivo l’accanimento nei confronti di Ken Loach che leggo ovunque in queste ore.
Il suo I, Daniel Blake, forse non si meritava un premio così importante ma è comunque un bellissimo film, e di quelli estremamente necessari.
Loach riceve la Palma d'Oro - Cannes 2016 |
Titoli di testa. Schermo nero. In sottofondo una telefonata.
Un uomo di mezza età sta parlando con un’impiegata che si definisce “professionista della salute pubblica”: lui spiega che ha avuto un attacco di cuore, che i medici non gli permettono di riprendere subito il lavoro, e che vorrebbe quindi avere i benefits che gli spettano per tirare a campare fino a quando non riprenderà la sua attività.
Sembrerebbe una richiesta semplice e di immediata risoluzione, ma non lo è.
L’impiegata insiste nel voler compilare un fantomatico questionario pieno di domande che con la situazione dell’uomo non c’entrano nulla, l’uomo ironizza sulla situazione e vorrebbe andare dritto al punto.
In pratica, questi primi 3 minuti a schermo nero contengono già tutto il film di Loach.
La storia e il tono della storia, quel misto di ironia e buon senso che è la base di tutti i suoi film, sommato (ça va sans dire), ad una tenacia senza pari e senza mezze misure nel difendere e lottare per la dignità di ogni singolo uomo del pianeta terra.
L’uomo di mezza età è il Daniel Blake del titolo, un falegname di Newcastle, vedovo da poco, senza figli, che da quel momento in poi dovrà iniziare una lotta titanica contro la delirante burocrazia inglese (ma potrebbe essere quella italiana o quella francese, su questo non ci sono dubbi) e si sente parecchio solo.
Un uomo di mezza età sta parlando con un’impiegata che si definisce “professionista della salute pubblica”: lui spiega che ha avuto un attacco di cuore, che i medici non gli permettono di riprendere subito il lavoro, e che vorrebbe quindi avere i benefits che gli spettano per tirare a campare fino a quando non riprenderà la sua attività.
Sembrerebbe una richiesta semplice e di immediata risoluzione, ma non lo è.
L’impiegata insiste nel voler compilare un fantomatico questionario pieno di domande che con la situazione dell’uomo non c’entrano nulla, l’uomo ironizza sulla situazione e vorrebbe andare dritto al punto.
In pratica, questi primi 3 minuti a schermo nero contengono già tutto il film di Loach.
La storia e il tono della storia, quel misto di ironia e buon senso che è la base di tutti i suoi film, sommato (ça va sans dire), ad una tenacia senza pari e senza mezze misure nel difendere e lottare per la dignità di ogni singolo uomo del pianeta terra.
L’uomo di mezza età è il Daniel Blake del titolo, un falegname di Newcastle, vedovo da poco, senza figli, che da quel momento in poi dovrà iniziare una lotta titanica contro la delirante burocrazia inglese (ma potrebbe essere quella italiana o quella francese, su questo non ci sono dubbi) e si sente parecchio solo.
A dargli una mano, a parte alcune persone sparse qua e là nei vari uffici in cui si trova a passare, un giovane vicino di casa che fa i soldi rivendendo dele sneakers a prezzi stracciati e una donna incontrata per caso all’ufficio di collocamento, Kattie, arrivata da Londra con i suoi due bambini perché le hanno finalmente assegnato un appartamento, ma in una città dove non conosce nessuno e dove non ha un lavoro. Kattie e Daniel si aiuteranno a vicenda, senza veramente riuscire a risolvere i loro problemi, ma con la certezza di avere almeno una persona su cui contare quando le cose si mettono male (e bisogna dire che nel loro caso le cose vanno di male in peggio).
Kattie (Hayley Squires) e i suoi due figli |
Personalmente, ho visto tutti i suoi film, da Kes in poi, e anche se a volte l’ho trovato troppo didascalico, troppo concentrato nel dimostrare una tesi, anche se a volte ho avuto voglia di chiedergli uno sforzo cinematografico in più, non mi sono mai pentita, nemmeno una volta, di aver visto un suo film.
Perché non esiste un film di Loach dal quale si esce indenni, e io questa la trovo una cosa preziosissima. Perché comunque vada due o tre domande sulla tua vita e su come va il mondo te le fai, dopo un film di Loach, e questo è più di quanto possano dire tanti film e tanti registi in circolazione.
E poi io sono ammirata dalla coerenza di questo regista, che ancora oggi, a quasi 80 anni, quando avrebbe tutto il diritto di starsene a casa al calduccio a bersi una tazza di té, continua ad incazzarsi di fronte alle ingiustizie del mondo, a non mollare, ad armarsi di telecamera e pazienza per sbatterci davanti agli occhi delle realtà che nessuno di noi avrebbe voglia di vedere, e a parlarci di gente normale, senza nessuna attrattiva, e di solito non contemplata negli universi cinematografici.
Insomma, Loach se non ci fosse bisognerebbe inventarlo.
Ken Loach sul set di I, Daniel Blake |
Di fronte ad una sequenza come questa, io credo che tutti, e intendo tutti quelli dotati di un cuore o di un briciolo di umanità, ci siamo sentiti disperati e sconvolti. Perché, a parte la considerazione ovvia che nessun essere umano dovrebbe ridursi a quel modo, Loach sta cercando di dirci che se continuiamo così potrebbe arrivare anche a noi, questo simpatico momento, e a me c'ha messo un secondo, a convincermi.
E poi ammettiamolo, Loach ci fa vergognare, e non poco, di tutto quello che abbiamo: del superfluo che si accumula nelle nostre case, del cibo che buttiamo, dei vestiti che compriamo (io qui vinco dei premi tipo Palma d’Oro!). Ma anche di quello che non abbiamo più, come la capacità di indignarci o, peggio ancora, della nostra indifferenza nei confronti di tutti quelli che non rientrano nel nostro raggio d'azione quotidiano.
E quanti sono i film, oggi, che ci fanno vergognare di quello che siamo diventati? Pochi.
E allora forse questo film non doveva vincere il premio più importante perché - ne sono certa - ce ne saranno stati altri più originali, più belli, più forti, però non importa, io penso che vada bene così. Perché come ha detto Loach ritirando il premio, "Un mondo migliore è necessario e possibile".
E da qualche parte, a dare l’esempio, bisognerà pure cominciare.
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