lunedì 30 novembre 2015

Setsuko Hara

Non so voi, ma io tutte le mattine faccio colazione con Setsuko Hara.
Qualche anno fa, al museo The Eye di Amsterdam, ho trovato questo meraviglioso poster del film Banshun (Late Spring) di Yasujiro Ozu, con una foto in bianco e nero di Setsuko Hara che sorride, una tazza di té poggiata sul tavolo davanti a lei. L’ho appesa nel mio soggiorno, dove faccio colazione, e vedere quel sorriso luminoso ogni mattina mi fa pensare che il mondo sia un posto davvero bello:
Nelle ultime due settimane, lo ammetto, qui a Parigi si fa un po’ fatica a crederci, che il mondo sia un posto bello. 
E adesso che Setsuko Hara ci ha lasciato, ancora di più (per la verità l’attrice è mancata lo scorso 5 Settembre, ma la notizia è stata data solo il 25 Novembre).
Nata nel 1920 a Yokohama, Setsuko Hara è diventata famosa grazie a due film interpretati per Akira Kurosawa ma, soprattutto, per la sua lunga collaborazione con il regista Yasujiro Ozu. Alla morte di quest’ultimo, nel 1963, la Hara si è ritirata dalle scene e se ne è andata a vivere sola (non si è mai sposata) a Kamakura, rifiutando qualsiasi intervista e qualsiasi fotografia. Non a caso è stata definita la "Greta Garbo Giapponese".

Come una vera diva degli anni ’50, ma con uno stile tutto nipponico, si è eclissata dal mondo, lasciandoci in eredità i suoi meravigliosi ruoli di figlia (prima) e madre (poi) nei film di Ozu. L'eleganza con cui cammina a piccoli passi sul tatami delle case in stile tradizionale giapponese, il modo assolutamente irresistibile di sorridere, reclinando leggermente la testa di lato, il timbro dolcissimo di voce, me fanno un'icona di bellezza senza tempo e senza rivali:
L'altra sera mi è venuta voglia di rivedere Akibiyori (Late Autumn), che mi sembrava il film perfetto considerata la stagione e la malinconia di questo periodo, e infatti lo era.
Ogni inquadratura di Ozu è una piccola magia, un quadro dal nitore e dall'essenzialità risplendenti, dove ogni oggetto sembra trovare la sua ragione d'essere, la sua collocazione più intima e sincera. 
E non ho potuto fare a meno di pensare che quando quello che ci circonda appare brutto, meschino, insensato, brutale, basta regalarsi - non dico tanto - 10 minuti di inquadrature di Ozu. 
Meglio ancora se illuminate dal sorriso di Setsuko Hara.
E passa la paura.
L'unico antidoto possibile contro il male assoluto.
La vera bellezza che salverà il mondo (se siamo ancora in tempo...)

domenica 29 novembre 2015

venerdì 13 novembre 2015

The day Wes made Zazie cry

There are days when the world looks like a fabulous place.
Don't you think?
Zazie



mercoledì 11 novembre 2015

Les Fauvettes

Paris is not, as everybody would like to think, the City of Love.
Paris is the City of Cinema. Or, even better: the City of Cinemas.
There are more movie theatres per person in this town than in any other place on planet earth, and the most incredible thing is: they’re always crowded.
If you love cinema, you have so many choices every week that you almost get nuts about it (a while ago I even wrote a post on this subject).
Last week, there were two news, one very bad and one very good, concerning cinemas in Paris.
The bad one is that La Pagode,
one of the most historical movie theatres in town, announced that it is closing down starting from today, November 11, and for an undefined time. 
And nobody knows what it will happened next.
I was particularly sad reading this.
I am in love with La Pagode, which has a hall and a magnificent garden decorated in old Japanese style, and where they always show intelligent and interesting movies:

 
 

Few weeks ago I was there for the avant-première of Umimachi Diary (Notre Petite Soeur) by Kore-Eda Hirozaku: the hall was fully booked, the film-maker was there for a debate at the end of his movie and the atmosphere was pretty magical.
I can’t believe I will not have more nights like this! 

For a cinema closing down, though, there is one opening… last week I was invited to the opening night of the cinema Les Fauvettes, a new Pathé multi-screenings set in the 13th arrondissement, which has a very particular characteristic: it shows just old movies!
Only in the City of Cinemas a dream like this could become true…
Imagine: a shiny and bright new cinema with 5 theatres showing your favourite movies from the past! 

The night I was there, together with a great cocktail, there was the possibility of choosing between these movies: Blade Runner-Final Cut (1982) by Ridley Scott, On the Town (1949) by Stanley Donen, Le Corniaud (1965) by Gérard Oury and Dial M for Murder (1954) by Alfred Hitchcock.
My friend Nico and I were very indecise, but in the end we opted for Blade Runner: we both saw the movie several times but so long ago that it felt like a previous life, so we thought it could be a good idea:
I was a bit afraid that the movie would have badly aged but, to my happy surprise, it wasn't.
Well, Rachael's dresses were too '80s, the computers of the future looked like the Commodore 74 and the Vangelis music was a bit too much, but besides these three elements, Blade Runner is still the great science-fiction movie it used to be.
This was the Final Cut version, the director's cut made by Scott in 2007, because the studios at the time obliged him to have a different final scene and, also, to add a voice off that has now been removed. 
I have to confess that I prefer the old end, but who knows, maybe it is just a sentimental thing. 
Anyway, it was so good to see the movie on a big screen and to know that, from now on, this will be the case for so many other old movies!
This is why I find Les Fauvettes' slogan particularly appropriate: Versions Restaurées, Émotions Intactes (Restored Versions, Intact Emotions).
You bet! 

venerdì 6 novembre 2015

Saul Fia (Il Figlio di Saul)

Esiste qualcosa che non possa essere rappresentato al cinema? 
Qualcosa che non si possa mostrare su uno schermo perché troppo “near the bone” (vicino all'osso), come dicono gli inglesi?
Il dibattito è acceso e di lunga data, soprattutto su un aspetto terribile della nostra storia recente: l’Olocausto. Più o meno tutti i registi che se ne sono occupati hanno dovuto fare i conti con polemiche accesissime e dibattiti infiniti. E’ successo a Spielberg con Schindler’s List e a Benigni con La vita è bella, tra gli altri.
All’ultimo Festival di Cannes, c’era un film che ha avuto il riconoscimento più importante dopo la Palme D’Or, il Grand Prix du Jury, che parlava proprio di questo: Saul Fia (Il Figlio di Saul) di László Nemes. E, incredibile ma vero, questo giovane uomo di 38 anni al suo primo lungometraggio, sembra avere messo tutti d’accordo. E, dopo aver visto il film, si capisce benissimo perché.
Il regista ungherese László Nemes
Ottobre 1944, Campo di sterminio di Auschwitz
Saul, ebreo ungherese, fa parte di un sonderkommando, ovvero un gruppo di lavoro creato dalle SS e composto da ebrei che al loro arrivo nei lager vengono scelti (essenzialmente per la loro robusta costituzione) per fare il lavoro “sporco” e avere così risparmiata la vita per qualche mese. Il lavoro consiste nell’accompagnare i nuovi arrivati verso le camere a gas (facendo loro credere che si tratti di docce), rimuovere i loro corpi (i “pezzi”, come li chiamano i loro aguzzini), trasportare i cadaveri verso i forni crematori e poi disperdere la loro cenere. Un giorno, Saul assiste alla scena di un ragazzino che viene ritrovato ancora vivo dopo la camera a gas (e che viene ucciso subito dopo). Dentro Saul scatta qualcosa, forse l'ultimo spiraglio di umanità: non avrà pace sino a quando non avrà dato una degna sepoltura a questo ragazzo. La sua spasmodica ricerca di un rabbino si intreccia con il tentativo, da parte del sonderkommando, di fare un attentato contro le SS per cercare la libertà.
Film di potenza mistica, oggetto contundente in grado di straziare il cuore, Saul Fia è lo sguardo sull'orrore allo stato puro, è la visione ininterrotta e insopportabile dell'abisso, del buio assoluto.
Il regista fa una scelta stilistica semplicissima: attacca la cinepresa sulle spalle del protagonista, come se fosse l'ennesimo fardello che lui debba portarsi appresso, come se ci fosse ancora spazio per un solo, infinitesimo dolore nella vita-non-vita di Saul e delle altre ombre intorno a lui. E sono ombre tanto più che tutto il resto, a parte il volto o le spalle di Saul, rimangono sfuocati, semplicemente perché non sarebbe possibile mettere a fuoco quello che c'è da vedere, perché andrebbe oltre l'umana sopportazione. Nemes ci fa sentire solo le voci, e quelle bastano e avanzano: prima quelle grondanti falsità delle SS che spingono i prigionieri dentro le docce (fate presto, la zuppa si raffredda, mi raccomando ricordatevi il numero di appendino sul quale avete lasciato i vestiti) e poi le urla di donne, uomini e bambini che vengono uccisi. 
Saul, il volto scarno, lo sguardo cocciuto e disperato (lo interpreta l'attore miracolo Géza Röhrig, al suo primo film!!!), si aggira per il campo senza fermarsi mai. La sua ricerca di un rabbino come ultima risorsa per dare un senso a quello che, non c'è logica o religione che tenga, un senso non ce l'ha.
E’ solo alla fine del film, quando scorrono i titoli di coda, che ci si rende conto di non aver respirato per due ore. Di essere rimasti in apnea, di aver sospeso ogni funzione vitale. Ed è solo a quel punto che le emozioni vengono a galla, tutte insieme, una specie di dolore sordo misto a lacrime interne, che si traduce all’esterno in un’espressione stravolta ed attonita.
Come sempre, in questi casi, mi sorge spontanea un’unica domanda: ma come è stato possibile che degli essere umani abbiano fatto questo ad altri esseri umani?
E mi torna in mente quella battuta, agghiacciante quanto efficace, sentita in un film di Woody Allen (credo fosse Deconstructing Harry/Harry a pezzi ma non ne sono certa). 

La sorella molto credente ed osservante del protagonista, interpretato da Allen stesso, lo rimprovera:
- Tu sarai uno di quelli che finiranno con il negare l’Olocausto!
E lui; di rimando:
- Ti sbagli, sorella, non solo so che hanno ammazzato 6 milioni di noi ebrei, ma so anche che i record sono fatti per essere battuti.
Ecco, in questo caso, speriamo proprio di no.

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