La vita e il cinema, qualche volta, si intrecciano. Si parlano tra loro senza che noi l’avessimo previsto, e può succedere che i film facciano da cassa di risonanza a situazioni reali e contingenti.
Ieri pomeriggio ero alla manifestazione “Mariage pour Tous”, dove un bel gruppo di persone (eravamo più di 100mila) ha marciato pacificamente da Place de La Bastille ai Jardins du Luxembourg in favore di una legge che permetta a tutte le coppie, etero e omosessuali, di sposarsi.
Ero lì che camminavo con i miei amici e guardandomi intorno non potevo fare a meno di pensare ad un bellissimo documentario visto qualche settimana fa: Les Invisibles, di Sébastien Lifshitz.
Questo regista francese di 44 anni, insegnante alla Femis (la scuola di cinema di Parigi), ha sempre messo al centro dei suoi lavori il tema dell’omosessualità. Il suo ultimo film non fa eccezione: Les Invisibles raccoglie le testimonianze di vita di alcune donne e alcuni uomini, in coppia e singles, tutti accomunati dal fatto di essere omosessuali e dall'essere nati tra le due guerre. Si tratta quindi di persone piuttosto anziane, che hanno dovuto fare i conti con una mentalità ben più retrograda di quella attuale, e che hanno dovuto lottare (e parecchio) per poter esprimere in libertà e senza condizionamenti esterni la loro identità sessuale. L’altro elemento interessante è che quasi tutti i protagonisti vengono da un contesto non urbano, o comunque non da grandi città (a parte una coppia che sta a Marsiglia, tutti gli altri vivono in campagna o in piccole città di provincia). La loro sfida dunque è stata ancora più forte e la lotta ancora più ardua.
Ognuno di loro ha avuto percorsi differenti: c’è chi ha capito subito di essere omosessuale, l’ha vissuto bene e si è impegnato politicamente per i diritti delle minoranze, chi lo ha capito dopo aver fatto una famiglia, con figli già grandi, chi è stato in tutta franchezza bisessuale sin dalla più tenera età (è il caso di un simpaticissmo signore di 80 anni che ha addosso un’allegria contagiosa), chi invece, oppresso da una famiglia troppo borghese e dalla mentalità penosamente ristretta, ha dovuto passare attraverso un percorso doloroso di repressione della propria sessualità per poi iniziare un lento cammino di consapevolezza.
Quel che è certo, è che per nessuno di loro è stato facile. La coppia di donne che si trova senza lavoro dopo aver dichiarato nei rispettivi uffici di essere omosessuale, è un esempio che vale per tutti. Eppure, nessuno di loro si è dato per vinto. Nello specifico, queste donne si sono trasferite in campagna, dando vita ad una azienda agricola che ha fatto la loro felicità, sia dal punto di vista materiale che spirituale.
La bellezza di Les Invisibles sta proprio nella limpidezza e nella semplicità con cui Lifshitz ha scelto di raccontare queste storie: i protagonisti, filmati nelle loro case o all'aria aperta, in situazioni quotidiane, senza nessuna messa in scena particolare, potrebbero essere nostri parenti, o nostri vicini di casa, o persone che incontriamo per caso al mercato. Quello che raccontano, lo possono capire tutti, nessuno escluso. A volte ci fanno ridere, a volte ci commuovono. Quello che hanno vissuto, forse, non è comune, ma è reale, tangibile, umanissimo, e qualsiasi persona, anche la più lontana da questa tematica, dotata di un briciolo di intelligenza (e di un pizzico di compassione, che non guasta mai) lo può integrare nel proprio bagaglio di conoscenze.
La cosa straordinaria di queste persone è la loro normalità.
Ed è questo il concetto più importante che traspare dal film. Essere omosessuali non rende le persone né migliori né peggiori, non rende speciali, non rende tremendi, non rende niente. L’unica differenza è che un omosessuale ama una persona dello stesso sesso anziché una persona di sesso opposto. Tutto qui. E non è che sia una scelta. Non è che uno lo fa apposta per dare fastidio all’altro 95% della popolazione. E’ un dato di fatto, punto. Ma è davvero così difficile da capire? E la lotta di questi invisibili è stata proprio quella di voler essere accettati nella loro normalità, di trovare posto in una società che voleva a tutti i costi farli sentire dei mostri, degli esseri inferiori, delle orribili minacce. Non hanno voluto nascondersi, perché sapevano di non stare facendo nulla di male, stavano solo vivendo la loro vita.
Ieri alla manifestazione, ho pensato che tutti noi avremmo dovuto dire grazie a queste persone anziane che prima di noi hanno fatto valere i loro diritti, spendendo ben più di tre ore a camminare nel freddo, rischiando ben più di un semplice pomeriggio tolto allo svago, per dire chiaramente al mondo come stanno le cose.
Ieri, guardando i miei amici gay e i loro genitori (ah, quanto mi piacciono queste mamme e questi papà che così sereni ed orgogliosi sfilano di fianco ai loro figli!) ho pensato due cose: la prima, è che mi sembravano tutto tranne una minaccia alla pace, la seconda, è che per fortuna non sono più invisibili.
E poi, come in un lampo, ho rivisto una scena tratta da Six Feet Under, quella in cui al funerale di un ragazzo gay che è stato picchiato a morte, alcuni manifestanti religiosi si presentano al funerale con dei cartelli con la scritta: God Hates Fags! (Dio odia i froci!), e Nate, il fratello di David (che è gay), si avvicina a quello che tiene il cartello e gli urla in faccia: God Hates Morons! (Dio odia gli imbecilli!).
Volevo ben dire...