Nonostante questo ritardo mostruoso, l'altra sera ho deciso di andare a rivedere un vecchio film (vuoi mettere, sul grande schermo!), e questo grazie alla rassegna per i 60 anni della rivista di cinema Positif, al Forum des Images.
Ultimamente, ho scoperto di avere una grande passione per i film americani degli anni '70, un decennio che a me non sta particolarmente simpatico. Tutta la faccenda del Flower Power, di Woodstock, Easy Rider e la Beat Generation, per non parlare del modo in cui andavano in giro vestiti, non sono esattamente la mia cup of tea ma, ciò nonostante, ho rivisto di recente alcuni film di quel periodo e devo ammettere di averli trovati di una modernità straordinaria. E mi hanno anche suscitato un sentimento che mi ha parecchio sorpresa: una grande nostalgia. Nostalgia per un mondo ed una società che non esistono più, che con l'occhio cinico del nostro oggi ci sembrano particolarmente innocenti, incredibilmente naïf e squisitamente old fashioned. Oddio, sto proprio invecchiando se inizio ad avere nostalgia per gli anni della mia infanzia...
Comunque, il film in questione è Three Days of the Condor di Sydney Pollack, anno 1975, con Robert Redford e Faye Dunaway (all'apogeo della loro carriera e anche della loro bellezza: lui all'epoca aveva 38 anni, lei 34).
Joe Turner, nome in codice Condor, lavora per la Cia in una sezione non operativa: il lavoro di Turner e della sua squadra è quello di leggere riviste e libri in tutte le lingue del mondo alla ricerca di codici segreti, trame ed intrighi nascosti. Un giorno, rientrando dal pranzo, Turner trova tutti i suoi colleghi uccisi. In preda al panico, cerca di mettersi in contatto con i suoi superiori, i quali gli danno un appuntamento per "metterlo in salvo". Il piano, in realtà, si rivela essere un agguato. Dopo aver rischiato di finire ucciso, e non fidandosi più di nessuno, Turner sequestra una donna (Kathy, una fotografa) fuori da un negozio e la obbliga ad aiutarlo. A poco a poco, l'uomo riesce a capire il complotto nascosto dietro l'uccisione della sua squadra, e la portata della scoperta gli rivela cose, sul suo paese e le persone che lo governano, che non avrebbe mai voluto scoprire.
Basato su un romanzo di James Grady, dove i giorni del Condor in realtà erano sei, questo film è un ottimo concentrato di tutti i migliori aspetti del cinema di spionaggio americano degli anni '70: solida trama, grande tensione, intrigo complicato ma non impossibile da seguire, bei dialoghi, attori super bravi (penso a Max Von Sydow che con la sua flemma bergmaniana irradia luce nella parte del killer), ottima regia. Oggi, ovviamente, alcune cose ci fanno sorridere, altre purtroppo ci lasciano attonite (tutte queste belle inquadrature delle Torri Gemelle, simbolo all'epoca dell'inattaccabile potere americano...), ma non dobbiamo dimenticarci che questo è anche uno dei primi film in cui si mette in risalto la manipolazione dei media e dell'informazione da parte del governo, una scoperta allora inquietante, oggi da noi praticamente metabolizzata. Quello che mi ha più colpita di questo film, però, è la sua malinconicissima atmosfera. Non erano begli anni, quelli, per l'America: la guerra del Vietnam era appena finita, il paese era ancora scosso dallo scandalo Watergate. Era un po' la fine dell'innocenza, la fine delle certezze su chi era buono e cattivo. La gente si sentiva sperduta, e i due protagonisti del film non fanno eccezione.
"Interessante" - le dice Joe dopo averle osservate a lungo - "ti sembrano foto fatte in inverno ma se le guardi bene capisci che sono state fatte in Novembre, in quello strano momento che non è più autunno, ma non ancora inverno".
La bellezza, a volte, sta tutta nelle sfumature.