Quest’anno, si sa, è stato l’annus horribilis del cinema. Le mie amatissime sale sono rimaste chiuse per la maggior parte del 2020 e, nonostante abbia cercato di vedere più film possibili, in sala ci sono stata solo 38 volte, quando di solito la mia media si aggira intorno alle 90-100. Insomma un’ecatombe. Per cui, a questo giro, non me la sento di fare una vera e proprio classifica, perché mi pare un anno non vissuto, un anno in cui non c’è stata gara o in cui, al limite, l’unica gara è stata quella della sopravvivenza. Ma vi parlo volentieri di una manciata di film (10) un po’ particolari, provenienti da tutto il mondo, che magari non vi è capitato di vedere e, chi lo sa, magari vi viene voglia di scoprire.
Eccoli qua, in ordine rigorosamente sparso:
La Llorona di Jayro Bustamante (Guatemala)
Ecco, vi è mai capitato di vedere un film guatemalteco? Scommetto di no, ma potete rimediare con questo ovni (che è la buffa parola che usano i francesi per dire UFO), assolutamente degno di nota. Non lo sapevo ma la storia recente del Guatemala assomiglia molto a quella del Cile, con abbondanza di genocidi, gente sparita e torturata ecc. ecc. Qui un generale che si è macchiato di cose orribili e la sua famiglia, accolgono in casa una donna delle pulizie che si scopre essere una Llorona, ovvero una Donna che piange, un fantasma vendicativo che non lascerà scampo a nessuno. A metà strada tra film di denuncia e horror, La Llorona è un film inusuale, disturbante e ipnotico, che non si dimentica facilmente.
System Crasher di Nora Fingschedit (Germania)
Sarà che è il film che ho visto alla riapertura dei cinema di Parigi a Giugno, ma questa pellicola mi ha letteralmente deliziata.
Benni è una ragazzina di 9 anni che passa da una casa famiglia all’altra. E’ scatenatissima, irriverente, molesta e nessuno riesce a darle una calmata. Il suo unico desiderio è quello di tornare a casa dalla madre e stare con la sorellina e il fratellino, ma la madre non è in grado di gestirla e non se la sente di riprenderla a vivere con lei. Micha, un giovane educatore, cercherà di aiutarla in tutti i modi, ma chissà se c’è speranza per questa piccola ribelle…
Sfido chiunque e non affezionarsi a Benni: per quanto irritante e sfrontata, la vitalità, l’estrema fragilità e l’immenso bisogno d’amore di questa ragazzina sarà in grado di far sciogliere anche i cuori più duri.
Un Rubio (Un Biondo)di Marco Berger (Argentina)
Marco Berger, si sa, è uno dei registi preferiti di Zazie.
Ogni film una gioia, ogni film un nuovo piccolo tassello di un percorso di grande coerenza artistica, visiva e tematica. E’ come se Berger, film dopo film, creasse una sua famiglia.
Nel caso di Un Rubio, Berger racconta di due ragazzi, Gabo e Juan, che lavorano insieme in una falegnameria e condividono un appartamento alla periferia di Buenos Aires. Gabo, timido e impacciato, è vedovo con una figlia piccola che ha momentaneamente affidato ai suoi genitori e che vede regolarmente. Juan invece è sicuro di sé e con un gran giro di ragazze che vanno e vengono dall’appartamento. Tra i due, a poco a poco, nasce un’attrazione reciproca impossibile da negare nonostante, all’apparenza, siano entrambi eterosessuali.
Adoro la maniera in cui Berger rappresenta la tensione erotica prima e poi la passione che divampa tra i due protagonisti. E adoro che ci sia sempre spazio per la tenerezza. Menzione speciale all’attore Gaston Ré per aver dato vita ad uno degli uomini più amabili che lo lo schermo ci abbia regalato in questi ultimi tempi.
Les choses qu’on dit, les choses qu’on fait di Emmanuel Mouret (Francia)
E’ un vero peccato che questo regista sia praticamente sconosciuto al di là dei confini transalpini, perché i suoi film sono sempre interessanti e quest’ultimo è, senza ombra di dubbio, il più bel film francese del 2020.
Il giovane Maxime, dopo una grave crisi sentimentale, lascia Parigi e va a passare qualche giorno nella casa di campagna del cugino François. Ad accoglierlo però (il cugino è stato trattenuto a Parigi da un imprevisto) trova solo Daphne, la ragazza di François, incinta di tre mesi. I due, perfetti sconosciuti, si ritrovano a vivere sotto lo stesso tetto e a condividere un’inaspettata quanto intensa intimità, fatta di lunghe passeggiate e altrettanto lunghe conversazioni. E il loro incontro non sarà privo di conseguenze. Film sontuosamente rohmeriano, cesellato da dialoghi fiume, Les choses qu’on dit, les choses qu’on fait (Le cose che si dicono, le cose che si fanno) è come un cocktail che si degusta piano e che nasconde sapori inediti e sorprendenti. Niente è come sembra, in questo film, ed è bellissimo lasciarsi trasportare dall’imprevidibilità e dall’intensità degli eventi. Gli attori sono tutti straordinari: Niels Schneider, Vincent Macaigne, Camélia Jordana e Emilie Dequenne sono un poker d’assi da non lasciarsi sfuggire.
Boze Cialo (Corpus Christi) di Jan Komasa (Polonia)
Ah, come sono belli i film Polacchi, peccato che ne arrivino sempre un po’ pochi!
Il giovane Daniel è appena uscito da un centro correzionale dove si è avvicinato alla religione e ha sentito “la chiamata”, ma la sua fedina penale gli impedisce di entrare negli ordini. Mandato a lavorarare nella segheria di uno sperduto paesino, per un equivoco viene scambiato per il nuovo prete: Daniel decide di mentire spudoratamente e si butta anima e corpo in questa sua nuova “missione”. E ovviamente non tutto andrà come previsto… Originale e imprevedibile, Corpus Christi è un film dove trovano spazio diversi temi: la fede, il perdono, l’elaborazione del lutto, l’ipocrisia delle convenzioni sociali e le ragioni per cui vale la pena vivere. L’attore protagonista (il giovane Bartosz Bielenia) è eccezionale e comunque si sa, da Fleabag in poi, vogliamo vedere qualsiasi Hot Priest ci capiti a tiro!
Rocks di Sarah Gavron (UK)
Nella Londra contemporanea, la giovanissima Shola (detta Rocks), una ragazza di colore, e il suo ancor più giovane fratellino, devono fare i conti con la fuga della madre (il padre non si è mai visto) che, sopraffatta dal non saper provvedere per i suoi figli, si eclissa non si sa bene dove. Di fronte alle avversità della vita, anziché soccombere, Rocks, grazie alla sua forza di volontà e all’aiuto di alcune amiche, riuscirà a trovare sempre una soluzione agli enormi problemi che deve affrontare.
A metà strada tra Andrea Arnold e Ken Loach, la regista Sarah Gavron ci regala un film difficile, crudo e realistico ma anche pieno di vitalità e di ironia. Mai cupo, mai squallido, il film ci fa capire la vera lotta delle persone condannate in partenza a soccombere per riuscire a svoltare nella vita. E mette l’accento sull’importanza dell’amicizia come fonte, forse unica, di conforto e sostegno. Il gruppo di ragazzine è di una bravura eccelsa e il fratellino di Rocks è da adottare seduta stante.
Lingua Franca di Isabel Sandoval (US)
Che cosa ci può essere di peggio per uno straniero senza il permesso di soggiorno che vive nell’America di Trump? Essere uno straniero che nel frattempo è diventata una straniera. Olivia è una transgender immigrata clandestina filippina che abita a Brooklyn e si occupa di accudire un'anziana signora. Il suo terrore è quello di essere fermata dalla polizia per dei controlli: lei sta cercando disperatamente di trovare i soldi per un matrimonio “finto” che le permetta finalmente di avere la Green Card ma non è così semplice. Quando sulla scena compare il nipote dell’anziana di cui si prende cura e iniziano ad uscire insieme, si accende nella donna una speranza.
Scritto e diretto da Isabel Sandoval, al suo terzo film ma al primo firmato come Isabel (i primi due erano stati girati da Vincent), Lingua Franca è un film molto sincero su una situazione delicatissima e complicata. Senza essere ispirato alla sua vita, la Sandoval ammette però di aver conosciuto bene tutte quelle paure di cui si fa carico la sua Olivia. Un bellissimo ritratto di donna che vale la pena di scoprire.
Nichinichi kore kojitsu (Every day is a good day) by Tatsumi Omori (Giappone)
Noriko è figlia unica e non è mai stata particolarmente brillante, soprattutto se paragonata alla cugina Michiko, bella e popolare. Spinta dalla madre, mentre ancora sta finendo i suoi studi, la ragazza inizia a frequentare delle lezioni di cerimonia del té tenute dalla maestra Takeda-san. Dapprima un passatempo come un altro, a poco a poco per Noriko l’appuntamento settimanale con la maestra e le altre allieve diventa un punto fermo della vita, al punto che continuerà a frequentare le lezioni per oltre 24 anni. Mentre le stagioni si sussegguono all’apparenza sempre uguali, Noriko impara i gesti della cerimonia e tutto quello che hanno da insegnarle sull’esistenza umana.
Per me che adoro il Giappone e la cerimonia del té, questo film era praticamente un invito a nozze, se poi aggiungete il fatto che a causa della pandemia è saltato un mio agognatissimo viaggio nel Paese del Sole Levante, il gioco è fatto. Ultima interpretazione dell’amatissima attrice dei film di Kore-Eda, Kirin Kiki (che qui è la maestra), Every day is a good day è un film che va gustato esattamente come una tazza di té durante la cerimonia: lentamente e pienamente. La bellezza e l’armonia dei gesti, la contemplazione dello scorrere delle stagioni, e quindi della vita, fanno il resto.
Kajillionaire di Miranda July (US)
Dal genio visionario e delirante dell’artista contemporanea/regista americana Miranda July (ve lo ricordate il suo meraviglioso Me, and you, and everyone we know?), arriva il film decisamente più improbabile dell’anno. Old Dolio (ma dove l’avrà trovato questo nome?), è una ragazza dall’aria grunge con dei genitori spiantati che vivono di piccoli e assurdi furtarelli. Non hanno neppure una vera casa in cui vivere, ma dormono in un ufficio in cui hanno messo dei materassi e che richiede delle cure particolari: a ore fisse, infatti, da una delle pareti cola della schiuma rosa che se non fermata inonderebbe tutto. Un giorno nelle loro vite irrompe Melanie, una ragazza sveglia e super sexy, che si unisce al gruppo per cercare di fare un po’ di soldi. E sarà grazie all'incontro con lei che Old Dolio scoprirà una nuova consapevolezza di sé.
Questo è uno di quei film per i quali le mezze misure non sono ammesse: o si accetta di entrare nel mondo inverosimile della July o tanto vale restarne fuori perché si rischia di odiarlo dal primo istante. Sarà che adoravo gli attori (Richard Jenkins e Debra Winger nella parte dei genitori, la pétillante Gina Rodriguez in quello di Melanie e la bravissima Evan Rachel Wood in quella di Old Dolio), ma io mi sono lasciata trascinare dall’assurdità e dalla tenerezza di questa strana famiglia.
Photograph di Ritesh Batra (India)
Dallo stesso regista di Lunch Box e Our souls at night, Ritesh Batra, Photographracconta la storia di Rafiq, uno street photographer di Mumbai che si guadagna da vivere facendo foto ai turisti davanti al Gateway of India di Mumbai, e Miloni, una giovane studentessa di una famiglia benestante. Rafiq fa una foto a Miloni e, per una serie di strane circostanze, finisce per raccontare alla nonna, preoccupata dal fatto che il nipote alla sua età ancora non si sia sposato, che si è fidanzato proprio con Miloni, mostrandole la foto come prova. All’arrivo improvviso della parente in città, Rafiq si trova costretto a cercare Miloni per chiederle di aiutarlo. Quello che amo di questo regista è il tocco leggerissimo che ha nel fare i suoi film. Le sue storie sembrano disperatamente cercare di raccontarci la tenerezza e la gentilezza che mancano al mondo moderno. I suoi personaggi, spesso taciturni e timidi, si aggirano per le strade brulicanti delle città indiane, con l’aria di stare cercando qualcosa che vada ben oltre le apparenze e le facili soluzioni. Di questo film ho adorato la scena finale (ambientata, guarda caso, in un cinema) che per me rimane uno dei ricordi più piacevoli di questo triste e sconsolato 2020. Chi lo sa, forse la tenerezza dei fotografi indiani salverà il mondo!
E per augurarvi un Felice Anno Nuovo, cari lettori, scelgo il trailer di quello che è stato il mio film preferito del 2020, DRUK (Another Round) di Thomas Vintenberg, con uno straordinario Mads Mikkelsen. Un film in realtà piuttosto triste ma pieno di quella vitalità che è l'unica cosa a cui possiamo aggrapparci per affrontare questo 2021.
Non sarò mai abbastanza grata al settimanale francese Télérama che in questi 15 anni di vita parigina mi ha fatto scoprire una quantità incredibile di capolavori artistici (libri, film, dischi, mostre). Questa settimana la rivista ha colpito ancora, dandomi una dritta su una serie tv inglese che non so come mi era sfuggita, e che ho visto per intero ieri sera sul sito di arte.tv senza riuscire a staccare gli occhi dallo schermo (si tratta di 4 episodi, i primi 3 di circa 45 minuti e l’ultimo un po’ più lungo, di 75 minuti): The Virtues di Shane Meadows.
Il protagonista è Joseph, un cinquantenne irlandese che vive da anni a Sheffield e lavora come manovale nelle costruzioni. Joseph ha un figlio di 9 anni, l’essere umano a cui è più legato al mondo, che proprio all’inizio della storia si trasferisce a vivere in Australia con la madre ed il nuovo compagno di lei (che si intuisce avere mezzi finanziari ben più consistenti di Joseph). La partenza del figlio getta l’uomo nella disperazione: dopo due anni di totale sobrietà, Joe si rimette a bere e, su un colpo di testa, decide di abbandonare tutto e tornare in Irlanda, alla ricerca dell’unica sorella che ha e che non rivede da oltre 30 anni, Anna. Lui e Anna avevano perduto i genitori quando erano ancora piccoli ed erano stati (assurdamente) separati: lei era stata adottata da una nuova famiglia, mentre lui era stato e mandato in una casa famiglia per ragazzi, dalla quale era scappato una notte senza più dare notizie (al punto che la sorella lo credeva morto). Anna accoglie Joe in casa: lei è sposata, ha tre figli piccoli, e in quel momento la famiglia sta ospitando anche la sorella del marito, una ragazza che si intuisce un po’ problematica, Dinah. Il ritorno di Joe non è di tutto riposo: il fatto di rivedere i luoghi della sua infanzia, ed in particolare il vecchio edificio che ospitava la casa-famiglia dalla quale era scappato a 9 anni, riporta alla luce il ricordo di un trauma che Joe aveva parzialmente rimosso e che ora non riesce più a nascondere.
Inutile girarci tanto intorno: se siete alla ricerca della “feel good tv series” del momento, passate oltre. The Virtues richiede una certa dose di volontà, quella di farsi investire in pieno da una marea di dolore. Eppure, io lo penso e lo ripeto spesso: non importa quanto sia deprimente una storia, se è ben scritta, filmata e recitata, non esiste niente di più straordinario da vedere e da vivere. Sono i film fatti male, che mi deprimono. Purtroppo ispirata ad una storia realmente vissuta dal regista, la storia di Joe è a dir poco lacerante, ma Meadows è straordinario proprio in questo: in uno stile sobrio, realista, ma mai sciatto o anti-estetico, ci rivela i personaggi in tutta la loro disarmante umanità (e disumanità) senza mai cadere nel sentimentalismo, nel sensazionalismo, nella faciloneria. In parallelo, il regista ci mostra Joe oggi e, con scene che sembrano filmati in VHS della fine degli anni ’70-primi anni ’80, i suoi ricordi di bambino. Nei primi episodi sono dei flash improvvisi, confusi, e mano a mano che la storia procede si fanno più lunghi e precisi. Ma sono le scene tra i due fratelli le più straordinarie, a mio avviso. Raramente ho visto momenti di cinema così intensi e commoventi: il modo in cui si parlano, piangono, si abbracciano, lascia interdetti di meraviglia. Ho letto una cosa abbastanza straordinaria sulla prima di queste sequenze: uno degli attori, il giorno in cui dovevano girare, ha ricevuto uno notizia terribile di tipo personale. Anziché decidere di non lavorare, d’accordo con il regista, ha utilizzato il suo stato d’animo (che ben si accordava alla situazione) per la scena. Avevo letto questa cosa prima di vedere l’episodio e quando l’ho avuta sotto gli occhi mi sono resa subito conto di chi stesse male, ma allo stesso tempo la reazione dell’altro attore era talmente tenera ed empatica, che sono scoppiata a piangere senza ritegno perché quel misto di realtà e finzione era profondamente sconvolgente.
Per creare tutto questo, lo avrete capito da soli, c’è bisogno di attori che definire bravi è un eufemismo. Complice di tanti fim di Meadows, l’attore inglese Stephen Graham (forse ve lo ricorderete nel ruolo di Al Capone in Boardwalk Empire), qui assurge a vette degne dei più grandi. Il suo fisico massiccio, da pugile, la sua faccia vissuta, sembrano quasi in contrasto con le emozioni e la fragilità che riesce ad esprimere. Accanto a lui, due attrici altrettanto incredibili, le irlandesi Helen Behan nel ruolo di Anna e la giovane Niamh Algar in quello di Dinah. E, giusto per rendere il tutto ancora più perfetto, la colonna sonora è stata composta dalla musicista inglese PJ Harvey. E vabbé, allora ditelo che volete colpirmi al cuore. Meadows ha citato Martin Scorsese e Ken Loach come suoi riferimenti cinematografici per The Virtues, ma io da anni cercavo il nuovo Mike Leigh, e adesso posso finalmente darmi pace, perché penso proprio di averlo trovato.
Devo confessarlo: non ho mai particolarmente amato il teatro. Troppo reale, per i miei gusti. Vuoi mettere lo schermo buio e il salto in un altro mondo, in un’altra vita, che il cinema ti può regalare? Però, per assurdo, è stato il cinema che mi ha portato più spesso a teatro. Nel senso che ci sono sempre andata per veder recitare i miei attori cinematografici preferiti. Perché quasi tutti, lo ammetto, è da lì, che arrivano. Negli anni ho accumulato ricordi bellissimi che oggi, nell’era di questo stramaladetto virus, brillano ai miei occhi di una luce speciale: oh, stare seduta in un teatro accanto ad altri esseri umani, oh, poter applaudire, scoppiare a ridere o a piangere tutti insieme, oh, aspettare allo stage door il tuo attore preferito nella speranza che ti faccia un autografo o scatti una foto con te. Insomma tutte quelle piccole cose meravigliose che oggi non si possono avere. Il mio più grande cruccio è stato quello di non essere riuscita a vedere Daniel Day Lewis quando ancora recitava a teatro. L’ultima volta è stato per un Hamlet al National Theatre di Londra nel 1989: una sera, nella scena in cui appare ad Amleto il fantasma del padre, a Day Lewis è apparso il fantasma del suo, di padre (il poeta irlandese Cecil Day Lewis). Risultato: il nostro DDL ha piantato la rappresentazione a metà e non ha mai più messo piede su un palco. Oggi minaccia di non mettere mai più piede nemmeno su un set. Vedi a volte le crudeltà della vita.
Con gli altri miei attori preferiti sono stata più fortunata. Nel 2000, ad esempio, sono stata a Broadway a vedere Gabriel Byrne recitare in una pièce di Eugene O’Neill, A moon for the misbegotten, ed è stata una cosa indimenticabile. Con lui recitava un’attrice straordinaria, Cherry Jones, oggi piuttosto famosa grazie al piccolo schermo (è la mamma di Elisabeth Moss in The Handmaid’s Tale, per dirne una). Ho fatto stage door e sono riuscita a parlare con Byrne, un signore gentilissimo (e bellissimo!) che mi ha pure fatto l’autografo (i tempi del selfie erano ancora di là da venire).
Ma è stata Londra la città che mi ha dato le più grandi soddisfazioni. Un paio di volte sono stata a vedere Ralph Fiennes, a teatro. La prima in una pièce di Henrik Ibsen (Brand) durante la quale ho seriamente temuto di morire di inedia e di noia (Ibsen è peggio di Bergman in quanto a pessimismo cosmico e calvinismo spinto) e la seconda in The Tempest di Shakespeare, e quella volta è andata decisamente meglio.
In ogni caso, l’attore che ho visto più spesso a teatro, ma tu pensa che strano, è Jeremy Irons. L’ho visto recitare in un evento storico, il suo ritorno sulle scene dopo 18 anni di assenza, in Embers di Christopher Hampton (tratto dal romanzo di Sandor Marai), al Duke of York Theatre. Era l’ormai lontano 2006. All’epoca ancora non lo conoscevo di persona, ero stata ad una matinée e avevo aspettato per più di un’ora fuori dal teatro nella vana speranza di vederlo comparire. Niente.
Mi sono rifatta con gli altri due spettacoli a cui ho assistito: uno è stato (nel 2010) l’incredibile The God’s Weep di Dennis Kelly all’Hampstead Theatre, sorta di moderno King Lear nella quale Irons per 3 ore mesmerizzava l’audience con una performance fisicamente e psicologicamente provante, e l’altro il classico A long day’s journey into night di O’Neill al Wyndham theatre, in pieno West End londinese, un paio d’anni fa. Anche in questo caso si trattava di una matinée, ma qui mi ero fatta furba, il giorno prima lo avevo avvertito che ci sarei andata e quando ho bussato alla stage door e un signore è venuto ad aprirmi, gli ho detto che Mr. Irons mi stava aspettando. Lui mi ha guardato dubbioso, anzi diciamo pure molto dubbioso, ma ha preso lo stesso il mio nome ed è andato ad informarsi. Quando è tornato, mi ha sorriso e mi ha fatto passare. Le confermo che la sta aspettando, mi ha detto. Solo questo episodio avrebbe meritato un post, ammettetelo!
Il mio ultimo attore preferito in ordine di tempo, come certo saprete (ho l’inconfondibile vizio di far partecipi le persone delle mie ossessioni), è l’irlandese Andrew Scott. Anche nel suo caso ho un grande cruccio: ricordo ancora come fosse ieri di essere passata davanti all’Almeida Theatre nel 2017 ed essermi detta che dovevo assolutamente andare a vedere il suo Hamlet. Ero a Londra per lavoro e la pièce durava quasi 4 ore. Mi sono scoraggiata e ho lasciato perdere. Ancora oggi non me lo perdono. Così, quando l’anno scorso, in pieno delirio Fleabag, l’Old Vic ha annunciato una nuova produzione di Present Laughterdi Noël Coward con Andrew Scott nel ruolo di Garry Essendine, il protagonista, non me lo sono fatto ripetere due volte e ho comprato subito un biglietto. Nello spettacolo Scott era in grado di generare fragorose risate nel pubblico ad un ritmo forsennato, e baciava con la stessa giubilatoria passione uomini e donne indistintamente, lasciando noi povere fanciulle nella transitoria speranza che questa benedetta bisessualità potesse per osmosi traslare nella sua vita reale. Ahimé, invano.
Alla fine della rappresentazione, mi sono messa pazientemente in fila, insieme ad un gruppo foltissimo di ragazze, davanti alla fatidica stage door. Metà delle fanciulle erano fans di Moriarty e metà dell’Hot Priest. Io di entrambi, ma più del secondo. L’età media era chiaramente 20 - 25 anni al massimo. Che cosa ci facessi lì io, senza cena, al freddo, con il doppio dei loro anni, in attesa di un attore dichiaratamente gay, è un mistero pari a quello non svelato di Fatima. E chi sono io per rivelarlo, direte voi. E infatti. Quando è arrivato il mio turno, Scott mi ha spiazzato parlando lui per primo: Wow, you look so stylish! (in effetti avevo un vestitino vintage giallo veramente niente male, ero strafelice del complimento ma anche atterrita dal fatto che quella fosse la prova incontrovertibile della sua gaytudine… quale etero al mondo avrebbe degnato quel vestito di uno sguardo?!). La sua frase è bastata a farmi perdere la testa, tutte le cose belle e intelligenti che avevo pensato di dirgli sono sparite dalla mia mente tipo lavagnetta magica e l’unica cosa che mi ricordo è che abbiamo fatto insieme questa foto qui (nella quale tutto sommato sembra che io sia ancora in possesso delle mie facoltà mentali, cosa della quale dubito fortemente):
In questo 2020 annus horribilis per cinema e teatro, prima dell’estate è arrivata una notizia portentosa: The Old Vic proponeva una serie di spettacoli teatrali virtuali che si potevano tranquillamente seguire sullo schermo del proprio computer. Tra questi, un nuovo lavoro con protagonista assoluto Andrew Scott, in una pièce in 3 atti scritta apposta per lui dal drammaturgo inglese Stephen Beresford (sceneggiatore del film Pride nonché compagno di Scott in un recente passato… certa gente ha proprio tutte le fortune) dal titolo Three Kings. Lo spettacolo era previsto per l’inizio di agosto ma, pochi giorni prima della rappresentazione, il teatro ha inviato un messaggio per avvertire che sarebbe stato posticipato a data da destinarsi: Scott doveva fare una piccola operazione (ci rassicuravano sul fatto che si trattasse di una cosa non seria e che nulla avesse a che vedere con il Covid) e quindi bisognava dargli il tempo di riprendersi. Non vi dico la preoccupazione delle fans, lo so perché su FB sono iscritta a qualsiasi gruppo che abbia Scott nel nome, e c’era gente che diceva di non riuscire a dormire perché troppo in ansia per la salute del nostro idolo. Ammetto con un certo sollievo di non essere arrivata a tanto. Mi spiaceva molto per lui ma ho continuato a dormire sonni tranquilli (anche perché è rassicurante sapere che in giro c’è gente mooolto più pazza di te, che già pensavi di esserti piazzata bene in classifica). Lo spettacolo, alla fine, è stato riconfermato agli inizi di Settembre. Per cui qualche giorno fa io e la mia amica Giulia, con la quale condivido questa insana passione per gli hot priests, eravamo davanti al mio computer di casa in trepidante attesa.
Ad essere sincera, non sapevo bene che cosa aspettarmi da uno spettacolo virtuale e temevo un po’ sia la freddezza del mezzo che lo straniamento della situazione. E invece, niente di tutto questo. Per prima cosa, dopo esserci collegate al sito del teatro via zoom, ci siamo rese conto che si sentiva un simpatico sottofondo: proprio come quando si è a teatro in attesa che inizi lo spettacolo, si sentiva il brusio delle gente che chiacchierava, un effetto molto rassicurante. Ad un certo punto, a circa 15 minuti dall’inizio della rappresentazione, si è sentito un campanello e poi la voce di una donna che invitava i signori e le signore a prendere posto perché lo spettacolo stava per cominciare. Insomma hanno cercato in tutti i modi di ricreare un vero teatro, e la sensazione era piacevolessima. Quando Scott è comparso nella sala vuota, solo, leggermente al buio, la magia ha operato immediatamente. Storia di un padre poco amorevole, inaffidabile, incapace di essere presente nella vita dei figli, pieno di donne e concentrato solo su se stesso, Three Kings è raccontato da uno dei suoi figli, Patrick, in tre scene successive, e in tre momenti diversi della sua vita. Nello spazio di un'ora, Scott interpreta un bambino di 8 anni, un adolescente, un adulto sconsolato, un padre, due figli, varie donne, e passa dalla serietà al cinismo al riso al pianto con una bravura che lascia letteralmente senza fiato. Far piangere attraverso lo schermo di un computer non è da tutti, ma lui ci riesce senza nessun problema, e possiamo testimoniarlo in due.
Insomma ci sono giorni in cui arrivo a pensare che in fondo vedere una pièce non sia così male! Però, certo, se mi chiedete qual è stata la più grande emozione che ho provato a teatro, vi devo sinceramente rispondere che non è stata proprio dentro una sala ma piuttosto appena fuori. Quella volta in cui all'Hampstead Theatre io e Jeremy Irons (ve l'avevo detto che ero stata ampiamente ripagata da quella prima vana attesa!) ci siamo seduti a parlare su una panchina che avevamo letteralmente rubato nella hall e piazzato fuori dalla porta, perché lui potesse fumare. Il teatro dietro di noi era ormai al buio e si sentivano solo le nostre voci e io non riuscivo a credere che fossimo lì a chiacchierare del più o del meno come se nulla fosse. Ogni tanto uno degli altri attori partiva e noi lo salutavamo da lontano, con le voci che scomparivano nel bellissimo silenzio del parco lì davanti. E per quanto mi sforzassi di ricordare che fossimo a teatro, la verità è che a me sembrava proprio di stare in un film.
Ho scoperto di essere estremamente prevedibile, durante il lockdown.
Continuavano a piacermi le stesse cose che mi piacevano prima che tutto chiudesse.
Continuavo a pensare a quanto sarebbe stato difficile non vedere la mia famiglia e i miei amici, a non fare la valigia per andare da qualche parte nel mondo, a non girellare tra i banchi delle brocantes nelle strade parigine, e a non sedermi in una sala buia davanti ad uno schermo gigante. Ho soprattutto continuato a pensare che la vita nei film è sempre meglio di quella reale. Non avevo certo bisogno di un confinamento per esserne certa, ma tant’è. Per cui, in maniera del tutto prevedibile, lunedì 22 Giugno ero davanti al mio cinema preferito di Parigi che riapriva quel giorno le sue porte:
Il Cinéma des Cinéastes è un cinema indipendente a due passi da Place Clichy. Mi piace perché ha una programmazione geniale, perché la sala più grande è una delle più belle che ci siano in città, e perché al primo piano c’è un bistrot carino e davvero perfetto per quando vuoi bere o mangiare prima o dopo un film. Non eravamo in tanti, quel giorno, al massimo una ventina: c’eravamo io e la mia amica Giulia e altre persone che, come noi, avevano sofferto di questa mancanza più di quanto fossero disposti ad ammettere. Io per la verità lo avrei ammesso senza problemi.
Un’ossessione è un’ossessione, c’è poco da fare.
Ci guardavamo sorridendo con l’aria di quelli che fanno parte di una setta segreta la cui parola d’ordine sarebbe ovviamente Fidelio (persino per me che trovo Kubrick un po’ troppo freddino).
La cosa davvero speciale è che il gestore del cinema insieme ad alcuni rappresentanti dell’ARP (la Société civile des Auteurs Réalisateurs Producteurs) sono venuti a darci il benvenuto.
Hanno esordito dicendo: Siamo felici di vedervi, ci siete mancati!
Dalla sala si è levato un coro: Anche voi!!!
Proprio mentre stavano parlando, si è aperta la porta ed è entrata una signora dall’aria particolarmente felice. Ha guardato noi, ha guardato loro, e poi si è messa a dire a gran voce: Scusate se vi interrompo ma… ma quanto è bello essere di nuovo al cinema??!
Vabbé, era da non credere, sembrava proprio la scena di un film.
Noi siamo tutti scoppiati a ridere ed è partito l’applauso.
Insomma eravamo proprio felici (io mi sono anche un po’ commossa).
E poi la sala è diventata buia e ho ritrovato intatta quella sensazione che mi assale sempre ad ogni visione, in quell’istante preciso che non è più oscurità ma non è ancora cinema: la sospensione di possibile meraviglia, la rapida attesa di un altrove forse straordinario in cui si sta per entrare.
Da quando hanno riaperto i cinema, ammettiamolo, la programmazione non è un granché.
Tutti stanno aspettando l’autunno per far uscire i film “importanti”. Nel frattempo, hanno fatto riuscire tanti film che erano fuori al momento del lockdown, cosa che non mi ha aiutata perché io al cinema ci sono andata fino al giorno prima che chiudessero e quindi avevo già visto quasi tutto quello che mi interessava.
Comunque sia, sono molto felice dei primi film che ho già visto in questo periodo.
Ho iniziato con un bellissimo film tedesco, opera prima della regista Nora Fingscheidt: System Crasher (titolo francese Benni). Film su una ragazzina di quasi 10 anni, Benni (appunto), che passa il tempo a farsi buttare fuori dai centri d’accoglienza perché troppo ribelle, troppo violenta, troppo intrattabile. Una magnifica figura di “ragazza selvaggia” tanto irritante quanto adorabile in cui i suoi educatori, di solito piuttosto bistrattati in questo genere di film, sono invece descritti con un’umanità e un’abnegazione esemplari e commoventi. La giovanissima attrice protagonista, Helena Zengel, poi, è di una bravura impressionante.
Il secondo film del post-confinement è stato una certezza, perché amo il lavoro di questo regista da tantissimi anni e so di andare sul sicuro, con lui. Si tratta dell’argentino Marco Berger, e del suo Un Rubio (Un Biondo, titolo francese Le Colocataire), una storia d’amore tra due ragazzi che condividono lo stesso appartamento e che vivono la loro sessualità in segreto. Quello che adoro dei film di Berger è che sono film semplicissimi, fatti di pochissimi elementi, pochi dialoghi, pochi gesti, pochi luoghi, con i quali però riesce ad ottenere la massima resa. Nel senso che questa essenzialità crea un’attenzione irresistibile, una tensione palpabile, e ogni movimento, ogni parola, diventano importanti. E poi pochi sono in grado come lui di rendere sullo schermo il desiderio nascosto, l’attrazione nascente, e il profilarsi di un sentimento che spesso deve essere non rivelato perché impossibile o troppo complicato da vivere. Berger ha una sensibilità unica che è un vero piacere ritrovare sempre intatta sullo schermo.
Dall’Argentina sono passata a Brooklyn con il film Lingua Franca (titolo francese: Brooklyn Secret) di Isabel Sandoval, storia di una trans filippina (senza documenti in regola) nell’America di Trump. Scritto, diretto, interpretato e montato dalla Sandoval, il film non è autobiografico ma la regista si è ispirata a quanto personalmente vissuto dopo la sua trasformazione da uomo a donna (avvenuta alla fine del suo secondo film, Lingua Franca è la sua terza opera). Film non perfetto ma di grande carica emotiva, non lascia mai indifferenti e fa capire molto bene l’angoscia di chi vive in situazioni precarie nell’era Trump.
Infine, sono stata ad un’anteprima dell’ultimo film di François Ozon: Eté ’85 (Estate 85), storia d’amore con tragedia tra due ragazzi nell’estate, appunto, del 1985. Mah… che volete che vi dica? Ozon è un regista che amo un film sì e uno no, ma è raro che lo trovi straordinario. Questa era la volta del film no. Purtroppo ho detestato dal primo momento l’atmosfera del film ma soprattutto la faccia e il modo di recitare di uno dei due attori, Benjamin Voisin (nuovo idolo delle folle qui in Francia). A parte un paio di momenti carini e la faccia di Valeria Bruni Tedeschi davanti al nudo di un fanciullo, un film che ho dimenticato nel giro di due minuti. E no, non è mai un bel segno. Ma non importa, l’importante è essere tornati al cinema.
L’importante è essere rinati.