Che si metta lì davanti a voi e strilli a pieni polmoni: allora, vieni a vedermi??!
A me a volte succede, e con i film più strani.
L’ultimo caso mi è successo la settimana scorsa con un film del 1960, che passava alla Cinémathèque Française (sempre Santa Subito!) nel quadro di una Carte Blanche (che è quando ad un regista o attore o altra persona che lavora nel cinema danno la possibilità di far vedere i film che vuole) della regista francese Axele Ropert.
Strangers when we meet di Richard Quine era uno dei tre film che lei aveva scelto di mostrare.
Ora, non so se riesco proprio a dirvi i motivi per cui questo film mi chiamasse: è stato un misto di intuizione, curiosità e sesto senso vintage. Credevo di conoscere più o meno tutti i film degli anni 50 americani, diciamo almeno quelli più importanti e più famosi, ma questo mi era completamente sfuggito. E ha davvero dell’incredibile.
Aveva tutto per piacermi: l’ambientazione (LA nel 1959), gli attori (Kim Novak in pieno stile Vertigo e Kirk Douglas), la trama (un mélo un po’ alla Douglas Sirk).
E infatti, nonostante non abbia trovato nessun amico disposto a venire con me, nonostante la fredda e piovosa serata di febbraio, e il fatto che la Cinémathèque stia dall’altra parte della città rispetto a me, sono andata a vedere il film e ho scoperto un vero gioiello. La storia è presto detta: Larry, un architetto free-lance, e Maggie, una casalinga, vivono nello stesso quartiere residenziale di LA. Sono entrambi sposati con prole (due figli nel caso di Larry e uno nel caso di Maggie). E’ proprio grazie al fatto che i figli frequentano la stessa scuola che si vedono per la prima volta. Larry è subito colpito dalla bellezza un po’ di distante di Maggie. Con la scusa di farle vedere il cantiere di una casa che sta costruendo per uno scrittore di successo, Larry e Maggie cominciano a fare conoscenza. Dal frequentarsi a diventare amanti, il passo è breve. Il problema è che si innamorano seriamente l’uno dell’altra e, a quel punto, capiscono di dover prendere una decisione radicale per le loro vite.
Vi dico subito perché questo film è notevolissimo: per la sua modernità.
Su una trama piuttosto trita, si inseriscono infatti elementi che per l’epoca dovevano essere al limite del trasgressivo. Ricordiamoci che qui siamo ancora lontani dal Flower Power e dalle rivoluzioni sessuali, siamo giusto alla fine di uno dei decenni più puritani che l’America abbia prodotto.In Strangers when we meet un tema importantissimo è il desiderio sessuale femminile.
Kim Novak/Maggie è sposata con un “classico” uomo degli anni 50, uno che si aspetta dalla moglie che se ne stia a casa, gli cresca il figlio, gli faccia trovare pronto in tavola e attenda con pazienza che lui abbia voglia di andare a letto con lei (in questo caso specifico, di pazienza ne deve avere tanta, perché il fanciullo non è esattamente un tipo focoso).
Quando Maggie prova ad affrontare il discorso in maniera diretta, lui trasecola: come osa sua moglie parlargli di un argomento così fuori luogo? Il divario tra il desiderio di lei e la percezione di lui sembra assolutamente insanabile. Nel corso del film verrà alla luce anche un altro episodio che riguarda Maggie e che la dirà lunga sulla disperazione della sua situazione; anche questo un esempio molto “forte” rispetto agli standard dell’epoca.
Ma non voglio troppo spoilerare.
Kirk Douglas/Larry, invece, rappresenta in qualche modo l’uomo nuovo, moderno, che sa stare al passo con i tempi. Si capisce che anche a lui sta stretto il ruolo di semplice marito, quello che deve portare a casa i soldi per far andare avanti la famiglia, cosa che gli viene costantemente ricordata dalla moglie, una donna bella, intelligente e amorevole, ma fermamente convinta che il marito dovrebbe accettare lavori più lucrativi. A Larry invece preme portare alla luce il suo lato creativo, gli piace l’idea di prendere dei lavori meno importanti ma più interessanti, che gli consentano di esprimere se stesso e i suoi gusti in fatto di architettura. Anche sotto questo punto di vista il film è quasi contemporaneo, e questo discorso sull’arte e quello che può rappresentare è molto ben tradotto dal rapporto tra Larry e lo scrittore per il quale sta progettando la casa, Roger Altar. Personaggio incredibile: un po’ dandy, un po’ cinico, sempre circordato da belle donne piuttosto vanesie, sempre con un bicchiere di super alcoolico in mano, sempre tormentato dai dubbi sul suo talento. L’attore che lo interpreta, Ernie Kovacs, è straordinario (e anche nella vita reale, da quello che ho letto su di lui, incuriosita, subito dopo la visione del film, pare fosse un personaggio decisamente larger than life).
I loro dialoghi sono pieni di humor e doppi sensi ma anche di sincerità e profondità, e portano il film verso strade non banali ed inaspettate, per questo genere di pelicola.
Un altro bellissimo personaggio è quello di Walter Matthau, che qui intepreta un vicino di casa moralista e perbenista che si rivela essere il peggiore degli ipocriti ed il più disgustoso esempio di essere umano.
Infine, ma mi rendo conto che questo è un discorso molto, molto personale, di questo film mi ha sconcertato la bellezza… di tutto! Dalle strade della città, alle macchine, alle case (voglio vivere in quella di Larry e la moglie TUTTA LA VITA), agli oggetti, per non parlare dei vestiti di Kim Novak e persino di quelli di Kirk Douglas (ad un certo punto sfoggia un cardigan rosso da urlo), la meraviglia degli anni 50 appare davanti ai nostri increduli occhi in tutto il suo splendore.
Se la famosa lampada di aladino mi regalasse almeno un desiderio da realizzare, risponderei senza dubbio alcuno che vorrei poter vivere in questo film.
Avendo, come bonus, la possibilità di togliere a Kirk quel bel cardigan rosso...