I watch over and over again old movies, when I'm home. It is one of the greatest pleasure in life, I reckon. There is always something new to discover: an image we forgot, a perfect dialogue we've missed, an interesting look we didn't notice the first time we watched them. Tonight I've seen for the third time The Thomas Crown Affair (1968) by Norman Jewison, with Steve McQueen and Faye Dunaway. A classic movie. A very good one. The plot is intriguing but by far the three things that work best in the film are the dialogues (absolutely brilliant), the wonderful music by Michel Legrand and the magical chemistry between Thomas Crown (McQueen) and Vicki Anderson (Dunaway):
As usual, I was struck by something amazing that for some strange reasons I had previously missed. After their first date, Crown drives Anderson back home, at night. In front of her house, while still inside the car, they start the following, simple and yet wondrous, dialogue (without changing the tone of their voices): TC: Tomorrow... VA: What about it? TC: Us, dinner. VA: Marvelous. TC: About six? VA: Perfect. My goodness, would that it were so simple, as the Coen Brothers would put it. An affair starting like this, in the most natural, casual and lighthearted way. I wish it could happen in real life, but well, we know what real life is. It's... complicated!
In anni ed anni di visioni, ho sviluppato un certo sesto senso cinematografico. Quella cosa misteriosa ed intensa che ti fa intuire nel giro di poche inquadrature che il film che stai guardando sarà un capolavoro oppure una mezza schifezza, o una schifezza totale.
A volte, tuttavia, riconoscere un buon film in un lampo o un buon regista nello spazio di una sola pellicola, non è impresa facile. Ci sono registi che lasciano dubbiosi. Si vede un film, e non si è del tutto convinti, se ne vede un altro, e il dubbio rimane, infine se ne vede un terzo e si ha un’illuminazione: trattasi, in effetti, di finto bravo regista (o invece di regista bravo per davvero).
Ieri sera ho avuto questo satori cinematografico, purtroppo in negativo, per il regista americano Jeff Nichols.
Al suo quarto film, Nichols (classe 1978) ha incuriosito con il suo debutto, Shotgun Stories (del 2007), è diventato famoso nel 2011 con Take Shelter, e si è confermato come regista di prestigio con Mud, l’anno successivo. Ammetto di non aver visto il suo primo film, ma ho diligentemente visto gli altri due, uscendo da entrambe le visioni con la famosa aria perplessa di cui sopra. Di sicuro avevo già capito che non era il regista della vita mia, ma mi dicevo che il ragazzo aveva stoffa, che le storie erano interessanti, e poi leggevo le critiche sui giornali e mi sentivo un po’ colpevole a non capire la presunta genialità di questo ragazzo. Poi ieri sera ho visto il suo ultimo film, Midnight Special, e mi è venuto il famoso dubbio globale: ma non è che, per caso, Jeff Nichols sia un regista-sòla? Non sarebbe il primo e non sarebbe nemmeno l’ultimo di registi così, ad essere incensato dai critici.
Jeff Nichols sul set di Midnight Special
Veniamo ai fatti: Alton, 8 anni, non è un bambino come tutti gli altri.
Può vivere solo di notte perché, alla luce del giorno, i suoi occhi sprigionano un raggio di luce talmente abbagliante da essere pericoloso sia per lui sia per chi gli sta intorno. Tutti i telegiornali americani parlano del suo rapimento: in realtà, Alton sta scappando con il padre, Roy, e un amico di quest’ultimo, Lucas. I due lo hanno liberato da una setta nella quale Alton era diventato una sorta di oracolo vivente. Una volta raggiunta la madre, Sarah, i tre si preparano a portare il bambino verso “la sua missione”, qualcosa di misterioso che deve avvenire nel giro di un paio di giorni. Peccato che il gruppo abbia alle calcagna mezza FBI e due scagnozzi della setta. Tutti vogliono mettere le mani sul bambino.
Riuscirà Alton a raggiungere il luogo della sua missione?
Alton (Jaeden Lieberher)
Sono presa da profondo scoramento pensando alla complicatezza e alla inadeguatezza di questa sceneggiatura, che ha dei buchi che manco il famoso formaggio svizzero. La setta chiamata il Ranch, tanto per cominciare: chi sono? che fanno? che ruolo aveva Alton mentre stava con loro? cosa significa questo loro look alla Witness-Il Testimone? e i numeri dei versetti che diventano coordinate??? E perché il padre si è svegliato solo adesso a portarselo via? Mah... mistero.
E’ come se il film iniziasse a film già iniziato, non so se rendo l’idea.
La fuga on the road ha del già visto e sentito in milioni di altri film (l’unica scena degna di nota è il satellite che si abbatte sulla stazione di servizio), e l’arrivo dalla madre non migliora certo le cose. Raramente ho visto un personaggio femminile più insulso. Senza alcuno spessore psicologico e del tutto irrisorio rispetto alla storia e al rapporto con il figlio, perché qui l’unico rapporto che conta (come in tutti gli altri film di Nichols, per altro) è quello con il padre.
Roy (Michael Shannon) e suo figlio Alton (J. Lieberher)
Per un attimo speri che succeda qualcosa di interessante quando compare sullo schermo Adam Driver, invece niente. Anzi, peggio: al suo arrivo, in mezzo a quei bruti ignoranti dell’FBI, capisci che il film sta prendendo una piega imbarazzante. Ovvero, Midnight Special (a proposito, se qualcuno mi spiega il titolo gli pago da bere), non è altro che una nuova, inquietante, inutile, e brutta versione moderna di Close Encounters of the Third Kind (Incontri ravvicinati del Terzo Tipo) di Spielberg, nella quale - temo, fortissimamente temo - Adam Driver/Paul Savier starebbe a François Truffaut/Claude Lacombe (si salvi chi può!).
E più il film si avvia verso il suo finale, più la paura dell’irreparabile si fa strada (e, puntualmente, accade). Non voglio spoilerare ma a me gli ultimi 15 minuti sono sembrati totalmente deliranti.
Un altro dei motivi per cui questo film, l’ho capito dopo un po’, non decolla, è la sua assoluta mancanza di ironia. Che in un film di questo tipo, si sa, serve a stemperare, alleggerire, prendere fiato, respirare.
No, qui sono tutti d’un pezzo e d’una noia assoluta. Salvo un paio di battute di Adam Driver (che per altro gli altri personaggi non capiscono), questo non è un paese per gente simpatica.
Paul Savier (Adam Driver)
Spiace dirlo, ma pure il cast non dà il meglio. Michael Shannon, attore-feticcio di Jeff Nichols, ancora una volta nella parte del padre, è bravo ma un po’ monocorde, e a dire il vero mi ha fatto venire un dubbio sulla sua intera carriera, nella quale è tutto un susseguirsi di pazzi o gente con dei problemi seri. L’australiano Joel Edgerton è invece totalmente sprecato nella parte del poliziotto amico di infanzia del padre che decide di aiutarli (che poi, per quale motivo? ma vabbé, non chiediamo troppo): il suo personaggio è privo di qualsiasi sfumatura e di quel pizzico di ironia che davvero non avrebbe guastato. Per non parlare di Kirsten Dunst, che non fa altro che guardarsi intorno con aria sperduta e lacrimevole, senza avere una battuta decente o qualcosa di vagamente interessante da fare o da dire.
E pure il bambino, Jaeden Lieberher, non è per nulla convincente (e lo preferivo quando faceva il figlio un po’ depresso ed incazzato dei Masters in Masters of Sex). Sarà che dopo il bambinello di Room non ce n’è più per nessuno, ma il gioco d’attore qui è palesissimo.
Lucas (Joel Edgerton), Roy, Alton e Sarah (Kirsten Dunst)
Insomma, io ve lo dico: ho l’atroce dubbio che Jeff Nichols sia una palla.
Ai posteri l’ardua sentenza. Nel frattempo: aridatece ET!
A grande richiesta, dato che i miei lettori sembrano aver apprezzato i miei consigli per i film in uscita nelle sale in questo periodo, ecco qua un’altra mini-lista di cose da vedere o da evitare. Perché è vero che è appena iniziata la Primavera ma, almeno qui a Parigi, il sole caldo e il cielo azzurro sono ancora un sogno lontano.... tanto vale buttarsi in un cinema! El Clan di Pablo Trapero (Argentina)
Se pensate di venire da una famiglia disfunzionale, tranquilli, dopo aver visto questo film la rivaluterete di sicuro.
Basato su una storia vera, El Clan riporta le gesta (ahimé non eroiche) di Arquimedes Puccio, sua moglie e i suoi cinque figli. Nei primi anni ’80, dietro una facciata di rispettabilità, il padre è a capo di una banda che rapisce giovani rampolli delle famiglie ricche di Buones Aires: gli ostaggi vengono nascosti in una stanza di casa Puccio fino a quando non viene pagato il riscatto, dopo di che, vengono ammazzati senza alcuna pietà. Padre e madre sono evidentemente e silenziosamente d’accordo, i figli un po’ meno: alcuni sono piccoli e non si rendono bene conto di cosa succede, un altro fugge perché non ce la fa più a sopportare la situazione e altri due decidono più o meno consciamente di dare una mano al padre nella gestione degli “affari di famiglia”.
Film quasi alla Scorsese ma senza il senso di colpa che rode dentro e senza la minima ombra di redenzione finale, El Clan rapisce (è il caso di dirlo) per il racconto compatto e scorrevole di questo mostro senza pietà, il padre dei Puccio. Freddo, crudele, manipolatore, in grado di ingannare il mondo grazie ad un’aria rispettabile e quasi innocente, capace di rimproverare ai figli di non essere abbastanza riconoscenti di “tutto quello che fa per loro”, insomma un essere umano davvero orrendo. Attraversato da uno humor nero piuttosto irresistibile, il film ha il pregio di rivelare al mondo (pare che in Argentina sia già molto famoso) un attore straordinario, Guillermo Francella. Right Now, Wrong Then (Un jour sans, Un jour avec) di Hong Sang-soo (Corea)
Giustamente considerato l’EricRohmer de noantri coreani (del Sud), Hong Sang-soo torna, dopo quel piccolo gioiello di Hill of Freedom, con un’altra delle sue storie così ordinarie da diventare straordinarie. Un regista di film indipendenti (ma guarda, chissà a chi si è ispirato?), arriva da Seoul in una piccola cittadina di provincia per partecipare alla proiezione di un suo film seguito da dibattito. Arrivato per sbaglio un giorno prima, visitando un templio si imbatte in una bella fanciulla, una pittrice, con la quale inizia a chiacchierare. Dopo aver preso un caffé insieme, la ragazza gli mostra il suo atelier e i suoi lavori, poi vanno a cena e si ubriacano un po’, e finiscono la serata nel locale di alcuni amici della ragazza. Il regista flirta da morire con la pittrice senza grande successo e si ritrova alla proiezione del suo film di pessimo umore e con la voglia di litigare con tutti.
Ecco, questa è la prima parte del film. La secondo parte è esattamente la stessa storia ma, grazie a scarti minimi di dialogo e situazioni, il finale sarà diverso. Idea già vista, direte voi, certo, ma questo regista ha un modo tutto suo, pieno di una grazia impacciata e incantevole, di raccontare le cose, e anche il coraggio, piuttosto raro, di far bella mostra delle umane debolezze. Insomma, una vera delizia. Consigliatissimo.
Astenersi quelli che “la mia signora ci vuole la trama!” (e in premio un bacio di Zazie a chi coglie questa citazione).
Room di Lenny Abrahamson (US)
Una ragazza poco più che ventenne festeggia il quinto compleanno di suo figlio Jack chiusa in una stanza. Non si tratta della stanza di una casa, ma del capanno di un giardino, nel quale è stata rinchiusa 7 anni prima da un uomo che l'ha rapita, l'ha violentata (e continua a farlo) e ha trasformato la sua vita in un incubo. Jack è il figlio di questo bruto, dal quale per quanto possibile lei l'ha sempre tenuto lontano, un bambino che non ha mai conosciuto niente altro, nella vita, che le quattro pareti del capanno e il resto del mondo attraverso le immagini della TV. Quando, con un furbissimo stratagemma, il bambino riesce a fuggire e a far liberare anche sua madre, i due si ritrovano per la prima volta insieme nel mondo là fuori. E le cose non saranno facili né per la madre né per il figlio. Storia agghiacciante e soggetta ad altissimo rischio strappa-lacrime, Room si rivela invece un film di grande impatto emotivo grazie ad una solidissima sceneggiatura, all'idea vincente di far vivere il film attraverso gli occhi di Jack e alla bravura dei due attori protagonisti: Brie Larson nella parte della madre (fresca di Oscar per questo ruolo) e, soprattutto, il piccolo Jacob Tremblay in quella di Jack. Attore di soli 9 anni con all'attivo già 15 film, riesce ad esprimere una vastissima gamma di emozioni, paure e sentimenti con una sottigliezza e una precisione tali da lasciare letteralmente strabiliati. Come non fosse candidato anche lui all'Oscar, quest'anno, resta per me un grande mistero. Brooklyn di John Crowley (Ireland/US)
Tratto dal romanzo di Colm Tóibin e sceneggiato da Nick Hornby, Brooklyn è la storia di Ellis, una ragazza che negli anni '50 lascia Enniscorthy, piccola cittadina del sud-est dell'Irlanda, per andare a lavorare a New York. Qui, mentre fa la commessa di giorno e la studentessa di sera, conosce Tony, un italo americano. Quando le cose sembrano mettersi bene, Ellis riceve dall'Irlanda la terribile notizia che la sua unica sorella è morta e la madre è rimasta sola. Sposatasi in gran segreto prima di partire, una volta in Irlanda Ellis si ritrova in preda al dubbio. Un ragazzo del posto, ricco e carino, si mette a farle la corte, ci sono nuove opportunità di lavoro e la madre vorrebbe che lei restasse lì. La decisione che deve prendere per il suo futuro, non sarà impresa facile. Film dall'impianto classico e sorretto da un'ottima regia, Brooklyn si ricorda soprattutto per la sua atmosfera. Permeato da un senso costante di nostalgia, di cose perdute, perennemente in bilico tra l'energia e la modernità di New York e la solidità e le vecchie (e a volte brutte) abitudini di un'Irlanda rivolta al passato, le immagini ci trascinano lentamente ma inesorabilmente nel dilemma di Ellis. E' questa maniera sottile, questo mai sbandierato tormento a rendere Brooklyn un film piuttosto speciale. Per il completo gonna+golfino+occhiali da sole+borsetta di paglia che sfoggia Ellis nella scena di Coney Island, io personalmente sarei pronta a lasciare uno stipendio. The Revenant di Alejandro González Iñarritu (US)
E insomma dopo mesi di trepidante attesa, ecco il film che tutti aspettavamo di vedere. Il nuovo Iñarritu (a distanza di un anno appena dall'exploit di Birdman), il film grazie al quale Leonardo Di Caprio è finalmente riuscito a ricevere la tanto agognata statuetta, l'opera d'arte per cui stuoli di attori e tecnici hanno trascorso mesi d'inferno, tra gelo e natura inospitale, pur di catturare la magia di luoghi incontaminati e la luce del sole al tramonto attraverso le fronde degli alberi (stesso cinematographer di Tree of Life, a posto così). Ecco, tutto questo gran daffare per raccontare la storia di una comunissima e banale vendetta, quella di un uomo a cui hanno ammazzato un figlio e che, pur di riuscire a far fuori il colpevole stronzo, nell'ordine, sopravvive a: l'attacco mostruoso di un'orsa grizzlie alta due metri e mezzo, la nuotata (sempre mezzo morto) tra rapide d'acqua gelida che manco un'atleta olimpionico, la traversata di non si sa quanti chilometri di terra innevata mangiando due bacche e un animale morto che fa asado perché hey, noi uomini veri accendiamo il fuoco pure con due pietruzze, la caduta da un'altezza inimmaginabile con cavallo appresso nella cui carcassa, dopo lo schianto al suolo, si nasconde per stare al calduccio e almeno quattro attacchi degli indiani con archi e frecce. Bene, e quando trova il colpevole che fa? Lascia decidere della sua sorte l'entità che è lassù nell'alto dei cieli. Che, dovesse risorgere oggi, un paio di domandine a Iñarritu secondo me le farebbe. L'unica cosa bella del film è la musica di Ryuichi Sakamoto e Alva Noto. Fate voi.