Vorrei che ai festival cinematografici in giro per il mondo la presenza in concorso di un film di una regista donna rappresentasse una normalità e non un’eccezione. L’anno scorso a Cannes non ce n’era manco uno, quest’anno... uno (dell'Italo-Francese Valeria Bruni Tedeschi). Davvero un po’ pochino, no?
Eppure, e l’ho già scritto diverse volte in questo blog, di donne che fanno cinema e lo fanno benissimo ce ne sono. Eccome. Ad esempio, c’è una regista che amo in maniera viscerale che una volta ha persino vinto la Palma d’Oro, al Festival di Cannes (era il lontano 1993): il suo nome è Jane Campion.
Neo-zelandese di nascita e australiana d’adozione, la Campion ha sempre fatto un cinema personalissimo e speciale, quasi sempre incentrato su figure femminili, tutt'altro che stereotipate, e spesso piuttosto disturbate. Le donne dei suoi film, è questa la cosa bella, sono donne estremamente vere. Sono stracariche di difetti, per dirne una. Fisici e mentali. Hanno corpi non perfetti, a volta decisamente grassi, sformati dalle nascite, usurati dalla vita quotidiana. E anche le teste non sono da meno: tormentate, piene di contraddizioni, di preoccupazioni, di desideri inespressi. Le sue donne possono creare addirittura fastidio: chi non ha avuto voglia di voltarsi dall’altra parte di fronte all’insopportabile disagio della grassa e antisociale Sweetie? O di innervosirsi di fronte all’ostinazione di Ada in The Piano? O di sentirsi male di fronte all’ipersensibilità confinante con la follia di Janet Frame in An Angel at my Table? Eppure è proprio racchiusa lì tutta la natura speciale e indispensabile dei film della Campion. Senza contare che si tratta di una regista dall’incredibile bravura stilistica. Alcune immagini dei suoi film sono di una bellezza fulminante, indimenticabile. Penso al pianoforte piantato in mezzo all’oceano e suonato da una donna che sembra stare chiusa in un mondo tutto suo al centro di quell’immenso spazio aperto, in The Piano. Penso al calore delle strade e al desiderio che sfianca i corpi, filmati come se fossero in un prisma ottico, in uno dei film più erotici e sensuali della storia del cinema, il sottovalutatissimo In the cut. Jane Campion racconta la difficoltà di essere una donna in un mondo concepito e governato dagli uomini, e dove, nel momento in cui le donne si scostano dai canoni abituali di bellezza e pensiero, il rischio di venire schiacciate, derise o messe da parte è altissimo.
Il suo ultimo lavoro non è un film ma una serie TV. Si intitola Top of the Lake, ho appena finito di guardarla e, come per tutte le cose che mi piacciono tanto, il ricordo di questi sette episodi si è attaccato alla mia corteccia cerebrale e non vuole più andarsene.
Il suo ultimo lavoro non è un film ma una serie TV. Si intitola Top of the Lake, ho appena finito di guardarla e, come per tutte le cose che mi piacciono tanto, il ricordo di questi sette episodi si è attaccato alla mia corteccia cerebrale e non vuole più andarsene.
Siamo in una piccola comunità alle pendici di un lago, appena fuori Queenstown, emisfero sud della Nuova Zelanda. Una ragazzina di 12 anni, Tui, figlia di uomo violento e potente che detta legge nella zona, viena trovata mentre si butta nelle acque gelide del lago. Si scopre che è incinta e, per trattare un caso così delicato, la polizia locale chiede aiuto ad una detective specializzata in casi di violenza sui minori, Robin Griffin. Originaria della zona, Robin vive a Sydney ma in quel momento è in città per accudire la madre gravemente ammalata. La detective inizia ad occuparsi del caso, ma quando Tui scompare, tutto si complica. E Robin dovrà affrontare traumi del passato e dolori del presente.
C’è del marcio, e pure parecchio, in Nuova Zelanda...
C’è del marcio, e pure parecchio, in Nuova Zelanda...
Johnno Mitcham (Thomas M. Wright), Robin Griffin (Elisabeth Moss) |
E' impressionante come gli spazi aperti di Top of the lake: il grande lago, le montagne intorno, l'immensa foresta, la sconfinata tenuta chiamata "Paradiso", si facciano a poco a poco, puntata dopo puntata, sempre più piccoli. Sino a diventare soffocanti. Ciascuno di loro contiene una storia che può essere ricondotta ad un gesto di paura, di violenza, di dolore. Trovo che sia questa atmosfera opprimente a fare la differenza con altre serie di questo genere. Robin si perde in un labirinto senza fine, sino a quando non le rimane altro che guardare dritto negli occhi il suo passato e da lì trovare la forza per affrontare il presente. L'innocenza sembra essere perduta in partenza, da queste parti, e la vita particolarmente dura nei confronti delle donne: non viene risparmiato nessun abuso, verbale o fisico, alle protagoniste di Top of the lake, e poco importa che alcune siano solo quasi bambine. Ma tutto quello che non uccide, si sa, serve a rendere più forti, e la Campion su questo sembra decisa a rendere giustizia alle sue protagoniste.
Il cast, che ve lo dico a fare, è di primissimo ordine. Su tutto e tutti spicca l'attrice americana Elisabeth Moss (la mitica Peggy Olson di Mad Men): l’intensità con cui interpreta Robin è semplicemente grandiosa e in un paio di scene è proprio da togliere il fiato. L'attore scozzese Peter Mullan, nella parte dello sporco, brutto, cattivo e fuori di testa Matt Mitcham, si conferma ancora una volta di una bravura eccelsa. Il fascino magnetico di Holly Hunter, nel ruolo della guru senza tanti peli sulla lingua GJ, invade ogni episodio, anche quando la si vede pochissimo. E tutti i comprimari sono eccellenti.
Tui Mitcham (Jacqueline Joe) |
Robin Griffin (Elisabeth Moss), Al Parker (David Wenham) |
Matt Mitcham (Peter Mullan), Robin Griffin (Elisabeth Moss) |
GJ (Holly Hunter) |
E pure quella della Campion, diciamocelo, ha ben pochi rivali.