Di recente, mi è capitata proprio questa fortuna.
Il film in questione è Once upon a time in Anatolia (C'era una volta in Anatolia) del regista turco Nuri Bilge Ceylan, la cui visione è paragonabile, per intensità e stravolgimento, alla lettura di un romanzo di Dostoïevski, alla contemplazione di un quadro di Bacon o all’ascolto di una sinfonia di Beethoven.
Ceylan (nato ad Istanbul nel 1959) è considerato il più grande regista turco contemporaneo e i suoi film, presentati nei festival cinematografici di mezzo mondo, sono spesso ricoperti di premi, in particolare al Festival di Cannes: Uzak (2002) ha ricevuto il Grand Prix du Jury e il premio per il Miglior Attore, Three Monkeys (2008) quello per la Miglior Regia, e la sua ultima opera, di nuovo, il Grand Prix du Jury (ma la Palma d’Oro, no? Ah, no, la Palma d’Oro l’hanno data a Tree of Life. Ah, ecco: bravi, complimenti).
Nuri Bilge Ceylan |
Once upon a time in Anatolia è un trip metafisico nei più oscuri meandri dell'animo umano, dal quale si esce, catarticamente, più lucidi e consapevoli che mai.
Ceylan costruisce con pazienza, scena dopo scena, un mondo dove niente è come appare a prima vista, dove sul paesaggio e sui personaggi si sono stratificati anni di solitudine, di dolore, di domande lasciate senza risposta, ma anche di momenti di felicità improvvisa, insieme ad altri completamenti assurdi e divertenti. I dialoghi fanno parte del piano. Sembrano fatti di niente, eppure alla fine del film si capisce che scavano a fondo, che stanno dicendo cose fondamentali.
Ceylan costruisce con pazienza, scena dopo scena, un mondo dove niente è come appare a prima vista, dove sul paesaggio e sui personaggi si sono stratificati anni di solitudine, di dolore, di domande lasciate senza risposta, ma anche di momenti di felicità improvvisa, insieme ad altri completamenti assurdi e divertenti. I dialoghi fanno parte del piano. Sembrano fatti di niente, eppure alla fine del film si capisce che scavano a fondo, che stanno dicendo cose fondamentali.
Ci sono due scene per me indimenticabili: la prima è il momento in cui, dopo la cena, la figlia del capo del villaggio entra nella stanza e si avvicina ad ogni uomo per portare una tazza di té. Sul vassoio che porta in mano c'è una lampada ad olio che illumina uno dopo l'altro i loro volti distrutti. E questa presenza femminile, la sua giovinezza, la sua innocenza, la sua bellezza, sembra davvero rappresentare la sola luce e il solo conforto (tra l'altro personalizzato: l'idea geniale di dare ad uno degli assassini, anziché il té, una lattina di coca-cola come aveva inopportunamente richiesto durante il pasto) alle loro vite oscure e senza speranza.
L'altra è quella, semplicissima e straordinaria, in cui il medico, arrivato al mattino nel suo studio, finalmente solo, con un movimento lento alza gli occhi e si mette a guardare dritto davanti a sé. In realtà, si sta guardando allo specchio. Ma noi non lo sappiamo, ancora, e per un lungo, meraviglioso istante, pensiamo semplicemente che quell'uomo stia guardando noi, noi spettatori. I suoi occhi sono puntati nei nostri occhi e come per osmosi la sua storia diventa la nostra, e quella di ciascuno di noi la sua. Perché, in fondo, non importa da che epoca, storia, ceto sociale, razza, religione, o paese proveniamo, siamo tutti, inesorabilmente, inevitabilmente, imperfetti esseri umani destinati a morire.
Persino Tarkovskij, io credo, non avrebbe saputo esprimerlo meglio.
Persino Tarkovskij, io credo, non avrebbe saputo esprimerlo meglio.