martedì 25 gennaio 2011

Life on Mars

I was having an apéro with a friend, tonight.
Kind of a new friend, who doesn't know much about my past life. We have in common this passion for TV series, and we talk endlessly about them (especially Mad Men). We usually see each other at the Bistrot à vins of the Cinéma des Cinéastes, one of my favourite cinemas in Paris. We were walking down the stairs after a couple of Macon Blanc when he stopped, looked at me and said: "You know, we (meaning he and his girlfriend) have tried to see this British series, Life on Mars, yesterday but... I don't know, there's something about it... I don't get it. I simply don't get it". For a moment, I stopped breathing. I looked puzzled at him. I couldn't speak. When I managed to talk again, I just said: "I love that series, it saved my life".

I know that, usually, when you say things like that people tend to think you are overdoing.
But I'm not. I bought the box set of Life on Mars - Season 1 on the saddest day of my entire life. When I bought it, I didn't know about it. And so, I always guessed that some weird cinema gods looked down at me on that particular day and made me buy it.
It was October 2007.
I had read few days before in a cinema magazine about this series. They mentioned the plot: Manchester cop who has a car accident on 2006, woke up in Manchester on 1973. I bought it, straight away, without even thinking twice. I have been raised at bread and British TV series, I didn't need any further detail to be convinced. The reason why it is called Life on Mars is that the cop in 2006 is listening to the Bowie song on his I-pod, while when he woke up in 1973, it is the hit single he could hear on his Ford Mustang radio.
If it wasn't for Life on Mars, that night, I would have probably walked slowly from Montmartre to the river Seine and drowned myself in some spectacular places near the Pont Neuf. But I dind't, because I started to watch Life on Mars and I wanted to see how it keeps going (and, plus, I knew there was a Season 2 to be seen!): I was already in love with John Simm character, with Philip Glemister character, with Manchester in the '70s, with the witty and intelligent dialogues, with everything.

After that night, I sometimes think about the other myself who is still somewhere there, on the bottom of the river. Like Ada MacGrath in The Piano by Jane Campion imagined herself at the end of the movie: the other self, the one that remained in the dark depth of the ocean. With all that silence around her.
Life on Mars brought me back to Life on Earth.
And this maybe finally gives an answer to the famous Bowie question: Is there Life on Mars?

Apparently yes, there is.
At least for me.


domenica 16 gennaio 2011

Deux de la Vague

Tanti anni fa, la vostra Zazie ha seguito un corso di storia del cinema francese al Centre Galliera di Genova.
Era un corso molto interessante, tenuto da una simpatica maestra. Arrivata alla lezione sulla Nouvelle Vague, la maestra mi ha guardato e ha detto: "
Ecco, questa la fai tu. Io non me la sento, con te in classe".
La breve premessa per farvi capire cosa possa significare, per me, andare a vedere un documentario sul rapporto di amicizia (finito male) tra
François Truffaut e Jean-Luc Godard, considerati i due esponenti di punta del movimento cinematografico che più di ogni altro ha rivoluzionato il modo di fare cinema, non solo in Francia ma nel mondo. Significa, più o meno, sentirsi a casa.
E' quello che mi è accaduto ieri all'Espace Saint Michel vedendo scorrere le immagini del documentario Deux de la Vague, di Emmanuel Laurent e Antoine De Baecque. Quest'ultimo è anche l'autore delle biografie più esaustive mai scritte su entrambi i registi (quella su Truffaut è uscita nel 1996, comunemente detta "La Bibbia" a casa mia, quella su Godard è uscita nel 2010). Insomma la vicenda è giustamente raccontata da uno che sapeva due o tre cose di loro, e si vede. Truffaut e Godard non potrebbero avere storie più diverse: il primo proviene da una famiglia povera (figlio non voluto e non amato) e interrompe gli studi giovanissimo, il secondo fa parte di un’agiata famiglia svizzera, e frequenta scuole prestigiose. Ad accomunarli, sarà la passione cinefila. Si incontrano negli anni ’40 in un cineclub fondato da Eric Rohmer nel Quartiere Latino, e trascorrono letteralmente tutte le loro giornate al cinema, o per meglio dire alla Cinémathèque gestita da Henri Langlois. Dalle sale oscure alla critica cinematografica il passo è breve: entrambi si ritrovano negli anni ’50 a far parte della redazione dei Cahiers du Cinéma, insieme al resto della banda dei “Giovani Turchi”: Chabrol, Rivette, Rohmer, Resnais ecc. Truffaut diventa famoso per i suoi attacchi virulenti contro il cinema francese dell’epoca. Si fa odiare talmente tanto che gli organizzatori del Festival di Cannes del 1958 gli impediscono l’ingresso alle proiezioni. L’anno successivo, tuttavia, Truffaut trova il modo di “vendicarsi”: al Festival di Cannes ci va, ma come regista. Les 400 Coups vince il premio per la miglior regia e il giovane Jean-Pierre Léaud, protagonista assoluto del film, viene letteralmente portato in trionfo. E’ il segnale di partenza: tutti i critici dei Cahiers si mettono dietro la macchina da presa e iniziano a sfornare i loro primi film. E’ anche la nascita ufficiale della Nouvelle Vague. Godard, che vuole passare al lungometraggio, chiede una mano a Truffaut sia per trovare una buona storia che per trovare un produttore. Truffaut gli passa un soggetto scritto poco tempo prima su un fatto di cronaca che lo aveva affascinato e poi, insieme a Chabrol, si fa garante per l’amico nei confronti del produttore De Beauregard. E’ così che vede la luce quel capolavoro intramontabile di A bout de Souffle. Da quel momento in poi, i due amici seguiranno con affetto le loro rispettive carriere, aiutandosi a vicenda nei momenti del bisogno. Nel 1967, Truffaut co-produce il film di Godard Deux ou trois choses que je sais d’elle, e contemporaneamente scrive un articolo per i Cahiers du Cinéma nel quale definisce Godard “il più grande regista del mondo”, ricoprendolo di elogi. Gli amici saranno di nuovo fianco a fianco l’anno successivo, per il cosiddetto Affaire Henri Langlois. L’allora Ministro della Cultura André Malraux decide di sollevare Langlois dal suo incarico di direttore della Cinémathèque e tutti i registi della Nouvelle Vague, praticamente cresciuti in quei locali, organizzano manifestazioni di protesta (vincendo la loro battaglia, perché Langlois riavrà il suo posto). Nel maggio 1968, eccoli al Festival di Cannes, dove decideranno insieme ad altri registi di dichiarare chiusa la rassegna in segno di solidarietà nei confronti di studenti e operai che manifestano ovunque in Francia. Ma è l’inizio della fine. Godard da questo punto in poi cambierà tutto: vita, amici, e persino il tipo di cinema che fa. La politica spazza via tutto il resto. Per Truffaut, la politica è quanto di più lontano ci possa essere dal suo mondo e, di sicuro, non ha nessuna voglia di cambiare il tipo di storie che ama raccontare al cinema. La frattura si fa sempre più insanabile, ma scoppia nel momento in cui esce La Nuit Américaine di Truffaut nel 1973. Godard odia il film e scrive una lunga lettera di insulti a Truffaut, includendo nella missiva una lettera per Jean-Pierre Léaud, attore che in tutti quegli anni si è diviso tra i due registi (e che ora i registi sembrano contendersi, un po’ come farebbe una coppia che si sta separando con il proprio figlio). Truffaut gli risponde con una lettera (tanto famosa quanto meravigliosa) di 20 pagine che ben si riassume in una delle sue prime frasi: Jean-Luc, penso che sia venuto il momento di dirti, lungamente, che ti comporti come una merda. Truffaut gli restituisce anche la lettera che ha scritto a Léaud: l’ho letta e l’ho trovata disgustosa, non la consegnerò mai a Jean-Pierre. L’amicizia è finita per sempre. I due non si vedranno mai più. Neppure quando Truffaut sta morendo in ospedale di un cancro al cervello a soli 52 anni, nel 1984.
Deux de la Vague ripercorre e riassume tutto questo nella giusta maniera. Non è un documentario bouleversant, ma è un ottimo e preciso lavoro di ricostruzione. Un po’ inutili le immagini dell’attrice Isild Le Besco che vaga per Parigi, sta seduta in un cinema o sfoglia in silenzio i giornali d’epoca. Non toglie e non aggiunge nulla. Ho apprezzato invece che il film cerchi di raccontare in maniera obiettiva lo svolgimento dei fatti, senza stare dalla parte di uno o dell’altro. Certo, fornisce tutti gli elementi per formarsi un’opinione in merito ai due registi. Sul loro cinema, ciascuno potrà pensarla come vuole. Dal punto di vista umano, invece, a me pare che di dubbi non ce ne siano. Ma, lo ammetto, su questo non sono la regina dell'obiettività.
Abito di fianco al Cimitero di Montmartre.
Do you know what I mean?


giovedì 13 gennaio 2011

The Cinema of Mike Leigh

Do you remember when I wrote that there are film makers able to change your life?
British director Mike Leigh is one of those, for Zazie.
There are no directors as Leigh capable of making you feel unsettled. 

He has this incredible capacity to touch the most vulnerable parts of you: to show the weakness, the stupid vanity, the misery, the unhappiness, the complexity of human minds and souls. And yet, he does that with such compassion, that you also feel accepted and loved, besides all your flaws. Leigh’s movies are cathartic, deep, witty and tragic at the same time. In many cases, they also are, as far as I am concerned, simple masterpieces.
Since his debut in the early ’70s at the BBC, Leigh showed his skills to reflect the absurdity and ridiculousness of modern society with a merciless sense of humour and a love/fascination for real losers. Did you like the cruelty of
The Office (British version, of course)?, then you will be crazy about his Abigail’s Party, where a middle-class couple sets up at their place a fancy apéro for few friends. 

A jewel! 
Leigh’s first feature film, Bleak Moments (and believe me, you got exactly what the title promises you), is dated 1971 and it has been followed by a bunch of great movies such as Hard Labour, Meantime, High Hopes, Life is Sweet
In 1993, Leigh wrote and directed one of the best films of the ‘90s, the tough and gloomy Naked, for which he won a prize at the Cannes Film Festival as Best Director. 
The Palme D’or arrived in 1996, thanks to the MAGNIFICENT Secrets and Lies (the story of a young black woman who, once her adoptive parents are dead, goes in search of her real mother) and the Golden Lion in 2004 thanks to Vera Drake (the story of a woman practising abortions in the London of the early ‘50s).
Naked
Secrets and Lies
Vera Drake
Leigh is famous for his particular way of working, especially with actors. 
Once the cast of a movie is done, he starts rehearsal few months in advance and then, at the moment of filming, the shooting is very quick, because actors are so much into their characters that they don’t need any further indication. Leigh’s method proved him right, because the performances of his actors are always outstanding and they are regularly covered with prizes. The other interesting thing is that he tends to always use the same people. You can even find on internet a chart with all the recurrent names in Leigh’s movies. Among the most “familiar” ones, there are Alison Steadman (who’s been Leigh’s wife for almost 30 years), Peter Wight, Ruth Sheen, Lesley Manville, Jim Broadbent, Phil Davis, Timothy Spall, Brenda Blethyn, Imelda Staunton, David Thewlis and the late Katrin Cartlidge (I miss her so much!):
The other day I went to see Leigh’s last movie, Another Year, and, once again, I was puzzled by his capacity of showing the ups and downs (especially the downs, actually) of human life. Tom and Gerri (yes, that’s funny), a middle-aged couple, have their own routine: to work, to take care of their little garden, to see once in a while their only child Joe and to have dinner with few friends. Tom and Gerry look genuinely happy. Two very lucky people: lucky to have found each other, to have nice jobs, a common passion for gardening and a lovely son (who has just introduced them his nice girlfriend). You can’t say the same about their friends Mary, a middle-aged single woman with a collection of bad love affairs and a serious alcoholism problem, or Ken, who’s facing exactly the same difficulties. Seasons pass but things don’t change, and once winter arrives, Mary’s condition looks more desperate than ever.
Quintessentially Leigh-esque, Another Year is a new great example of his humanity: Mary and Ken can be so unbearable, so hopeless, that you can easily decide to hate them, but if you allow yourself to get close to them (because this is the scary thing about Leigh's movies: you constantly think that that man/woman can actually be you), you will realize how much you feel for them. The Winter chapter is perfect in its simplicity: even the way Leigh is filming, with that cold and grey light, with the characters ready to surrender to their faith, to the cruelty of life.
High Hopes are gone, and we are left just with the Bleak Moments.
But, at least, we are not alone in this world.





mercoledì 5 gennaio 2011

My name, is Michael Caine

E insomma ecco che per puro caso vengo a scoprire che Sir Michael Caine terrà una Master Class al Forum des Images.
Il Forum des Images è un posto davvero bello, peccato solo che si trovi all’interno delle Halles (che è forse il posto più brutto di tutta Parigi): ha diverse sale cinematografiche con un’ottima programmazione, un caffé, tantissimi eventi cinefili, e una biblioteca specializzata in cinema che si chiama François Truffaut. Insomma, ha tutto quello che serve per piacermi.
Le Master Class del Forum sono famose: invitano un regista o un attore o uno sceneggiatore, e lo fanno parlare per due ore davanti al pubblico (di solito in un Q&A con Pascal Mérigeau, critico del Nouvel Observateur). Mica male. Peccato sia praticamente IMPOSSIBILE trovare un posto, per queste lezioni. Io ci avevo già provato con James Gray, Xavier Beauvois, Barbet Schroder e per lo sceneggiatore di Dexter, ma niente da fare. Così, quando ho tentato con Michael Caine e mi hanno confermato l’acquisto del biglietto (5 Euro, per Michael questo ed altro), ero fuori di me dalla gioia!
Seduta in un buon posto in quarta fila, le luci si sono spente e voilà: sullo schermo sono apparse le immagini di alcuni dei film più importanti di una carriera cinematografica sterminata (più di 150 pellicole all’attivo). Quando le luci si sono riaccese è comparso lui: Sir Michael Caine, 77 anni, tutto di nero vestito, barba bianca e occhiali sottili sugli occhi chiari. La classe, quoi! Doverosa standing ovation del pubblico (gente di tutte le età, ma età media comunque molto giovane) e poi lunga chiacchierata con questa persona eccezionale. Io devo dire la verità: Caine lo amo molto come attore, ma come essere umano lo trovo addirittura irresistibile. Anche perché rappresenta tutto un mondo, quello dell’Inghilterra degli anni ’60-’70, con quello stile così cool: abiti tagliati in Savile Row, montatura scura dell’occhiale, sigaretta sempre all’angolo della bocca, sguardo un po’ truce e british sense of humour in dosi massicce, il tutto condito dall’accento cockney più poderoso che si sia mai sentito.
Nato nel 1933 in una famiglia della working-class londinese (e cresciuto in un quartiere al limite del malfamato), Caine non era certo destinato ad una vita di privilegi. Al suo ritorno dalla guerra di Corea, ha iniziato a sbarcare il lunario con mille lavoretti, poi la sua passione per la recitazione l’ha portato a teatro (per 9 anni) e infine è approdato un po’ per caso al cinema, senza mollarlo più. “A Londra negli anni ’60 tutti prima o poi diventavano famosi, tutti tranne me”, ha raccontato. In quel periodo divideva l'appartamento con "un certo" Terence Stamp che, diventato appunto famoso dall’oggi al domani, se lo portava sempre appresso perché Caine avesse finalmente qualcosa di decente da mangiare. La fama, alla fine, è arrivata anche per lui: il primo film importante è stato Zulu (1964), seguito a ruota da una manciata di film che hanno fatto epoca: The Ipcress File (1965), Alfie (1966), The Italian Job (1969) e Get Carter (1970). In quegli anni, persino il fatto che il protagonista maschile portasse un paio d’occhiali era stata una specie di piccola rivoluzione. Nel 1972, Caine viene chiamato a recitare in un film molto particolare, una sorta di “film da camera”, con due soli attori in scena: Sleuth. Solo che quello che recita con lui, è il più famoso attore del mondo, Sir Lawrence Olivier, del quale Caine ancora oggi parla con assoluta ammirazione: “Olivier mi ha fatto il complimento più bello che abbia mai ricevuto. Alla fine delle riprese mi ha detto: pensavo di avere un assistente, invece ho avuto un partner”. Trascinato dal successo, Caine si trasferisce a vivere a Hollywood. Nel 1985, riceve il suo primo premio Oscar grazie ad un film di Woody Allen, Hanna and her sisters (in caso di rogo, il DVD di questo film lo salvo sicuro!), il secondo lo riceve invece nel 1999, per The Cider House Rules. Caine è stato bravissimo a raccontare se stesso: ha mischiato il pubblico con il privato (racconti su John Huston che gli propone al telefono di recitare in un suo film e lui non ci crede, racconti sui modi bizzarri in cui il padre e la madre percepivano il suo successo), non ha mai perso il senso del ritmo né il sense of humour ("danno così tanti dei miei film in TV alle due di notte, che tutti pensano che io sia già morto") ed è stato sincero anche sui momenti meno belli (quando era stanco di girare, quando ha capito che a causa della sua età la condizione di film star aveva i giorni contati). Sembrava genuinamente felice di essere a Parigi e ha annunciato con orgoglio che il giorno dopo avrebbe ricevuto la Légion d’Honneur de la Republique Française. Prima di andarsene, infine, ha teneramente rivelato che venerdi sarà il suo 38° anniversario di matrimonio e ha chiesto alla moglie, Shakira, una bellissima signora indiana seduta tra il pubblico, di alzarsi in piedi perché potessimo farle gli auguri.
Caine (questa è la cosa che più mi ha colpito di lui) ha confessato di aver sempre adorato il cinema e gli attori, e che per tutta la vita gli è sembrata una cosa straordinaria, quasi da non credere, il fatto che lui facesse effettivamente parte di questo gruppo di persone. Persino quando era a Hollywood, e Shirley MacLaine gli organizzava un party di benvenuto, Caine perdeva la testa nel veder arrivare Frank Sinatra o Gloria Swanson, o nell’incontrare Fred Astaire al supermercato mentre faceva la spesa con un sacchetto di plastica in mano.
Un giorno, passeggiavo per Beverly Drive, e incrocio queste due vecchie signore, due attrici mitiche dell’epoca d’oro di Hollywood, io le guardavo ammirato, senza avere il coraggio di fermarle. Era l’anno in cui ero stato candidato all’Oscar per Educating Rita. Mi hanno avvicinato loro e con aria sorniona mi hanno detto: hey, noi abbiamo votato per lei!”.
E chi, Sir Michael, non lo farebbe?







lunedì 3 gennaio 2011

Distant Voices, Still Lives

I have few certainties in life, and one of them is that British and Irish actors are the best in the world.
This is something I have learnt through the years, watching hundreds and hundreds of movies. It is difficult to define what makes the difference, it is probably a combination of qualities, their theatrical training and also the evidence that they could express the complete range of human feelings without much trouble. Less flamboyant than the American actors, but richer in subtlety, sharpness, and intensity, British actors are a category of their own. This is why I was immensely sad this morning, when I read we have lost one of them.

When I think about Pete Postlethwaite, I think about one of my fondest cinema memories.
I was 19 years old and already a cinema freak, craving for special, vibrant, outstanding movies, when I saw one of these precious and rare pictures in a Milan cinema: Distant Voices, Still Lives by British film-maker Terence Davies (who is, by the way, an absolute genius). Incredibly enough, the movie was in Original Language (I still remember people quitting the line when they heard the news!!!), and once the movie started I understood why: there were just few dialogues, many silent moments and a lot, a lot of songs. It was a movie with an incredible personality, an incredible light, an incredible cast. Based upon the film-maker’s family history, it was set in Liverpool and it was unbelievably sad and gloomy. I was crazy about it. Postethwaite played the Father, and not a very nice one (quite the opposite: abusive of his wife and children, a terrifying human being) but his particular face and his way of acting marked me for ever.
Few years later, I saw him playing another father, but a completely different one: he was Giuseppe Conlon, the good, sympathetic, humble dad of Gerry Conlon (Daniel Day Lewis) in In the name of the Father by Jim Sheridan, the movie based upon the real history of the Guildford Four, innocent Irish people accused of having put a bomb in a Guildford pub during the 70s. If somebody needed the confirmation of his talent, that movie was there to prove it. To watch him playing with Daniel Day Lewis was just amazing. The pain you feel looking at them suffering, struggling towards the entire movie, was almost unbearable. This was also the movie that turned him into a famous actor. He received an Academy Award nomination for Best Supporting Role and his career in the US was launched: he played Mr. Kobayashi in The Usual Suspects by Bryan Singer, he had an important role in Romeo + Juliet by Baz Luhrman and then Steven Spielberg (who once defined him as "the best actor in the world") called him to work in two of his movies: Jurassic Park and Amistad. Postlethwaite never stopped working in the UK, though, and he was in some very good pictures, like Brassed Off by Mark Herman and Among Giants by Sam Miller, and he also never stopped going on stage (he starred as King Lear in a 2008 production of Liverpool Everyman Theatre).
Recently, I was happy to find him in a great BBC TV series: Criminal Justice, in the role of Ben Whishaw’s fellow prisoner. I think movies set in jail suited him very well: in a very small place, his talent simply exploded, obliging the actors in front of him to give the best of them, and especially the young ones. He also had a small role in Inception by Christopher Nolan, as the dying father of Robert Fischer (the character played by Cillian Murphy), but his most impressive recent performance was in The Town, by Ben Affleck.
I was puzzled by his appearance: he was so skinny, almost skeletal, and he didn’t need to be that for the role. I immediately understood he was ill: his face was even more expressive, with his eyes looking even more sharply. You could see he was fighting against something very harsh. As the bad guy Fergus Colm, who runs his illegal/criminal business in a nice flower shop, Postlethwaite was just... perfect. He made think of a monk, an ascetic, who has finally reached the core of his existence, giving up on useless and frivolous things.

In a 2009 Q&A piece by The Guardian, to the question: What makes you feel depressed?, the actor replied: That life will come to an end.
I wonder if he knew how depressed he made us all today.




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