lunedì 31 maggio 2010

Hanno tutti ragione

Ci sono registi che non sono solo registi, ma molto di più.
Ci sono registi che non solo sono bravissimi a fare film, ma che se si cimentano in un'altra forma d'arte, ti fanno subito pensare:
ma allora questo ha talento da vendere a chili al mercato!
Ecco, Paolo Sorrentino rientra nel novero di questi fortunati pochi.
Leggenda narra che nei tempi morti tra un film e l'altro (Sean Penn gli ha detto sì per il suo prossimo lavoro ma aveva impegni precedenti e quindi ritardava la sua disponibilità), non sapendo che fare, Sorrentino si sia messo a scrivere un romanzo.
Il risultato è un libro strepitoso e folgorante, tale e quale il suo cinema:
Hanno tutti ragione, edito da Feltrinelli, probabilissimo prossimo Premio Strega.
Protagonista assoluto, one-man-show di questo libro, lui, il mitico Tony Pagoda,
quarantaquattro anni carichi e feroci: cantante da night, crooner de noantri, Frank Sinatra dei poveri.
Il romanzo è praticamente la storia della sua vita, dall'apice del successo negli anni '70 (la narrazione si apre con la descrizione di un suo concerto a New York dove tra il pubblico assiste Sinatra in persona), sommerso dalla cocaina e circondato da puttane d'alto bordo, alla sua decisione di mollare tutto: famiglia, carriera, Napoli, stravizi, per trascorrere quasi 20 anni in Brasile in assoluto anonimato e nullafacenza, con gli scarafaggi di Manaus come unica compagnia, sino al rientro nella madre patria per volontà di un politico miliardario dalle fattezze neanche tanto vagamente berlusconiane, dove Pagoda trova un'Italia in completa decadenza fisica e morale, quella dei nostri (tristi) giorni.
Nel mezzo, c'è posto per tutto, ma veramente tutto: l'elenco di quello che non sopporta il suo maestro Mimmo Repetto all'alba dei suoi 100 anni (la prefazione più folgorante che io ricordi), la nostalgia (canaglia,
ça va sans dire) per Beatrice, il più grande amore della sua vita, lezioni di seduzione per uomini bruttini, dibattiti filosofici sulla supremazia della pizza rispetto al ripieno, il terribile senso di angoscia creato da un comodino vuoto, Peppino di Capri, la perdita della verginità, sogni di gioventù infranti, la rassegnazione al tempo che passa, l'apologia degli scarafaggi, personaggi inverosimili e inquietanti, monologhi sulla decadenza dei tempi moderni, e la strofa di una canzone melodica all'inizio di ogni capitolo (Sorrentino tira fuori chicche dimenticate del tipo: L'imponderabile confonde la mente, a firma Anna Oxa).
Lo stile con cui questo torrente di vita ci viene raccontato, è un altro miracolo del romanzo.
Tony ha il suo modo di vedere le cose, di parlarcene, di spiegarle, è una specie di Holden Caulfield dei bassi napoletani sotto acido, the king of the stream of consciousness partenopeo, che sbraita, impreca, si incazza, ma ha anche i suoi momenti di assoluta poesia, spiazzanti e commoventi. Insomma, Tony è uno che ci sa fare, che ci incanta, ammettiamolo: è impossibile resistergli, perché Pagoda è uno con mille difetti, ma non quello di non aver saputo vivere fino in fondo tutto quello che l'esistenza gli ha regalato e tolto, e questo suo coraggio ci fa un po' invidia.
Pagoda non sa cosa sia il politically correct, e ha quindi le palle per verbalizzare pensieri nascosti, paure inconfessabili, e quelle meschinerie dell'animo umano di cui tutti noi, nessuno escluso, ci vergognamo da morire.
Io, se proprio devo trovarci un difetto, ma faccio fatica, ho trovato piuttosto terrificante tutta la parte ambientata a Manaus: in quelle pagine c'è una cupezza difficile da scrollarsi di dosso, con un paio di esagerazioni qua e là. Ma è poca roba, rispetto al livello davvero notevole di tutto il resto. E a perle di saggezza come questa:
Devo solo distrarmi. La distrazione. La massima invenzione dell'essere umano per continuare a tirare avanti. Per fingere di essere quello che non siamo. Adatti al mondo.

Perché hanno tutti ragione, è vero, ma Tony Pagoda di più.
A quando il film?

martedì 18 maggio 2010

Lola (o della felicità di andare al cinema)

Avete presente quando siete innamorati di una persona ma state con lei da un po’ di tempo e poi un giorno, mentre fate qualcosa di assolutamente banale, la guardate e pensate: oddio, quanto l’amo! Avete presente? Ecco, a me con il cinema capita continuamente.
In questo blog ho già dedicato diversi post al mio amore incondizionato per i film, ma a quanto pare le dichiarazioni non sono mai abbastanza.
Lo scorso fine settimana sono andata in un posto bellissimo di mare con alcuni amici, che in effetti non è una di quelle situazioni in cui uno normalmente pensa ad andare al cinema, poi però è capitato di dover passare alcune ore in attesa di un treno, e la tentazione è stata troppo forte.
Ero già stata un paio d’anni prima in questa città (La Rochelle), e mi ricordavo di un bellissimo cinema con un’ottima programmazione (e ne approfitto per fare tutti i miei complimenti a La Coursive, polo culturale che propone spettacoli di teatro, danza, mostre e, appunto, cinema di altissima qualità). Ci siamo passati davanti, ho fatto una corsa per vedere quello che proponeva, in pratica avrei visto due di tutto, ma in effetti un solo film coincideva con i nostri orari: Lola, di Brillante Mendoza. Non ne sapevo molto, così ho letto la trama, e lì ho capito che non potevo resistere. Avevamo tutti fame, però, e avevamo solo tre quarti d’ora prima del film (sì, avete capito bene, per un attimo avevo davvero convinto i miei amici a venire con me), quindi ci siamo seduti ad un ristorante dove non venivano mai a prendere l’ordinazione, dal quale siamo fuggiti per mangiarci in piedi una orrenda crêpe fatta dalle due tipe più lente che io abbia mai visto al lavoro. Nell’attesa, una mia amica ha detto la frase da non dire: "Bhé, in fondo anche se arriviamo un po’ in ritardo non è grave". L’ho guardata inorridita. Ovviamente non esiste proprio che io arrivi a film già iniziato, è un sacrilegio che non ho praticamente mai compiuto. Ho istintivamente pensato a quella scena della Nuit Américaine di Truffaut dove la ragazza di Alphonse (Jean-Pierre Léaud) gli propone di andare a cena e lui la guarda stranito e serissimo dichiara: "Allora, abbiamo la fortuna di stare in una città con un numero altissimo di cinema, quindi adesso decidiamo un film, passiamo davanti al cinema per controllare che l’orario sia giusto (questa è la mia frase preferita!) e poi, se c’è tempo, mangiamo un panino al volo, ecco quello che facciamo". Insomma siamo arrivati davanti al cinema in tempo per comprare i biglietti, ma a quel punto è spuntato un raggio di sole e i miei amici hanno cominciato a dubitare. "Quanto dura?" mi hanno chiesto. Sono andata a controllare: 1 ora e 50 minuti. "Lunghetto, eh?" hanno commentato. Io a quel punto ero in totale fibrillazione. "Allora? Venite o no?" Li ho lasciati che ancora confabulavano tra loro e mi sono comprata il biglietto. Poi li ho guardati dal corridoio a vetri del cinema, mi hanno fatto un segno dal quale ho dedotto che ci saremmo visti dopo il film. Li ho salutati e mi sono precipitata dentro il cinema.
Io non ve la posso spiegare questa felicità che mi prende entrando in una sala cinematografica. La sala era davvero bellissima, tra l'altro: nuova, con poltrone comodissime, e c’era anche un bel po’ di gente (francesi, vi voglio bene, sappiatelo, perché riempite le sale cinematografiche a tutte le ore!). Poi è iniziato il film, e io ho pensato che era stato meglio non aver trascinato i miei amici a vederlo. Non me l’avrebbero perdonato tanto facilmente. Lola racconta di due anziane signore di Manila che il destino fa incontrare perché il nipote di una ha ammazzato il nipote dell’altra. E’ un classico film da festival cinematografico (e infatti era in concorso a Venezia 2009): lento, con pochi dialoghi, che racconta una realtà di una tristezza e di una povertà sconfinate. Non esattamente il film per passare due ore in allegria. Eppure, io ve lo dico, mi sentivo beata. La pioggia torrenziale, la luce di una scena in cui una barca con sopra una bara scorre sul fiume in mezzo a delle case-palafitte poverissime, il sorriso disarmante di una delle vecchine. Mi faceva felice tutto.

All’uscita, quando ho ritrovato i miei amici, ho capito che eravamo tutti più contenti. Loro si erano goduti il sole e avevano mangiato ostriche, io ero stata un paio d’ore a Manila.


mercoledì 5 maggio 2010

Dreams burn (but in ashes are gold)

I went to see a couple of American pictures last week, and I was quite convinced that I would talk about one of them, Life during wartime by Todd Solondz, but it turns out (as it often happens in life, when you expect one thing and you get another) that I prefer to talk about Greenberg by Noah Baumbach.
I always thought that cinema is one of the best cures against loneliness. You sit down in a place together with other people (and already this means that you are not alone in this world), and sometimes, as a nice bonus, you see on screen a character whose life, whose thoughts, whose ideas say so much to you and/or to what you are going through in a particular moment of your life, that you immediately feel less lost. I don’t know exactly at which point of your life you can consider yourself when you feel very close to a character played by Ben Stiller who’s just got out from a mental hospital (probably not the best one of your entire existence), but that’s what happened to me the other day.

Roger Greenberg is a forty something, once a musician now a carpenter, who arrives from New York to Los Angeles to spend few weeks at his brother’s place (while he and his family are on holiday in Vietnam). Besides taking care of a dog and building a little doghouse, Roger has nothing to do. This gives him plenty of time to catch up with some old mates (he has been living in Los Angeles before moving to the Big Apple 15 years before) and even with his ex-girlfriend, Beth. This also gives him the opportunity to meet Florence, the personal assistant of his brother, with whom he starts a weird relationship. Through different events, Roger’s complex personality and various problems (he has spent some time in a mental institution before his trip to LA) become quite clear to everybody (audience included). In particular, the discussions with Ivan, his oldest friend, oblige Roger to call his past and his decisions into question. The final results of this painful process are probably not the ones he was hoping for, but Greenberg eventually finds the strength to start a new (and happier?) phase of his life.

Noah Baumbach is a very subtle and brilliant film-maker (The Squid and the Whale, Margot at the wedding) and screenwriter (his has written two movies together with Wes Anderson), but I think Greenberg is his most mature and compelling work (the story has been created together with his wife, actress Jennifer Jason-Leigh, who also plays Beth in the movie).
Greenberg, the best performance of Ben Stiller’s caree, is not a very nice person. He is gloomy, unsocial, unfriendly, self-centred, complicated. His life is a mess. At 40, he has no family, no relationship, no real job and not many friends. He is not at ease with world and the world is not at ease with him (the letters of complaint he is writing all along the movie to different American companies are hilarious but also quite disturbing). He wants to better understand his past hoping that this will help him to better understand his present, but his clumsy attempts to do so turn into failures (the scene where he says to his ex-girlfriend that they could have had children together many years before and she looks at him in disbelief is a good example). Florence’s character (beautifully played by new-comer Greta Gerwig) is completely different: she is naïve, generous, friendly, curious, and cheerful. She is a mess too, but she has the right to be a mess: she is young. She is also the one who immediately understands Greenberg’s real nature and his fragility (and loves him for that). And I can’t forget to mention Ivan (great, great, great Rhys Ifans, I love this actor!), the perfect counter-balance to Greenberg’s incapability of accepting changes imposed by ageing.

I have seen this picture with some (younger) friends and I was absolutely aware, since the very beginning, that we were looking two different movies or, at least, that my perception of this movie would have been completely different from theirs.
The difference lies in our gap of 15 years (this was especially clear when, at Greenberg’s idea of having Duran Duran as the perfect music for a coke party, I madly laughed and they didn’t).
Of course! They are twenty something, they still have to make one of those fatal mistakes you pay very high, and they still have to take one of those bad decisions, the ones able to ruin your career or your private life.
At forty, well, you usually had the chance to have made at least one of those stupid things.
So, while they were probably trying to understand the meaning of Ivan’s statement: Life is wasted on young!, I was already agreeing to Greenberg’s bitter reply: Life is wasted on people!

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