Ci sono registi che non solo sono bravissimi a fare film, ma che se si cimentano in un'altra forma d'arte, ti fanno subito pensare: ma allora questo ha talento da vendere a chili al mercato!
Ecco, Paolo Sorrentino rientra nel novero di questi fortunati pochi.
Leggenda narra che nei tempi morti tra un film e l'altro (Sean Penn gli ha detto sì per il suo prossimo lavoro ma aveva impegni precedenti e quindi ritardava la sua disponibilità), non sapendo che fare, Sorrentino si sia messo a scrivere un romanzo.
Il risultato è un libro strepitoso e folgorante, tale e quale il suo cinema: Hanno tutti ragione, edito da Feltrinelli, probabilissimo prossimo Premio Strega.
Protagonista assoluto, one-man-show di questo libro, lui, il mitico Tony Pagoda, quarantaquattro anni carichi e feroci: cantante da night, crooner de noantri, Frank Sinatra dei poveri.
Il romanzo è praticamente la storia della sua vita, dall'apice del successo negli anni '70 (la narrazione si apre con la descrizione di un suo concerto a New York dove tra il pubblico assiste Sinatra in persona), sommerso dalla cocaina e circondato da puttane d'alto bordo, alla sua decisione di mollare tutto: famiglia, carriera, Napoli, stravizi, per trascorrere quasi 20 anni in Brasile in assoluto anonimato e nullafacenza, con gli scarafaggi di Manaus come unica compagnia, sino al rientro nella madre patria per volontà di un politico miliardario dalle fattezze neanche tanto vagamente berlusconiane, dove Pagoda trova un'Italia in completa decadenza fisica e morale, quella dei nostri (tristi) giorni.
Nel mezzo, c'è posto per tutto, ma veramente tutto: l'elenco di quello che non sopporta il suo maestro Mimmo Repetto all'alba dei suoi 100 anni (la prefazione più folgorante che io ricordi), la nostalgia (canaglia, ça va sans dire) per Beatrice, il più grande amore della sua vita, lezioni di seduzione per uomini bruttini, dibattiti filosofici sulla supremazia della pizza rispetto al ripieno, il terribile senso di angoscia creato da un comodino vuoto, Peppino di Capri, la perdita della verginità, sogni di gioventù infranti, la rassegnazione al tempo che passa, l'apologia degli scarafaggi, personaggi inverosimili e inquietanti, monologhi sulla decadenza dei tempi moderni, e la strofa di una canzone melodica all'inizio di ogni capitolo (Sorrentino tira fuori chicche dimenticate del tipo: L'imponderabile confonde la mente, a firma Anna Oxa).
Lo stile con cui questo torrente di vita ci viene raccontato, è un altro miracolo del romanzo.
Tony ha il suo modo di vedere le cose, di parlarcene, di spiegarle, è una specie di Holden Caulfield dei bassi napoletani sotto acido, the king of the stream of consciousness partenopeo, che sbraita, impreca, si incazza, ma ha anche i suoi momenti di assoluta poesia, spiazzanti e commoventi. Insomma, Tony è uno che ci sa fare, che ci incanta, ammettiamolo: è impossibile resistergli, perché Pagoda è uno con mille difetti, ma non quello di non aver saputo vivere fino in fondo tutto quello che l'esistenza gli ha regalato e tolto, e questo suo coraggio ci fa un po' invidia.
Pagoda non sa cosa sia il politically correct, e ha quindi le palle per verbalizzare pensieri nascosti, paure inconfessabili, e quelle meschinerie dell'animo umano di cui tutti noi, nessuno escluso, ci vergognamo da morire.
Io, se proprio devo trovarci un difetto, ma faccio fatica, ho trovato piuttosto terrificante tutta la parte ambientata a Manaus: in quelle pagine c'è una cupezza difficile da scrollarsi di dosso, con un paio di esagerazioni qua e là. Ma è poca roba, rispetto al livello davvero notevole di tutto il resto. E a perle di saggezza come questa: Devo solo distrarmi. La distrazione. La massima invenzione dell'essere umano per continuare a tirare avanti. Per fingere di essere quello che non siamo. Adatti al mondo.
Perché hanno tutti ragione, è vero, ma Tony Pagoda di più.
A quando il film?